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[size=14][b]Siamo in Medio Oriente? (27-28 maggio)[/b][/size]

Ancora non abbiamo realizzato di essere in Israele. Molti (come il sottoscritto) hanno lavorato fino alla sera del giorno prima. Dalle nostre scrivanie e attività d’ufficio quotidiane siamo passati con un volo notturno a un’altra dimensione.

Ci svegliamo sulla pista dell’aeroporto internazionale Ben Gurion, nei pressi di Tel Aviv. Qualcuno in Italia aveva provato a spaventarmi “vedrai che non ti passa più, che ti tengono almeno un’ora a farti domande, che ti controllano anche i parenti…”. Non c’è niente di tutto questo: una graziosa poliziotta mi mette il timbro sul passaporto, mi sorride: “Benvenuto”. Cinque minuti di procedura. Fine della “terribile” dogana.
L’impatto con la realtà locale è molto dolce per chi arriva dall’Europa. Appena usciti dal Ben Gurion realizziamo sicuramente di essere in Medio Oriente (basta provare sulla propria pelle il sole fortissimo già alle 7 del mattino per capirlo), ma tutto quel che vediamo fa parte di una realtà europea. Le strade sono ben tenute e ben asfaltate, il traffico è ordinato, belle macchine nuove di media e grande cilindrata, pochissimi suonano il clacson, le case che iniziamo a vedere dai finestrini del pullman sono belle magioni che ricordano i quartieri più moderni delle nostre città. Attraversando la campagna dal Ben Gurion a Tel Aviv sembra di essere nel bel mezzo della Pianura Padana. Si ha subito l’impressione di una terra attivissima. Non un solo centimetro di terreno è lasciato incolto, ai campi si alternano le “fabbrichette”, una dopo l’altra e gli allevamenti. Notiamo subito una particolarità: ogni tetto ha una sua cisterna e un suo pannello solare. E’ così che scaldano l’acqua ed è quella la caratteristica del paesaggio urbano israeliano che d’ora in avanti ci abitueremo a vedere. Lo skyline di Tel Aviv inizia a stagliarsi all’orizzonte. Già a quella distanza è una visione impressionante: ricorda New York, ma è più moderno. Gli architetti contemporanei devono essersi sbizzarriti per costruire una città che si sta sviluppando soprattutto in verticale e che è nata letteralmente dalla sabbia della sua spiaggia. Ma non è ancora il momento di Tel Aviv: la nostra destinazione è Giaffa, una città antica, nata sulle ceneri di tante altre città precedenti, di volta in volta distrutte e ricostruite ogni volta (ed è capitato molte volte) che questa terra ha cambiato padrone.
Sul pullman per Giaffa incontriamo per la prima volta Vittorio di Cesare: sarà lui, d’ora in avanti a prenderci per mano e condurci in giro per tutto il paese, spiegandoci ogni angolo di realtà che vediamo. E da subito compie un prodigio: non parla quasi mai di politica in una terra che è un concentrato di politica, che è sotto tutti i riflettori dei media perché è il crocevia di tutte le tensioni del mondo contemporaneo. La nostra guida ci fa comprendere che non c’è solo quello. La natura, l’arte, la storia di questa terra sono rimaste incontaminate. E anche la gente, che iniziamo a vedere uscire di casa per accompagnare i figli a scuola, come in una tranquilla mattinata di una città italiana.
Giaffa mescola due aspetti incredibili: le architetture antiche di fattura araba e l’occidentalissima arte contemporanea. Le vie del suo centro storico, sino al porto, sono state abbellite con gallerie e rassegne di pittura e scultura contemporanea. Il vero e proprio simbolo di questa città, un grosso seme da cui spunta un albero ormai già cresciuto e svettante nella sua altezza, rimane sospeso a mezz’aria come se fosse uscito direttamente da un quadro di Magritte. Il porto è uno dei luoghi in cui è nato lo Stato di Israele. E’ qui che, sin dall’ultimo scorcio del XIX secolo, sbarcavano i primi sionisti, con un coraggio da pionieri, per tornare ad abitare la loro patria. Le mura che incombono sulla spiaggia e sul piccolo porto turistico non danno un’idea di accoglienza: sarebbero state la prima tappa di una lotta dura per il possesso e la trasformazione della terra. Eppure il lungomare soleggiato che parte pochi metri dopo il porto, non rivela i segni della lotta, né tantomeno di una conquista, al contrario di molte zone dell’Europa meridionale e del Medio Oriente. Qui moschee, chiese cristiane ortodosse e cattoliche, sinagoghe si alternano e si affiancano in modo armonioso. Possiamo ammirare i campanili, con le croci e le campane ben in vista: una libertà che ci si può permettere in pochissimi paesi in un’area come quella del Medio Oriente.
La politica, come la storia burrascosa di queste terre, torna continuamente alla ribalta. A Tel Aviv passiamo da Piazza Rabin, dove la “polis” israeliana si trova per manifestare le proprie idee, pro o contro il governo. E’ qui che è stato assassinato l’ex premier Yitzhak Rabin e una lasta di vetro ricopre le scritte e le foto comparse spontaneamente sul luogo del delitto per commemorarlo. Una storia meno recente ci compare davanti agli occhi lungo il breve percorso (ma qui tutti i percorsi sono brevi) tra Tel Aviv e Gerusalemme: i resti degli autobus corazzati che portavano viveri e armi alla Gerusalemme assediata dagli arabi nella guerra del 1948. Tutto attorno a noi ci sono territori palestinesi. Dall’alto di quei dirupi che ci circondano gli arabi di sessanta anni fa, avevano gioco facile a bloccare le strade e poi a nascondersi nei loro villaggi.

