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[b]Il settimanale Il VENERDI'DI REPUBBLICA pubblica nella sezione Esteri a pagina 48 un’intervista a David Grossman di Paola Zanuttini
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Gerusalemme. Dall’aeroporto di Tel Aviv a Gerusalemme è un interrogatorio senza fine. Ragazzi e ragazze in uniforme, poco più che bambini soldato, chiedono, gentili ma fermi: “Da dove viene? Cosa è venuta a fare?” Alla risposta: “Un’intervista a David Grossman, lo scrittore”, la reazione è unanime. Arretrano con rispetto: “Lo conosco, ha perso un figlio nel Libano”.

Alle cinque del pomeriggio, in un ristorante dove basta un tavolo di avventori tardivi a turbare la quiete, David Grossman sfoglia la prima volta l’edizione italiana del suo ultimo libro, Con gli occhi del nemico, quattro saggi che raccontano la pace in un Paese in guerra e tentano un’impresa titanica, riuscita: far entrare i lettori nei sentimenti e nello sguardo dell’altro, anche se quest’altro è il nemico.

Con il suo tono basso e compreso, parla dell’indifferenza alla tragedia. Ma il vociare, il tintinnio di stoviglie del tavolo vicino, diventa fuori luogo, irritante. Lui se ne accorge: “Che c’è? Ha l’aria preoccupata. Vuole una fetta di torta?”. Evidentemente, sa entrare nella pelle dell’altro, anche se non è un nemico.

Ma la sensibilità e le parole, bellissime, di scrittori come Grossman, Abraham Yehoshua, Amos Oz non sembrano sufficienti per rompere la cortina di assuefazione calata sull’infinito conflitto israelo-palestinese, ormai deviato nella guerra civile palestinese: Hamas contro Fatah. Perché non è più una storia, ma solo un elenco di morti, attacchi e rappresaglie di cui si perde il conto?

“Quando viaggio, non c’è Paese in cui, accendendo la tv o sfogliando i giornali, non trovi notizia di questa guerra, ma è una situazione così complicata che è impossibile aspettarsi che qualcuno, da fuori, capisca cosa succede.

E poi la gente è stufa di Medioriente, di questa guerra fra due tribù, combattuta con armi sempre più sofisticate, ma primitiva nella sostanza. Il mondo la considera una malattia cronica, ma noi non abbiamo scelta, è la nostra tragedia. E quando la gente è stanca si arrende a pregiudizi e stereotipi, è difficile seguire la complessità se perdi interesse. E il linguaggio dei media si adegua, sempre più povero, rozzo, mistificante”.

Provi a riaccendere l’interesse, raccontando con le parole di uno scrittore perché questa guerra tribale è diventata l’ago della bilancia del mondo.

“C’è un piccolissimo pezzo di terra, forse più piccolo della Toscana, da cui gli ebrei furono cacciati duemila anni fa. E c’è il sogno, mai spento, di ritornarci. All’inizio del XX secolo quel sogno si è riacceso, gli ebrei hanno cominciato a tornare, comprando terreni dalle grandi famiglie palestinesi. Gli ebrei avevano l’idea che questa fosse una terra di nessuno, dove poter rifondare la loro patria, ma era sbagliata e accese la consapevolezza e le aspirazioni nazionali dei palestinesi. Che prima non c’erano e che noi abbiamo infiammato. Da allora non ci fu giorno senza spargimento di sangue. Ma questo racconto non si può fare, è impossibile sciogliere il passato, fare giustizia di tutte le ingiustizie, dire chi è più giusto e chi lo è meno”.

Come si chiude una storia che non si può neanche raccontare?

“Quando ci sarà la pace costruiremo un’università sul confine tra Israele e Palestina e gli studiosi siederanno per anni ad analizzare le origini del conflitto, ad attribuire le colpe. E forse, allora un giudizio definitivo sarà irrilevante. Ma oggi dobbiamo guardare solo al futuro, altrimenti è la paralisi. Ogni piccola questione scatena contraddizioni infinite. E la gente diventa sempre più indifferente perché è più consapevole dell’irresolubilità. Anche il carattere religioso preso dal conflitto, e non solo fra i palestinesi, nasce dalla disperazione. Se la gente non vede soluzioni, si affida al cielo. Avviene qui e nel resto del mondo, che si radicalizza sempre più: laici e integralisti, Nord e Sud, estremisti e moderati. Anche Israele è sempre più diviso, forse quel che ci tiene insieme è avere un nemico”.

Perché la cultura del nemico non ha avuto lo stesso effetto fra i palestinesi?

“Hanno visto che con la moderazione non ottengono nulla. In questo senso, il modo in cui, nel 2005, il governo di Ariel Sharon ha trattato il ritiro da Gaza è stato un grande errore. L’ha gestito unilateralmente, senza coinvolgere il presidente dell’Autorità palestinese, Abu Mazen. Poteva essere il segnale per far trionfare i moderati, invece ha acceso la miccia degli estremisti: oggi è opinione comune che il ritiro sia stato provocato dai missili dei fondamentalisti di Hamas. Non che io apprezzi Hamas, ma se Gaza fosse stata considerata il loro banco di prova per dimostrare al mondo che erano in grado di gestire la complessità, la disoccupazione, la fame, posso garantire che dopo sei mesi la maggioranza degli israeliani, stanca di guerra, sarebbe stata pronta a discutere sulla cessione dei Territori Occupati. Invece hanno continuato a spararci addosso missili. Contro il loro interesse”.

