Aperto un negozio monomarca nel quartiere religioso

[b]Oggi il fatturato del mercato religioso costituisce oltre il 30% di quello globale dell'azienda italiana [/b]

Viviana Mazza

GERUSALEMME — Vestiti con camicie bianche, pantaloni, cappotti e cappelli neri, nel caldo intenso dell'una del pomeriggio, due ragazzi escono chiacchierando e gesticolando da un negozio su via Yechezkel. Uno di loro stringe il manico di una grande scatola nera su cui spicca una scritta in oro: «Borsalino».

A Mea Sharim, il quartiere degli ebrei ultraortodossi, nel cuore di Gerusalemme, tra negozi di abiti modesti da donna e di musica kosher, l'azienda italiana Borsalino di Spinetta Marengo (in provincia di Alessandria), famosa nel mondo per i suoi cappelli, ha aperto l'1 aprile una filiale in franchising. È la prima in Israele. La scritta in oro emerge in rilievo sulla facciata del palazzo ed è stampata sui manifesti neri affissi alle vetrine del negozio. Dentro, armadi a vetrina riempiono le pareti. Contengono pile ordinate di cappelli, centinaia di cappelli, tutti neri.
Il proprietario, Mendi Bastomsky, barba castana, kippa, camicia a righe e pantaloni scuri, inizialmente è sospettoso. Ma poi parla, in ebraico, attraverso un interprete. Non stringe la mano (si scusa, non può toccare una donna che non è sua parente), ma guarda negli occhi, sorride.
Trentatré anni, sposato, 4 figli, è un ebreo chabad, uno dei gruppi ultraortodossi più aperti al mondo moderno. Ha lavorato per 12 anni presso vari cappellai di Gerusalemme. Gli piace molto il nord Italia, dice, e va alla sede della ditta 5-6 volte l'anno. «Quando arrivo là, non mi sento uno straniero».
Gli ultraortodossi mirano a condurre una vita modesta, etica, spirituale. Ma non sono immuni al fascino della moda. I cappelli Borsalino non sono esposti in vetrina. Per discrezione? «No al contrario. A parer mio, significa un certo lusso — dice Bastomsky —. Borsalino è come Gucci. Vedere la scritta è abbastanza. Non devo aggiungere niente ». E poi spiega: «Borsalino per il ragazzo haredi (ultraortodossi, ndr) è come una Rolls Royce. Ogni ragazzo vuole un Borsalino».
La ditta ha una linea di cappelli per gli ultraortodossi da oltre un secolo. «Abbiamo iniziato a lavorare agli inizi del '900, più che altro per una richiesta partita dai lituani», spiega al telefono dall'Italia Monica Abbate, da 10 anni responsabile del mercato israeliano. «Oggi il fatturato del mercato religioso costituisce oltre il 30% di quello globale dell'azienda». In Israele finora vendevano attraverso agenzie di distribuzione, ai negozianti o direttamente alle yeshiva, le scuole religiose. Ma i venditori si facevano una concorrenza feroce per avere più modelli, stili più nuovi (nei limiti), prezzi più bassi. Il negozio monomarca dovrebbe semplificare la vendita.
Sono centinaia i cappelli neri esposti, sembrano tutti uguali, ma solo a prima vista. Ci sono almeno 100 modelli, spiega Bastomsky. «Le differenze sono una religione intera. Ci sono 10 tipi di ala, che può andare da 7,5 cm a 14 cm, quattro finiture della bordatura, otto tipi di cinta, sei misure d'altezza della testa». «I cappelli sono una specie di carta di identità — osserva —. Ogni diverso gruppo di haredi ha il suo cappello. Gli chabad li usano con la testa più bassa, i lituani più alta. Io che sono chabad, se andassi in giro con un altro cappello non sembrerei io. Per ogni diversa yeshiva c'è un diverso stile di cappelli».
Sorride: «Dal cappello che uno porta ti posso anche dire il suo carattere. Una persona che vuole sembrare rispettabile, andrà con un cappello largo e alto. Così farà anche lo sposo: si assume una responsabilità e vuole mostrare di essere all'altezza». E se uno indossa un cappello basso e stretto? «Può farlo per ribellarsi contro l'idea dei cappelli. Come dire, mi metto quello che voglio».
Coprirsi il capo per gli ebrei è un segno di rispetto per Dio. Viene indossato a partire dal Bar Mitzvah, all'età di 13 anni. Ma basta un qualunque copricapo. Il cappello nero è una tradizione nata in Europa orientale. «Normalmente un haredi ha 2 cappelli: uno per tutti i giorni e uno, più rifinito, per le feste. Nelle nostre comunità si spende solo in cibo e vestiti e quando si compra qualcosa, un vestito, spiecialmente un cappello, si è pronti a investire. Dura di più e poi è una forma di rispetto per se stessi. Come il logo su una polo firmata, un bel cappello fa sentire bene».
Il proprietario

Viviana Mazza

 

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