[b]Gerusalemme, la pace armata (28 maggio)[/b]

E finalmente siamo a Gerusalemme. Quando si pensa ai luoghi santi, vengono in mente grandi dimensioni. Ma qui non ci sono ampi spazi. Appena scesi dal pullman ci ritroviamo in un punto in cui, con un unico colpo d’occhio possiamo vedere le antiche mura (sono la versione del Saladino, che si sovrappongono a quelle cristiane dei crociati, a quelle romane e a quelle di Erode), la Moschea di Al Aqsa, il Monte degli Ulivi. Con un altro singolo colpo d’occhio, da un punto elevato del quartiere ebraico della Città Vecchia, possiamo vedere il cuore pulsante dei tre monoteismi: il Muro Occidentale sotto di noi, la Spianata delle Moschee di fronte a noi, il Monte degli Ulivi alle sue spalle. Perché tutti hanno deciso di costruire i loro luoghi più santi proprio in questo piccolo angolo di terra?
Girando per le vie del quartiere ebraico della Città Vecchia, non vediamo quel clima di terrore che viene spesso descritto dai media. Anzi: le scolaresche sono appena uscite dalle classi e affollano i locali nelle piazze, dove possono mangiare pizza, falafel e shawarma. Noi passiamo loro accanto, affollando gli spazi angusti delle vie della città vecchia e fotografando tutto quello che possiamo.
Sono scene di vita normale. Ma non stiamo parlando di una città “normale”: questa è Gerusalemme. E la pace che si può vedere per le strade, la serenità nei volti della gente, è un qualcosa di straordinario. “Siamo molto diversi da come ci descrivono i media in Europa” ci conferma Giordana Roseman, del ministero del Turismo, che ci accoglie al nostro albergo, l’Hotel Shalom e ci conferisce un attestato di riconoscimento quali “Ambasciatori dell’amicizia verso Israele”. “Il turismo ha avuto un incremento del 71%, solo per quanto riguarda gli italiani e nel solo mese di aprile” – ci spiega – “La gente è naturalmente attratta da questo Paese: offre tutto in così poco spazio. E adesso che sanno che viviamo una vita normale, che non siamo un Paese in guerra, vengono in massa”. Siamo molto lontani dagli stereotipi e dalle esperienze vissute nel corso della seconda Intifadah: militari dappertutto, metal detector all’ingresso dei locali, volti tesi, pochi assembramenti nei luoghi pubblici per paura di attentatori suicidi… non si vede niente di tutto questo. Eppure questa pace non è il frutto di un trattato. E’ una condizione che resiste perché è garantita dalla forza, una forza praticamente invisibile, molto discreta, ma presente dappertutto. Quando ci sono scolaresche o gruppi di turisti, c’è sempre un ragazzo che ha l’aspetto di un qualsiasi studente che possiamo trovare all’uscita dell’università. E’ un ragazzo armato, con un vecchio fucile a tracolla, un’arma con il calcio in legno e un caricatore dall’aspetto primitivo che probabilmente ha visto la I Guerra arabo-israeliana del 1948-49. “Fa più male se lo tiri in testa” ci dice uno di loro, ridendo. Non sono certo dotati del meglio della tecnologia di cui può essere dotata la Forza di difesa israeliana, ma i ragazzi che abbiamo incontrato e con cui abbiamo parlato, pur avendo un aspetto pacifico e una gran voglia di chiacchierare, hanno tutti un passato di duro addestramento nei corpi speciali. “Ero paracadutista, ho appena finito il servizio militare e adesso faccio la guardia a lei”, ci dice uno di loro, indicandoci una bella ragazza bionda che gli siede accanto. Un ebreo ucraino immigrato subito dopo il collasso dell’Urss, ha fatto 3 anni nei paracadutisti. “Finito il militare, ho deciso di prendermi un anno di pausa e così ho pensato di rendermi utile alla comunità” ci spiega, per farci capire il perché di questa scelta. Il ministero della Difesa impone questo servizio: almeno un uomo armato per ogni scolaresca. Ma a gestirlo sono agenzie private. L’ucraino ci confida di guadagnare 5000 shekel al mese, circa 1000 euro, un po’ come quelli che decidono di fare il servizio civile volontari da noi. Le guardie armate non sono l’unica difesa. Sono l’ultima barriera. L’esercito non è così presente come si dice, ma c’è. Si vedono soldati e soldatesse in giro per le strade, tranquilli come se fossero studenti del liceo in gita scolastica. Le ragazze portano la loro borsetta a tracolla, al fianco del fucile d’ordinanza. A volte “fraternizzano” con il loro ragazzo, anch’egli in divisa: il concetto di “civile in armi”, tipico di tutti gli eserciti di milizia, è lì da vedere. Questi ragazzi non hanno niente di marziale, non incutono alcun timore nella gente che li approccia, non prendono le distanze. “La mia presenza serve?” si chiede una ragazza-soldato che è appena tornata da turni di pattuglia in città “Certo che serve: vedere un militare su un autobus, per chi ha cattive intenzioni, è sempre un deterrente forte, un invito a pensarci due volte prima di fare qualche porcata. E se succede qualcosa, noi siamo addestrati a reagire nel migliore dei modi”. Già, gli autobus: erano trappole mortali durante la seconda Intifadah. Le famiglie mandavano i bambini su mezzi diversi, per non perderli tutti in un unico attentato. Ora la gente li attende e li prende normalmente, senza paura. Merito dell’esercito? Sì e della barriera difensiva. Che abbiamo potuto vedere nel tratto che passa a Sud di Gerusalemme, per tenere lontani i palestinesi di Betlemme: da lì partivano regolarmente fucilate contro le case del sobborgo di Gilo e contro i bambini che andavano a scuola. E da quelle case palestinesi, al di là della collina, uscivano i terroristi suicidi, quelli che si sono macchiati di 1200 omicidi di civili israeliani inermi. Ora che c’è la barriera e l’Idf ha dimostrato di poter rispondere colpo su colpo, non escono più terroristi e non sparano più i cecchini. Da due anni, con pochissime eccezioni.

