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[b]Dalla STAMPA del 26 ottobre 2007, un'intervista allo storico militare israeliano Martin Van Creveld:
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Martin van Creveld, 61 anni, israeliano d’origine olandese, docente di Storia militare alla Hebrew University di Gerusalemme, grande esperto di strategia e consulente dei Ministeri della Difesa di vari Stati, tra cui gli Usa e il Canada, non ha paura dell’Iran: «E’ troppo debole militarmente per costituire una minaccia seria».

Gli scaffali del suo minuscolo studio nell’appartamento spartano a Mevasseret Zion, venti chilometri da Gerusalemme, sono carichi di tomi di storia bellica e trattati sulle donne, un nemico assai più temibile degli ayatollah per lui che alcuni anni fa ha fatto scandalo con il pamphlet «Il sesso privilegiato». Alle sue spalle gli attestati ricevuti a Quantico, in Virginia, dalla Scuola dei Marines, una mappa del Medio Oriente, il computer acceso.
Le nuove sanzioni americane contro l’Iran sono una dichiarazione di guerra o un ritorno alla strategia della dissuasione?
«Oggi le possibilità di una guerra contro l’Iran sono il cinquanta per cento. Da tre anni gli analisti annunciano il conflitto: c'è un rapporto dell’intelligence russa che lo prevedeva per l’aprile 2007. E’ possibile che Bush attacchi ora? Certo. E l’Iran potrebbe solo difendersi o al massimo colpire Israele. Ma come? Debole negli armamenti convenzionali, Teheran si è concentrata sul nucleare. E comunque, con un budget per la difesa di 6,3 miliardi di dollari l’anno, non si va lontano».
In che direzione va l’Iran?
«Mi sembra che, per ora, la pressione americana stia rafforzando il regime anziché indebolirlo».
Perché gli Usa temono tanto Teheran? Sono preoccupati per le sorti d’Israele o si servono dell’argomento per altre ragioni?
«Israele è una scusa. Gli Stati Uniti sono stati i primi a costruire l’atomica e da quel momento la loro preoccupazione è stata evitare che altri Paesi li imitassero, amici o nemici che fossero. Si sono opposti all’Urss, alla Gran Bretagna, alla Francia, alla Cina, Israele, India, Pakistan. Ora tocca all’Iran. Ogni volta Washington inventa una ragione per dire no. Lo capisco, farei lo stesso: il nucleare è la chiave della supremazia militare».
Lei sostiene che l’Iran non è una minaccia seria. Perché?
«Si tende a esagerare il pericolo iraniano e i politici israeliani lo sanno. Il problema è che vogliono stare con l’America e non contro, così denunciano l’Iran. Inoltre Israele ha interesse a mostrarsi debole perchè così può richiedere armamenti extra. Ma l’Iran non è minaccioso come appare, la sua leadership è nel panico».
Perché?
«Teheran ha capito che Bush è pazzo abbastanza da andare alla guerra e ha paura: sa di non poter reagire a un attacco».
Israele deve guardarsi più dall’Iran o dalla Siria?
«Fino ad agosto avrei risposto: dalla Siria. Escludevo un conflitto a breve, ma pensavo che sarebbe esploso l’estate prossima. Mi sono ricreduto: il raid israeliano del 6 settembre ha colpito un target importante e ora il rischio è ridotto».
Il rapporto tra Israele e Stati Uniti si sta incrinando?
«Al momento non direi ma, se anche la nostra amicizia si rompesse, non sarebbe una catastrode. Il futuro è in mano a cinque superpotenze: Usa, Europa, Russia, Cina, India. Israele troverà un modo per collocarsi tra loro. Insomma, sopravviveremo anche senza gli aiuti americani che rappresentano meno del due per cento del nostro budget. Inoltre, una volta soli, potremmo sviluppare l’industria bellica che oggi dipende da Washington».
Di che cosa deve aver paura Israele?
«Dei territori palestinesi, sono un disastro perchè ci dividono. Il disimpegno da Gaza è stato un successo: non abbiamo bisogno dei territori. Se possiamo restituirli con un accordo meglio, altrimenti in maniera unilaterale. Sono scettico sul vertice di Annapolis, ma bisogna andare: questa situazione ci danneggia».
In che senso?
«L’occupazione ha corroso l’esercito israeliano. Era chiaro dall’inizio della prima Intifada: combattere contro i deboli illude di essere forti ma indebolisce. Così i nostri soldati hanno dimenticato come si fa la guerra. L’abbiamo visto in Libano lo scorso anno: sono poco più di una forza di polizia».


 

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