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Dal GIORNALE dell'8 marzo 2007, un brano dell'ultimo libro di Fiamma Nirenstein, Israele siamo noi (Rizzoli):

La nuova antropologia dell’Occidente a rischio, che anche se ci bendiamo gli occhi vive immerso nello scontro delle civiltà, si deve mutare in prospettiva – che gli piaccia o no – nel volto dello Stato ebraico, del sionismo stesso, che disegna oggi un modello: quello di una democrazia in guerra. Israele è sul confine, noi nelle retrovie, ma siamo nella stessa condizione: dobbiamo conservare il rispetto del diritto, unito alla determinazione a difendere se stessi e i propri cari senza remissione.
È perché questo è vita quotidiana, è perché se un terrorista suicida viene identificato deve esserci qualcuno intorno, e c’è sempre, pronto a gettarglisi addosso e a scoppiare con lui pur di spingerlo lontano dalla comunità: è per questo che si è definito un carattere nazionale nuovo, che consente di difendersi, senza perdere di vista la cultura dei diritti. Il coraggio è una conseguenza di questa educazione: quando piovono le katiushe su Naharia e Haifa, i sindaci hanno un grande problema, come convincere i cittadini a entrare nei rifugi quando la sirena annuncia il prossimo missile: «Tanti saluti a Nasrallah, lo invitiamo a venirsi a godere il mare di Naharia, invece di tirarci le bombe. Noi, comunque, che lo sappia bene, non ci muoviamo di qui, non ci fa paura», fa il bullo alla radio un cittadino che racconta di non aver rinunciato alla sua nuotata quotidiana.
Il tono degli israeliani alla radio è diverso dal nostro fin nelle voci degli speaker: è grave e determinato quando si parla della gente e dei suoi drammi; resta scherzoso e ironico e molto scettico nel racconto delle scelte del potere, ma conserva delle inflessioni militari, riflette ammirazione per l’eroismo dei soldati, disprezzo per le dichiarazioni antisemite di Ahmadinejad, determinazione nel non sopportare le minacce continue di Hamas; quando riferisce che il ministro degli Esteri palestinese Al Zahar ha detto che lui sogna di attaccare alla sua parete una carta geografica senza lo Stato d’Israele, un po’ gli viene da ridere, un po’ si sente che è arrabbiato sul serio. Quando c’è scontro fra opinioni, è radicale, diretto e feroce. Ma c’è un sottinteso che presso di noi non esiste, ed è che i due o i tre che litigano alla fine abitano nella stessa casa che deve essere salvata dal fuoco.
Spesso la persona che oggi discute alla radio di politica è stata, nel passato, come Ehud Barak o Bibi Netanyahu, membro della Sayyeret Matkal, l’unità speciale di combattimento, che ha salvato ostaggi sugli aerei e compiuto missioni molto difficili all’estero. Tutti parlano della guerra per esperienza diretta, nessuno si fregia di idee buoniste. Ephraim Sneh, un signore piuttosto grassoccio che è stato viceministro della Difesa al tempo di Rabin, oggi deputato dei laburisti, che alla radio dice le sue opinioni con poche parole borbottate, è stato il medico al seguito della missione a Entebbe. Fra i giovani che incontri a una conferenza o in discoteca, parecchi servono in unità dove le azioni che richiedono un coraggio quasi impraticabile sono la norma. I mistaravim, per esempio, infiltrati fra i palestinesi e nei Paesi arabi, possono per giorni fingersi parte di comunità locali parlandone la lingua e interpretandone perfettamente usi e costumi, fino a che compiono d’un tratto un rapimento o fuggono dopo aver carpito informazioni decisive. La doppia lettura delle parole di un interlocutore che si esprime sui media è centrale nel peso che di fatto, anche senza esserne consapevole, gli dà il pubblico. La radio, la tv, trasmettono, per così dire, sempre fatti oltre che discorsi e questo rende gli ascoltatori, i cittadini, meno manipolabili. Il riscontro è sempre nella storia recente.
I cittadini di Gerusalemme mandano a dire, sempre per radio, a quelli di Haifa che nei giorni in cui il terrorismo suicida non ha risparmiato un angolo, nessuno è scappato da Gerusalemme: «Non vi muovete neanche voi, tenete la posizione, noi vi abbracciamo, come il momento brutto è passato da noi, passerà anche là. Andrà tutto bene, iyyè be-seder». Shkedi, oggi comandante dell’aviazione, figlio di un sopravvissuto dell’Olocausto, dice: «Quando ho conquistato le ali, il giorno in cui a vent’anni sono divenuto pilota, ho sentito che stavo facendo qualcosa che restituiva significato alla vita di mio padre». Il pilota militare che mi ha raccontato che una volta ha fermato un’azione di eliminazione mirata perseguita per mesi perché è uscita una donna da un portone, molte altre azioni, invece, racconta tranquillo, le ha portate a termine: «Perché mi dispiace premere il grilletto, ma mi dispiace molto di più quando salta per aria un autobus perché non l’ho premuto».
La vita di confine che Israele vive non potrebbe continuare senza tutte queste facce della medaglia, senza l’impasto della cultura democratica e dei diritti umani tipici delle democrazie, con la lezione di una vita difficile. Anche le madri devono sapere sopportare per i tre anni della ferma e per tutte le chiamate nelle riserve, anno dopo anno, devono fronteggiare l’evento sconvolgente che il bambino di diciotto anni sia al fronte in condizione di pericolo di vita. Quel figlio, come da noi, è tutto per lei, e la democrazia non consente di costruire ideologie retoriche e guerrafondaie in cui i ragazzi invece che fini diventano mezzi.
Il bambino resta tale anche quando è in missione, non diventa mai uno strumento di Dio o del Popolo. Ma la madre, magari dopo aver scelto di partecipare a tutte le organizzazioni e a tutte le manifestazioni contro la guerra, alla fine è patriotticamente al suo fianco, sostiene il figlio e l’esercito. I cantanti pacifisti durante la guerra si pregiano di esibirsi per la Tzavà.
Il Paese resta unito anche durante uno scontro interno senza quartiere come quello che si è svolto a Gaza nell’agosto 2005, al tempo dello sgombero, dove non a caso il testa a testa dei coloni con l’esercito si è concluso senza morti e feriti. «Io ho ragione perché adempio a una legge dello Stato», ho sentito un soldato dire a un giovane colono che gli rispondeva: «Io ho ragione perché eseguo la volontà di Dio». Dopo questo perentorio scambio di idee, il colono si è lasciato trascinare al pul-lman che per sempre lo sradicava da casa sua. Il primo dovere dell’uomo che sa combattere il terrorismo è la condivisione delle scelte della democrazia: la regola della legge fornisce il ritmo, ma la sopravvivenza è il leitmotiv. Questa melodia è la caratteristica dell’uomo sionista odierno.

Il magazine del CORRIERE della SERA pubblica a pagina 57 un'intervista di Stefano Jesurum a Fiamma Nirenstein, che segnaliamo ai nostri lettori

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