[b]Ogni pietra è sacra (29-30 maggio)[/b]

Qui a Gerusalemme ad ogni singola pietra viene attribuito un significato religioso. Il problema è che ogni religione le attribuisce un significato diverso. Per i protestanti la geografia di Gerusalemme è tutta da ristudiare. Gli ortodossi hanno costruito la loro magnifica chiesa di S. Maria Maddalena (che si dice fosse sede del Kgb ai tempi dell’Urss) alla base del Monte degli Ulivi. Le sue cupole d’oro, luccicanti al sole, caratterizzano tutto il paesaggio del Monte degli Ulivi. I cattolici hanno l’orto del Getsemani e la chiesa moderna (sempre cattolica) che lo custodisce. Tra gli ulivi abbiamo potuto notare anche un piccolo albero piantato da Papa Paolo VI nel 1964, ma anche un ulivo tanto gigantesco da pensare che abbia realmente visto Gesù circa 2000 anni fa. Risalendo le pendici del monte troviamo un’altra chiesa cattolica, francescana, dedicata alle lacrime che Gesù Cristo versò alla vista di Gerusalemme. Sempre sulla stessa pendice del Monte, invece, troviamo il cimitero ebraico, uno dei più antichi del mondo. Secondo la tradizione religiosa, qui ci sarà il Giudizio Universale.
Proprio di fronte al Monte degli Ulivi, nelle mura di Gerusalemme si apriva la Porta d’Oro, quella da cui passò Gesù Cristo nella domenica delle palme. Secondo gli ebrei, il Messia dovrà ancora passare sempre da quella porta. I musulmani, una volta conquistata la città, l’hanno murata. Di fronte ad essa c’è il loro cimitero.
Risaliamo la Valle del Cedron, il cui nome è dato al torrente Cedron, che dà l’acqua a Gerusalemme sin dai tempi di Re Davide. E’ impossibile non farsi trascinare dalla suggestione di questo luogo di pace, una valle verdissima, ombreggiata dagli uliveti, proprio ai piedi delle antica mura della Città Santa. E’ lo stesso luogo che millenni fa fu scelto come sepoltura anche dai re della prima Israele, i cui enormi sepolcri in pietra scolpita sono ancora perfettamente conservati.
Per recarsi al più sacro dei luoghi cristiani, il Santo Sepolcro, occorre prima passare per l’inferno: la Porta della Geenna. Da cui venivano gettati i rifiuti nella discarica dell’antica Gerusalemme: la Geenna, appunto, dove c’era sempre qualcosa che bruciava per auto combustione o i fumi delle reazioni chimiche naturali degli scarti alimentari organici. Questa immagine della valle puzzolente e sempre “accesa” di fuoco era diventata l’immagine familiare per dire un posto dove nessuno voleva stare, quello che oggi definiremo un inferno. Lo stesso luogo non è un inferno per i musulmani, che hanno ribattezzato quella porta “Porta dei Magrebini”, perché erano tribù nordafricane ad occupare quell’area.
Il dolore vero, per molti cristiani, arriva dopo, quando giungiamo alla Via Crucis, quella autentica dove passò per l’ultima volta in vita Gesù Cristo, non quella riprodotta centinaia, migliaia di volte in molti luoghi cristiani del mondo. Questo luogo sacro per il cristianesimo è completamente nascosto da un fittissimo mercato arabo, dissacrante quanto rumoroso. Si deve fare un po’ di fatica per individuare le Stazioni, i luoghi in cui Gesù cadde sotto il peso della croce. Sono piccole cappelle segnalate, ma occorre un certo acume per poterle distinguere tra una bancarella e l’altra. Inoltre non sembra possibile potersi raccogliere in preghiera dentro di esse, sommerse come sono dalle grida e l’insistenza di venditori tipici di ogni “suq” che si rispetti. Il Santo Sepolcro non presenta uno scenario molto migliore per i fedeli cristiani. I blogger che erano al nostro seguito e aggiornavano in diretta il loro sito “Popinga”, hanno azzeccato l’espressione migliore per definire quel luogo santo: “La gabbia del cristianesimo”. Non solo perché, essendo parzialmente in restauro, era ingabbiato da impalcature, ma perché è la migliore rappresentazione della gabbia in cui, un cristianesimo diviso e litigioso al suo interno, si è chiuso da solo. La chiave della porta della Basilica del Santo Sepolcro, è custodita da una ricca famiglia musulmana, che viene regolarmente pagata dai cristiani. Di fronte alla Basilica svetta il minareto della Moschea di Omar, dedicata al califfo Omar che stipulò l’omonimo patto con i non-musulmani: gli altri popoli del libro, sia ebrei che cristiani, sarebbero stati tollerati solo accettando una condizione di sottomissione, rispettando una serie di leggi ad hoc che li avrebbero relegati a uno status di cittadini di serie B. E questo è solo l’inizio, perché l’interno della Basilica, affollato di pellegrini, è l’emblema della divisione del cristianesimo. Una scala appoggiata a una finestra da 150 anni e mai rimossa sta ad indicare che un secolo e mezzo fa si è raggiunto un accordo tra le varie confessioni che custodiscono il Sepolcro, si è stabilito lo status quo e nulla può essere spostato. Da una cappella all’altra della Basilica, cambiano i pavimenti e cambia l’arredo sacro, oltre alle divise dei religiosi: sono sei i confini interni. E guai a violarli: lo scorso 20 aprile un prete greco è stato picchiato dai confratelli armeni perché aveva sconfinato durante la celebrazione della Pasqua ortodossa. Sia armeni che greci hanno poi usato un simbolo della pace, i rami di palma, per “difendersi” dalla polizia israeliana accorsa a sedare la rissa. Se questa è la condizione del cristianesimo, si capisce perché, in Medio Oriente, si stia letteralmente estinguendo. I cristiani erano maggioranza in Palestina: ora sono appena il 2% della popolazione, quando fino a mezzo secolo fa erano il 20%. E a Gerusalemme le cose vanno ancora molto bene. A Betlemme, altra città santa per la tradizione cristiana (ma nel territorio sotto l’Autorità Nazionale Palestinese), è rimasta solo una piccola comunità ortodossa perseguitata da una popolazione musulmana sempre più integralista.