Ma qual è l’interesse di Hamas?

“Dimostrare che sono gli unici leader, gli unici difensori dei diritti della Palestina. E dimostrare che non sono corrotti come i dirigenti dell’Olp che girano vestiti in Armani e non danno l’idea di vedere la miseria del loro popolo. Mentre Ismail Haniyeh, il leader di Hamas, vive ancora in un campo profughi a Gaza”.

Anche il presidente iraniano Ahmadinejad ha una Peugeot di trent’anni e si porta il pranzo da casa. Solo immagine?

“Certo che lo è, ma ha il suo peso. E c’è un’altra immagine, allarmante, che si afferma in Israele come in Occidente: quella del popolo palestinese spaccato, diviso. Da una parte Gaza e dall’altra la West Bank. E’ una visione pigra, rassicurante, perché propone un panorama più ordinato, ma temibile, che contrappone i bravi ragazzi moderati delll’Olp ai terroristi di Hamas, fiancheggiatori dell’Iran e Al Qaeda. Tanti caldeggiano questa soluzione, ma non si divide un popolo per uno scontro di leadership. Molti governi, incluso il vostro, si impegnano a sostenere l’Olp, ma è come fare il pieno a una macchina e mandarla in folle. Hamas non mi piace, ma non si conclude nulla se non si tratta con loro”.

Anche se non rinasce Israele?

“Il dialogo può partire anche senza il riconoscimento. Dobbiamo cogliere tutte le occasioni di negoziato. Qualche settimana fa, il ministro degli Esteri siriano Walid Moallem ha dichiarato in arabo, non in inglese, che il suo Paese è più che disposto ad aprire i negoziati con Israele: consiglierei al nostro premier Ehud Olmert di organizzare direttamente, o con l’aiuto di Romano Prodi, che ha grande credibilità a Damasco, un incontro al confine con il presidente siriano Bashar al-Assad. Ma Olmert è andato da Bush, che gli ha detto di non aver nessun interesse al dialogo con la Siria e lui si è entusiasticamente adeguato”.

Cosa si può fare per assecondare questa vaga disponibilità al dialogo?

“L’America è sempre più assente, bisogna chiedere aiuto all’Europa. Ho fiducia nella Francia, nella Germania, nonostante i trascorsi storici, e nell’Italia. Perché Prodi non chiude per una settimana in una delle vostre belle ville, una delegazione di giornalisti, agronomi, scrittori, esperti di irrigazione siriani e israeliani? I primi due giorni non farebbero che rinfacciarsi le colpe, ma poi qualcosa succederebbe: i nemici si metterebbero per un attimo a nudo, permettendosi a vicenda di entrare uno nella pelle dell’altro, di intravedere le storie, le ragioni reciproche”.

Non ha citato i politici in questo incontro-verità. Come sono le leadership israeliana e palestinese?

“Serve la capacità di visione. Nel nostro attuale gruppo dirigente può riemergere l’ex premier Ehud Barak, ma lo stesso Olmert, che è un opportunista, può cogliere le opportunità”.

Non è screditato a sufficienza, anche per la gestione della guerra in Libano?

“Dopo quel che è successo alla mia famiglia ho un conto aperto con lui, però ha fatto un percorso: dalla destra più estrema è giunto a sostenere cose per cui Yehoshua, Oz e io vent’anni fa eravamo definiti traditori. Questo la dice lunga sul ruolo degli scrittori in Israele”.

Lei ha dichiarato che vedrebbe bene Marwan Barghouti alla testa dei palestinesi, se la giustizia israeliana gli condonasse i cinque ergastoli per terrorismo.

“Ogni leader israeliano potrebbe essere processato per lo stesso motivo. In questa situazione servono leader che hanno la fiducia dei loro popoli perché hanno combattuto. E Barghouti ce l’ha”.

Perché i giornali italiani continuano a definirla uno scrittore pacifista?

“E’ un mistero italiano, ho fatto il soldato quattro anni e, da allora, 44 giorni l’anno come riservista, ho combattuto tre guerre, i miei due figli maschi sono stati comandanti carristi e uno, Uri, è stato ucciso. Sono uno strenuo combattente per la pace, ma non un pacifista, perché non sono irresponsabile: come puoi essere pacifista in un’area così violenta?”

Un noto scrittore che perde un figlio in guerra acquista più diritto di parola?

“Io sono un romanziere che interpreta la realtà. Questo è molto ebraico: per sopravvivere, gli ebrei hanno sempre dovuto decodificare le realtà ostili in cui vivevano. Quattro anni fa, prima che Uri andasse sotto le armi, iniziai un romanzo, che è quasi finito, sull’impatto che ha su una famiglia un figlio in guerra”.

Nell’ultimo libro, pubblica un suo discorso del 2004 in cui cita un’intervista a una futura sposa che dichiara di volere tre figli “perché, se uno venisse ucciso in guerra, ce ne restano altri due”. E’ atroce, ma è quello che è successo alla sua famiglia.

“E a tantissime altre. Ma io non riesco a dire che ho due figli”.

www.repubblica.it
http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=999920&sez=120&id=21181

 

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