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[b]Un articolo di Davide Romano
Pubblicato il Domenica, 23 settembre su Shalom
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Alla ricerca di nuovi leader palestinesi disponibili al dialogo e al riconoscimento di Israele

Dopo lo sgombero da Gaza e l'inizio degli scontri tra i palestinesi per il governo di quella striscia di terra, vi è un oggettivo "rilassamento" nella militanza pro-Israele. E' vero, il mondo ha avuto modo di vedere il disastro lasciato da Arafat nei territori, ma l'aver avuto ragione sul raìs non esaurisce la questione arabo-israeliana. I palestinesi esistono, e prima o poi troveranno nuovi leader. Per questo è importante che proprio ora gli amici di Israele si adoperino per cercare di costruire una Palestina più democratica possibile.

E' in questi momenti di vuoto politico infatti, che emergono i futuri Arafat. La sinistra (ed in alcuni casi anche la destra) europea si sta orientando verso la figura di Marwan Barghouti, visto come un "duro", ma laico, nonché persona che gode di un certo seguito nei territori. I primi appelli per la sua liberazione iniziano a girare, soprattutto nelle organizzazioni politiche di sinistra. Prima che diventi il "nuovo Arafat" ci vorrà ancora qualche tempo. Non molto, visto il contenuto della lettera di ben dieci ministri degli Esteri europei (compreso quello francese, nominato da Sarkozy, presidente di centrodestra) rivolta a Blair nel mese di luglio: tra le varie richieste vi era infatti "la liberazione anche dei principali leader palestinesi per assicurare il ricambio in seno a Fatah". Non c'era ancora il nome di Barghouti, ma era sottinteso.

Prima che passi l'immagine di un Barghouti come Gandhi sarà meglio ricordare che nel dicembre 2000 fu proprio lui ad opporsi ad Arafat sulla ripresa dei negoziati di pace a Washington, dicendo che Barak non era "un partner di pace ma di guerra". Nel marzo 2001 poi, minacciò di morte i giornalisti israeliani dicendo: "nessun giornalista israeliano che entrerà nei territori ne uscirà vivo". Non proprio un inno alla libertà di stampa. Pochi mesi dopo sconfessò il cessate-il-fuoco annunciato da Arafat. Ispiratore e organizzatore della seconda intifada (non a caso era il leader della formazione terroristica denominata "Brigate dei martiri di Al Aqsa") era tra quelli che accusava Arafat di non essere abbastanza duro con gli israeliani. Tutto questo mentre negli autobus di Tel Aviv e Gerusalemme i kamikaze si facevano saltare per aria in mezzo a donne e bambini. Se ora è nelle carceri israeliane infatti, è proprio perché è stato giudicato per le responsabilità organizzative negli attentati della seconda Intifada. Israele lo ha accusato di ben 37 diversi attacchi – inclusi attentati suicidi – anche se sufficienti prove di colpevolezza sono state trovate "solo" per quattro diversi attentati. Non dico che le persone non possano cambiare – anche se in quell'area i miracoli sono ultimamente assai rari – ma bisogna aver ben presente con chi si ha a che fare. Sta insomma a lui per primo, visto il suo passato, dare garanzie e concrete dimostrazioni di un leale impegno per la pace.

Ma il popolo palestinese non è solo Barghouti o Hamas, ed è proprio questo il problema dell'approccio occidentale alla questione palestinese. Mentre la nostra stampa dà molto spazio a "l'altra Israele" (vedi David Grossman, per esempio), non c'è mai spazio per "l'altra Palestina" sui nostri media. Eppure esiste, eccome. Basta pensare a persone come Walid Salem. Un nome purtroppo sconosciuto al grande pubblico, ma impegnato da tempo sul fronte della nonviolenza. Quest'uomo, dopo quattro anni di carcere israeliano (prese parte alla prima intifada) e un fratello ucciso dagli israeliani durante la seconda intifada, ha avuto la forza di aprire "The parents circle": un'organizzazione israelo-palestinese di famiglie vittime del conflitto, che organizza incontri di dialogo. Un esempio vivente di come la pace, anche tra chi porta nell'animo le ferite della guerra, è possibile.

Sono persone come lui a dover essere promossi ed aiutati, ospitati sui nostri media, nei congressi dei nostri partiti, e nei parlamenti del nostro continente. E questo è quello per cui dobbiamo mobilitarci anche noi, amici di Israele: più saranno forti queste personalità pacifiche palestinesi, e più la pace sarà vicina.

Sarebbe il caso per esempio di lanciare un appello al nostro governo e alle istituzioni europee: nelle prossime visite istituzionali in Palestina si organizzino incontri anche con le associazioni della società civile palestinese che praticano metodi non-violenti. Ne esistono diverse, e hanno bisogno della legittimazione internazionale come il pane. Qualche esempio? Just Vision, International Peace and Cooperation Center, Panorama Center: guidati rispettivamente da Ali Abu Awwad, Rami Nasrallah e il già citato Walid Salem. I palestinesi pacifici insomma – nonostante si faccia di tutto per nasconderli – non mancano. Facciamo diventare loro i simboli di una diversa Palestina, e potremo sperare di avere una Palestina diversa. Mi pare inutile questa corsa "in soccorso dei vincitori" – tanto più se violenti – che comunque se la cavano benissimo da soli.

Altrettanto importante è cercare di creare un ambiente in cui possa emergere meglio chi ha più argomenti, e non chi ha più armi. Finché nei territori vige la legge del più forte, non potranno che emergere i più violenti. Per questo è importante cercare di convincere l'UE che i finanziamenti non vanno dati a leader qualsiasi, purché sedicenti laici. Gli aiuti vanno legati al ripudio della violenza e a delle autentiche riforme della struttura statale palestinese. A cominciare dal monopolio della forza, che deve essere in mano all'Autorità palestinese. Lasciare che ciascun gruppo (Fatah compreso) costituisca le proprie bande armate non porta all'equilibrio, ma all'anarchia. L'abbiamo visto a Gaza, dove addirittura le bande di Hamas hanno rovesciato le forze regolari dell'ANP. Se si sta davvero dalla parte dei palestinesi e della pace, non bisogna aiutare anche chi predica e pratica la violenza. Farlo, non vuol dire stare dalla loro parte, ma da quella dei terroristi e della guerra.

 

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