I luoghi sacri dell’Islam, le moschee di Al Aqsa e della Roccia, non li abbiamo potuti vedere. Da quando è scoppiata la II Intifadah, nel 2000, la Spianata delle Moschee è chiusa ai non musulmani. In compenso “sentiamo” la moschea di Al Aqsa: la preghiera del muezzin, sparata a tutto volume, si sente in ogni angolo della città, chiamando a raccolta fiumi di fedeli musulmani. Per le strade carreggiabili si trova a dir poco un traffico “partenopeo”, nei vicoli del quartiere musulmano della Città Vecchia è difficile riuscire a risalire la corrente umana.
Molta più quiete la troviamo esattamente sotto le moschee, al Muro Occidentale, il più importante tra i luoghi religiosi ebraici, l’unica area rimasta dell’antico Tempio. Anche se un controllo della polizia, con tanto di metal detector all’entrata, ci fa capire che per gli ebrei non è possibile andare a pregare al Muro con la certezza di essere rispettati nel loro credo. Qualche ragazzo che prega con il fucile a tracolla e le cartuccere piene ce lo ricorda anche quando siamo entrati nella spianata antistante il Muro. Per il resto, contrariamente alle dicerie che circolano in Italia sull’intransigenza ebraica, i fedeli accorsi da tutto il mondo sono molto tolleranti, qualcuno ci offre la sua benedizione, chiunque può lasciare un bigliettino scritto tra una pietra e l’altra dell’antichissima costruzione. E’ lì che dovrebbe esserci una linea diretta con Dio e molti di noi ne approfittano.
Poco fuori da Gerusalemme, su una collina che domina la città, sorge lo Yad Vashem: è a tutti gli effetti un museo, ma allo stesso tempo è un luogo religioso, perché è la tomba, simbolica, di tutte le vittime ebree dell’Olocausto di cui non esistono resti. Oltre che di tutti gli uomini e donne che salvarono gli ebrei durante la II Guerra Mondiale: a ciascuno di essi è dedicato un albero, una targa in memoria, un angolo di terra. Gruppi di militari e studenti si recano a rendere omaggio alle vittime del più mortale genocidio del XX secolo, l’episodio della storia che più di altri ha motivato il movimento sionista a fondare il nuovo Stato come rifugio per tutti gli ebrei del mondo. Il percorso della visita si snoda tra oggetti e testimonianze personali. Siamo ben lontani dalla fredda narrazione storica degli eventi: allo Yad Vashem, la Shoah rivive nei racconti dei sopravvissuti, nelle fotografie, nei gioielli e negli scritti tenuti in tasca dalle vittime fino al momento del loro assassinio. In una stanza buia, illuminata dalla luce di tante piccole candele, risuonano i nomi e le età dei bambini uccisi nei campi di sterminio. Tra i numerosi visitatori, nessuno fiata: lo Yad Vashem, proprio perché vivo e frutto di una memoria recentissima, è il più rispettato tra i luoghi santi.

[b]Masada! (31 maggio)
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Quando si entra a Gerusalemme da Ovest si arriva da distese di boschi e campi coltivati. Quando si esce da Gerusalemme verso Est, si entra quasi subito nel deserto. La brusca interruzione del paesaggio verde ci indica che abbiamo cambiato territorio. Non siamo più nell’area mediterranea, ma ci stiamo addentrando veramente nell’Asia continentale. Cambia anche la società, a giudicare dalle baracche sparse di pastori beduini, un popolo diverso sia dagli arabi che dagli ebrei, che gradualmente si sta facendo assorbire nella società moderna di Israele.
Passiamo il livello del mare, entriamo nella più profonda depressione del mondo. A qualcuno iniziano a fischiare le orecchie. Man mano che procediamo, il paesaggio che vediamo dai finestrini del pullman diventa sempre più surreale: la terra bianca, le guglie che spuntano dal terreno, i canali secchi ricordano le foto che arrivano dalla Luna. Alte montagne ci circondano con le loro rupi scoscese. E’ solo una questione di prospettiva: siamo noi ad essere bassi, non loro ad essere alte. Tutto questo terreno, un tempo molto lontano, era il fondale marino del Mar Morto, che ora si è ritirato in due piccoli laghi salati. Che prontamente avvistiamo: ne vediamo le acque, costeggiate dal deserto, sommerse da una strana bruma bluastra che (anche in questo caso) non sembra appartenere al nostro pianeta.
