[b]Dal FOGLIO di oggi, 05/05/2007, a pag.2 , l'analisi di Carlo Panella.
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Il rapporto Winograd apre in Israele una crisi ben più profonda di quella, evidente,

che scuote il governo Olmert. Il problema non è solo di una complessiva inadeguatezza dimostrata durante l’estate del 2006 da Ehud Olmert, Amir Peretz e dal capo di stato maggiore Dan Halutz (già dimessosi a gennaio). Sia chiaro: quella contro Hezbollah non è la prima guerra “non vinta” da Israele e i drammatici errori nel condurre le operazioni non sono affatto inferiori a quelli commessi nel 1973 da dirigenti di ben altra statura: l’allora premier Golda Meir, il ministro della Difesa Moshe Dayan e il capo di stato maggiore David Elazar. L’offensiva egizio siriana del Kippur, infatti, prese totalmente di sorpresa Israele, fu arginata solo a prezzo di migliaia di morti israeliani e con una sostanziale sconfitta politica, anche se non militare. Solo Ariel Sharon, che disobbedì agli ordini di Dayan, occupando il lato egiziano del Canale, evitò in extremis una sconfitta disastrosa, provocata da errori di valutazione politica e di strategia militare di Meir, Dayan e Elazar, poi impietosamente denunciati dalla commissione Agranat. Quella crisi fu però superata con le dimissioni di quella dirigenza politico-militare e Israele diede prova di disporre ancora di una straordinaria messe di dirigenti politici e militari che l’ha sostituita e ha segnato la sua storia successiva: Menachem Begin, Yitzhak Rabin, Simon Peres, Ariel Sharon, Ehud Barak e altri. Oggi, invece, dopo Olmert, Peretz e Halutz non è alle viste nessun ricambio adeguato, nessuna nuova leadership, perché è entrato in crisi qualcosa di ben più profondo: il processo stesso di selezione e formazione della classe dirigente. E’ una crisi strutturale, impietosamenteimpietosamente fotografata dallo scandalo di molestie sessuali in cui è inciampato il presidente Moshe Katzav. Israele è l’unico paese mondo in cui il cittadino, uomo o donna che sia, è naturaliter soldato e in cui il soldato è sempre cittadino, in cui vita civile e servizio militare – combattimento in guerra incluso – non hanno nessuna separazione, non temporale, nella biografia di tutti i suoi cittadini. Da qui ha origine la “politica” israeliana, il processo che porta alla formazione di leadership e strategie. Questa straordinaria caratteristica del sionismo haplasmato dal 1920 in poi la formazione i gruppi dirigenti, in questo ambito sono formate le strategie divaricate, le politiche delle diverse leadership. Ma oggi, quel meccanismo è in crisi. Ariel Sharon è stato l’ultimo eccellente prodotto di quella vicenda. Dopo di lui, la sua strategia, così la sua creatura politica, Kadima, sono state rilevate da nuovi leader inadeguati, prodotti da un cursus honorum che dal 1973 oggi li ha sottratti alla logica di una guerra di difesa, appesantiti dal macigno della irrisolta questione dei Territori, da una sensazionesensazione falsa di normalità che hanno prodotto un burocrate incerto come Olmert maestro solo in manovre di palazzo), un sindacalista totalmente estraneo alle logiche militari come Peretz, un generale bloccato dal “complesso del Libano” come Halutz. I possibili successori di Olmert, da Tzipi Livni (cresciuta nel Mossad) a Bibi Netanyahu (che già diede opaca prova come premier) non sono portatori di strategie originali o adeguate, si differenziano dai loro competitor politici e tanto basta, non hanno un progetto. Questo, mentre è tramontato definitivamente lo scenario a cui lavorarono Begin e Sadat, dentro la cornice tracciata da Kissinger: l’impossibilità di una nuova guerra araba prodotta dalla definitiva rinuncia dell’Egitto a combatterla. Questo, mentre Israele dopo il ritiro da Gaza e con la guerra del 2006 deve prendere atto che è fallita l’ipotesi stessa di “pace contro territori”: Israele si ritira e in cambio non ha pace, ma terrorismo e jihad. E’ una novità terribile, di cui l’Europa si rifiuta incredibilmente di prendere atto. La guerra asimmetrica che Iran e Siria hanno radicato in Libano e a Gaza, la certa nuova aggressione di Hezbollah, la debolezza infinita di Abu Mazen a fronte di Hamas, esigono una nuova risposta di lungo respiro, che non può essere il semplice arroccamento difensivo proposto dal Likud. Ma non si vede chi sia in grado di enuclearla. Israele è solo con sé stesso, confrontato con una sensazione di inadeguatezza a fronte delle sfide del jihad montante, di cui i suoi opachi leader sono solo la rappresentazione. E’ un dramma che si irradia da Gerusalemme. E’ un nostro dramma.

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