Uno dei canali scavati nella roccia è verde e ricco di acque. Gli israeliani ne hanno fatto una riserva naturale: Ein Gedi. Arriviamo subito a contatto con l’esotica fauna locale. Ad accoglierci per primi sono delle specie di marmotte, gli hyrax, che qui chiamano confidenzialmente “topi delle rocce” e che in realtà sono dei parenti lontani degli elefanti. Hanno fiducia degli uomini: si avvicinano, si fanno fotografare mettendosi in posa. Qui nessuno torce loro un pelo. In lontananza vediamo anche parecchi stambecchi. Con un piccolo percorso di trekking nel verde, raggiungiamo le cascate di David e di Arugot, che fanno di questo piccolo angolo di terra un vero paradiso. Siamo tutti accaldati ed essiccati dai 35 gradi che arroventano il deserto roccioso: realizziamo che cosa voglia dire l’espressione “raggiungere un’oasi”. Molti di noi, ovviamente, approfittano per fare un piccolo bagno nelle acque fesche. Il luogo, inutile dirlo, è tenuto d’incanto. I percorsi per i turisti sono ben segnati, nei luoghi più ripidi compaiono provvidenzialmente corrimani. Vediamo anche molte famigliole israeliani che portano i figli a fare il bagno e a passare una giornata nella natura: ecco come si può addomesticare un paradiso naturale per il bene dell’uomo.
Ma a dominare la nostra visita, oltre che tutta la vallata del Mar Morto, è la fortezza di Masada, costruita per volontà di Erode come sua reggia fuori Gerusalemme su un dente di roccia alto 400 metri, separato dal resto del mondo, unito solo da una funivia o un sentiero che sale a zig-zag sul costone della montagna. L’orario, il sole a picco e la volontà della stragrande maggioranza del gruppo hanno spinto a scegliere per la funivia. Eppure qualche coraggioso ancora si incamminava sul ripido sentiero, mentre noi gli passavamo sopra all’ombra e senza alcuna fatica. La fortezza, essendo stata concepita come reggia, mantiene ancora parte della sua bellezza, rinvenuta con gli scavi svolti negli anni ’60 di questo secolo. Sono rimasti alcune pareti intonacate, mosaici, affreschi e stucchi di 2000 anni fa, così come è ancora ben visibile la zona termale: allora come adesso, il Mar Morto è meta di molti in cerca di benessere nelle sue spa. Masada, però, non è diventata famosa in quanto reggia di Erode, ma come ultimo baluardo della resistenza ebraica contro i romani, dal 68 al 70 d.C. Qui si rifugiarono un migliaio di zeloti che, perse tutte le speranze dopo due anni di resistenza, preferirono suicidarsi in massa piuttosto che essere uccisi per mano dei romani, o essere ridotti in schiavitù. La caduta di Masada segnò l’inizio di una diaspora durata quasi 2000 anni. Tuttora le reclute dell’esercito vengono qui, tra i resti di queste mura, a pronunciare il loro giuramento: “Mai più Masada cadrà”.
Per gli appassionati di storia militare (come chi scrive), Masada offre pane per i loro denti. Sono rimasti tutti i segni e i resti dell’assedio romano. Possiamo visitare le cisterne in cui gli assediati raccoglievano l’acqua piovana e potevano così sopravvivere anche in caso di isolamento totale. Sono ancora ben visibili, nel mezzo del deserto, i segni lasciati dagli accampamenti della X Legione che circondava completamente la fortezza. E poi, ancora impressionante nella sua maestosità, si vede la rampa (a dire il vero è una vera e propria montagna) costruita dai romani per portare le loro macchine d’assedio sino all’altezza delle mura ebraiche. E’ un’opera talmente imponente che qualcuno di noi si mostra scettico, non crede che sia stato possibile costruire una cosa del genere, specialmente nel mezzo di una battaglia e sotto gli occhi di un nemico determinato.
Non ci dimentichiamo di essere in vacanza. E dopo tanta cultura non ci neghiamo un bagno nelle acque del Mar Morto. Se dicono che si tratta di un’esperienza incredibile… ebbene sì, si tratta di un’esperienza incredibile. L’acqua salatissima ti tiene a galla come se ci fosse un salvagente invisibile. Certo che qualsiasi piccola ferita, anche quella nascosta di cui non ci si era nemmeno accorti, con l’acqua salata si risveglia e brucia. E guai a inghiottire per sbaglio anche una sola goccia del liquido su cui si galleggia: altrimenti resta in bocca un sapore amaro per tutto il resto del giorno. Insomma, ci sono i pro e i contro: ma è comunque un’esperienza da fare e la saluta ci guadagna e basta. Solo pochi di noi rifiutano di fare il bagno.
Qumran è l’ultima tappa della nostra prima gita fuori Gerusalemme. In questo luogo suggestivo, un altopiano da cui possiamo ammirare una vista splendida sulle rive del Mar Morto, sono stati ritrovati i rotoli di Isaia nel 1947. Lo scritto, che abbiamo potuto ammirare al Museo di Israele di Gerusalemme, è una delle scoperte archeologiche più sensazionali e significative della storia ebraica. Si tratta infatti, del più antico manoscritto della Bibbia, risalente al 100 a.C. “Egli giudicherà tra nazione e nazione e sarà l'arbitro fra molti popoli; ed essi delle loro spade fabbricheranno vomeri d'aratro, e delle loro lance, roncole; una nazione non leverà più la spada contro un'altra, e non impareranno più la guerra”. Questa profezia di pace, usata dai pacifisti di tutto il mondo in cerca di riferimenti religiosi alla loro causa, è una delle basi della Dichiarazione di Indipendenza di Israele del 14 maggio 1948.

[b]Risalendo il Giordano (1 giugno)[/b]

Lasciamo definitivamente Gerusalemme alle nostre spalle. Ci muoviamo verso Nord, lungo la valle del Giordano. La strada che stiamo percorrendo è la Statale 90. Chi, tra noi, è stato in queste zone ai tempi della II Intifadah, ci conferma che adesso è un paradiso rispetto a tre-quattro anni fa. Il nostro autista percorre la strada con calma, lasciandoci ammirare il panorama, che a sinistra è deserto e a destra è verde e coltivato. I segni del recente conflitto ci sono, ma stanno al loro posto, come se facessero parte del panorama naturale. Vediamo alla nostra destra la lunga barriera di reticolato che segna la linea di confine con l’Autorità Nazionale Palestinese. Attraversiamo rapidamente due check point gestiti da compagnie private: è il secondo esempio (dopo i vigilantes che abbiamo incontrato a Gerusalemme) di come privati e Stato cooperino per la sicurezza di Israele. Alla prima nostra sosta per rifocillarci, incontriamo un gruppo di militari su un gippone Hummer armato di mitragliatrice. Sono simpatici, si fanno fotografare assieme a noi, non sembrano affatto tesi anche se si tratta di una pattuglia. E’ la stessa calma che caratterizza due ragazze armate che incontriamo tra le rovine romane di Beit Shean: tengono i loro fucili a tracolla come se si trattasse di ombrelli, mentre chiacchierano e scattano foto come liceali in gita scolastica. Anche questa è Israele, un popolo che ha imparato da anni a coesistere con la guerra, comportandosi sempre come se fosse in pace.
Che la situazione sia veramente calma in questo periodo, lo capiamo dall’attraversamento dell’enclave palestinese di Eluja. Non passiamo alcun confine visibile, semplicemente ci cambia il colore dell’asfalto sulla strada e soprattutto cambiano le facce della gente e la forma delle case dei paesini che attraversiamo. Se Vittorio, la nostra guida, non ce l’avesse detto, nessuno di noi si sarebbe accorto del passaggio del confine. A quanto ci dice la nostra guida, Eluja non è mai stata in guerra con Israele. Ora è una zona che può essere attraversata, pacificamente e senza difficoltà, anche dal traffico di auto israeliane. La nostra prima meta è Beit Shean, appunto. Si tratta di una grande e magnifica città romana, di cui sono rimasti intatti colonnati, le terme, i pavimenti a mosaico, un enorme anfiteatro in grado di contenere sino a 4000 spettatori. Parrebbe una cattedrale nel deserto, visto che è una città lontana da qualsiasi punto strategicamente significativo. Probabilmente i romani volevano proprio questo: far vedere alla popolazione locale di essere in grado di costruire cattedrali urbane anche nel deserto.
Arrostiti per bene in mezzo alle rovine romane, rifocillati con ottimi falafel e un gudurioso frullato di fragola e banana che, fatto così bene, possiamo trovare solo in Israele, siamo poi andati a rinfrescarci in un vero e proprio paradiso terrestre: la vicina oasi di Sakhne. Avete in mente i film in cui, arso dalla marcia nel deserto, un attore si tuffa nell’acqua in mezzo alle palme? Ecco, quella è l’esatta sensazione di un bagno nell’acqua (calda come una vasca da bagno!) di Sakhne, in mezzo a prati puliti e curatissimi e alle palme che circondano i due piccoli laghi. Purtroppo tutti i paradisi in terra sono a termine e dobbiamo riprendere il cammino. A Yardenit, sul fiume Giordano, sempre a proposito di questioni celesti, troviamo un gruppo di protestanti che si battezza, senza timore di essere divorato da immensi pesci-gatto che nuotano in mezzo ai battezzandi. Mentre, all’esterno del complesso religioso, un vivace frate francescano si indigna, parlandoci in italiano, delle “bugie che questi protestanti raccontano!”. Non sembra possibile, insomma, trovare un cristiano d’accordo con l’altro: l’impressione diventa sempre più viva man mano che passano i giorni qui in Terra Santa.
Arriviamo alle colline della Galilea, da cui possiamo ammirare con un unico colpo d’occhio, tutta la vallata del Lago di Tiberiade. Anche questa, tanto per cambiare, è una terra ricchissima di storia, antica e contemporanea. Sulle rive di questo lago avvenne gran parte della predicazione di Gesù, che camminò su quelle acque e qui moltiplicò i pani e i pesci, compiendo due dei suoi più noti miracoli. Ora questi episodi di storia biblica sono celebrati da un monastero ortodosso, che andiamo a visitare. Un vero gioiellino dalle cupole rosse, con giardini paradisiaci abbelliti dalla presenza di due pavoni. La città di Tiberiade, dedicata all’imperatore romano Tiberio, risorse dopo un lungo periodo di decadenza con l’arrivo degli ebrei sefarditi cacciati dalla Spagna nel 1492. Ma queste sono anche le terre delle quattro guerre combattute da Israele contro la Siria, nel 1948, nel 1967, nel 1973 e nel 1982. Da qui, infatti, possiamo osservare tutte le pendici delle alture del Golan, da cui si può dominare (e bombardare) tutta la vallata sottostante. Strappate al dominio siriano nel 1967, ora Israele le ha rese parte del suo territorio nazionale con una legge emessa nel 1981.
E’ un pezzo di storia contemporanea di Israele anche l’albergo in cui stiamo per andare, per farci una doccia e goderci un meritato riposo dopo una giornata di viaggio e visite sotto il sole. Infatti non si tratta di un albergo normale, ma di un kibbutz, comunità, la forma produttiva peculiare della prima Israele. Guido Sasson, unico ebreo italiano del posto, ci accoglie al Kibbutz Lavi. Nati su ideali socialisti (ma il Kibbutz Lavi è religioso), i kibbutz sono un’applicazione di collettivismo puro. Gli individui che ne fanno parte non hanno proprietà privata e non guadagnano soldi in cambio del loro lavoro. Essi lavorano per la comunità e dal resto della comunità ricevono quello di cui hanno bisogno. In queste piccole strutture si realizza alla lettera l’equazione marxiana “da ciascuno secondo le proprie possibilità a ciascuno secondo il proprio bisogno”. Contrariamente al socialismo reale, quello del kibbutz è un comunismo volontario: si entra se si vuole, da adulti consenzienti, una volta raggiunta la maggiore età e si esce quando si vuole, percependo anche una liquidazione in base al lavoro svolto. I socialisti e gli anarchici hanno sempre indicato il kibbutz come unica forma di collettivismo funzionante, perché applicato su piccola scala e su base rigorosamente volontaria. Effettivamente molti kibbutz hanno registrato un notevole successo economico, sono quotati in borsa (uno anche nel Nasdaq) e si sono espansi aprendo filiali all’estero. A giudicare dal lusso del nostro albergo al Kibbutz Lavi, questo modello economico funziona eccome. Tuttavia, come ci spiega Guido Sasson, i problemi non mancano. Fondandosi su una retribuzione basata su necessità, gli elementi più brillanti della società non sono attratti dai kibbutz, ma da ben più remunerative carriere nel privato. Molte comunità pagano esperti esterni per svolgere funzioni amministrative e aziendali e in questo somigliano sempre più ad aziende private. E poi non dimentichiamo: solo il 2,5% degli israeliani vive in kibbutz. Se fossero il modello vincente, a quest’ora avremmo uno Stato fondato sulle comunità collettive. Cosa che, invece, non vediamo.

[b]Di vedetta, sul fronte del Golan (2 giugno)[/b]

Le vecchie fortezze sulle alture del Golan della guerra dello Yom Kippur sono vuote e ospitano decine di curiosi. Dalle feritoie che permettono una vista eccezionale su tutta la zona di confine tra Israele e Siria ora non spuntano le canne di mitragliatrici, ma fotocamere e videocamere digitali dei turisti. Che, a parte noi, sono soprattutto israeliani. Da quei magnifici punti di osservazione circondati da mura e trincee di cemento si può vedere sino a Quneitra, nelle giornate particolarmente limpide anche fino a Damasco. Non stiamo parlando di storia antica, non delle vestigia di un conflitto dell’epoca dei romani o dei crociati. Ma delle tracce di una guerra conclusa militarmente solo 35 anni fa, ripresa nel 1982 e pronta a riaccendersi in ogni momento. Con la Siria non si è mai concluso un trattato di pace. Tra Israele e il suo vicino arabo militarmente più forte permane uno stato di guerra fredda permanente, intervallata da episodi di guerra calda.
Non sono passati più di cinque anni, infatti, da quando gli aerei israeliani colpirono campi di addestramento per terroristi in territorio siriano. Ed è del 6 settembre scorso il misterioso raid degli aerei con la Stella di David contro un presunto impianto atomico costruito con l’aiuto dei nordcoreani. Damasco ha appena invitato gli ispettori dell’Aiea sul suo territorio per verificare se quel sito sospetto fosse realmente un reattore segreto o meno. Intanto che si tratta per raggiungere un accordo di pace e contemporaneamente si cercano le prove della nuova “pistola fumante” del regime di Assad, sul Golan si vive in una condizione che non è ne’ pace ne’ guerra. Si vive tranquilli nelle città, come a Qiriat Shmona (colpita ripetutamente dagli Hezbollah nella guerra del 2006) dove i giovani vanno ai McDonald’s appena usciti da scuola, i campi sportivi sono pieni. I surfisti si divertono nelle acque del Mar della Galilea e a Tiberiade si esce a “fare le vasche” in centro o sul lungolago, tra mercatini e locali con musica revival anni ’80, proprio come a Jesolo in piena estate. Nello stesso tempo, a una ventina di chilometri da questa pace, ci si prepara a fare la guerra. Al fianco delle strade asfaltate si snoda una serie di percorsi paralleli, fatti in cemento armato o in terra battuta, dove possono passare i carri armati senza danneggiare o rallentare il traffico dei civili.
E’ l’emblema della vita da quelle parti: la guerra è una realtà sempre presente o imminente, ma non può disturbare la vita di tutti i giorni. Non ci sono esempi di pacifismo militante, come eravamo abituati nell’Europa della Guerra Fredda. Sul Golan, semplicemente, i cittadini di un paese vicino alla possibile linea del fronte protestano se i carri armati fanno le manovre anche di notte, oltre che di mattina. Le bandiere arcobaleno ci sono su molte finestre, ma non sono quelle della pace. Sono quelle dei drusi, una minoranza che non ha una sua terra, ma non dimostra una visibile propensione a volerne una. Sul Monte Hermon svettano le antenne radar e quelle dei centri di ascolto israeliani, quelli che spiano ogni singolo movimento del possibile futuro nemico. Si tratta di apparecchiature misteriose e sofisticate. E anche alquanto dispendiose: ciascuna di esse, a quanto si dice da queste parti, richiede più energia elettrica di quella usata da tutti i cittadini della regione del Golan. Sono quelle le nuove sentinelle: il tempo dei militari di pattuglia, trincerati sulle alture e muniti di binocolo, è tramontato. Alle spalle della prima linea, sotto il fronte degli occhi e delle orecchie elettronici, si preparano i carri armati.
Sono sempre i Merkava a costituire la forza di difesa-contrattacco di questo fronte. Ovunque sono state scavate (di recente) buche per interrarli in caso di attacco e fossati anti-carro per frenare i mezzi del nemico. I Merkava manovrano ovunque e si fanno vedere, più numerosi del bestiame locale. Abbiamo il raro privilegio di assistere da vicino ad una loro manovra e di parlare con un ufficiale carrista. Gli equipaggi che li manovrano non sono sprovveduti e molti hanno già un’esperienza di combattimento: la guerra del Libano del 2006. Il giovanissimo ufficiale carrista che incontriamo, sicuro di sé e della potenza dei mezzi al suo comando, ci spiega che le lezioni di quel conflitto sono state preziose. La guerra contro una fanteria leggera nemica ha insegnato che carri e uomini appiedati non possono combattere in operazioni separate. Ora non sono più i carri a fornire copertura ai fanti (come avveniva nella I e nella II Guerra Mondiale), ma i fanti a creare una “bolla” di protezione attorno ai mezzi corazzati. I combattimenti hanno insegnato che un carro non può mai fermarsi (se non in zone amiche e ben protette), deve essere in movimento costante per non fare da facile bersaglio per i fanti nemici armati di anti-carro. Da un lato, quel conflitto è terminato con una conferma della bontà dell’equipaggiamento della Forza di Difesa israeliana. Gli Hezbollah hanno lanciato circa 10.000 missili e razzi anticarro, ma solo 50 mezzi corazzati israeliani sono stati distrutti, di cui tre soli hanno perso tutto l’equipaggio. I miliziani sciiti hanno perso circa 800 uomini, gli israeliani 128, inclusi i civili colpiti nelle loro case, a decine di chilometri dal fronte. Quando chiediamo all’ufficiale cosa pensi dei media occidentali che considerano quella del Libano una sconfitta israeliana, risponde ridendo: “vedete voi, ognuno la pensa come vuole”.

[b]Tutti al mare (3 giugno)[/b]

Guido Sasson ci fa visitare di prima mattina il Kibbutz Lavi, il luogo che ci ha ospitato nelle ultime due notti. Bisogna dimenticare lo scenario classico di quattro capanne, una torretta di guardia e un reticolato: quello che visitiamo oggi è un kibbutz fatto di graziose casette monofamiliari, un asilo, una sinagoga, una biblioteca, giardini profumati (uno dei quali con musiche e scritte in brail per i ciechi) e una fabbrica specializzata nella costruzione di mobili per sinagoghe. C’è tutto il necessario per la vita materiale, lavorativa e spirituale della piccola comunità che abita qui.
Sasson ci saluta e ci riconsegna nelle mani della nostra guida Vittorio di Cesare. Che ci accompagna, questa volta, fino alle coste del Mar Mediterraneo. La giornata di oggi sarà interamente svolta lungo la lunga costa mediterranea. La nostra prima tappa è Acco, conosciuta sui nostri libri di storia medioevale come S. Giovanni d’Acri. Su quelle mura, molto spesse e imponenti, rimaste per lo più intatte, si combatté l’ultima battaglia tra i mammelucchi e i crociati. Questi ultimi ebbero la peggio dopo un sanguinoso assedio nel 1291 e da quel momento i regni crociati cessarono di esistere dopo quasi tre secoli di guerre. Fino a quel momento San Giovanni d’Acri era un punto di arrivo per i pellegrini e i guerrieri giunti da tutta l’Europa medioevale per liberare la Terra Santa. Ora è una città di foggia ottomana, con la sua caratteristica torre dell’orologio (ce n’è una molto simile anche a Giaffa) e i suoi minareti a punta aguzza. Girando per i vicoli della città vecchia, sembrerebbe una tipica, caotica, città araba. Passiamo attraverso i suq affollatissimi quanto sporchi, per arrivare a vedere l’unica moschea aperta al pubblico di tutto il nostro viaggio. Aperta… ma non gratuita. I custodi arabi ci chiedono 10 shekel (2 euro) a testa per entrare. Ne vale assolutamente la pena: il cortile interno e le pareti sono candidi come lo zucchero, i pavimenti (contrariamente al quartiere che ci circonda) sono tirati a lustro. La moschea è stata dedicata ad Al Jazeer, governatore ottomano che ha risollevato le sorti della città dopo due secoli di decadenza. Era detto “il macellaio”, per i suoi metodi amministrativi ben più duri rispetto a quelli dei nostri sindaci. Noi comunque abbiamo modo di apprezzare la macelleria locale: possiamo gustarci in pausa pranzo gli ottimi spiedini di pollo della cucina tradizionale drusa, gli stessi che non avevamo fatto a tempo a mangiare nel corso della nostra gita sul Golan, il giorno prima.
Ci prendiamo, purtroppo, una piccola delusione a Haifa. Per mancanza di accordi, infatti, non possiamo visitare i giardini Ba’hai. Questa piccola religione orientale (ha origine in Persia ed è praticata da appena 6 milioni di fedeli in tutto il mondo) ha il suo centro mondiale proprio qui in questo importante porto israeliano. Ovunque nel Medio Oriente (e soprattutto in Iran, dove è nata) viene emarginata o direttamente perseguitata: solo in Israele è libera. I giardini Ba’hai, che scendono a terrazze sin quasi al mare, sono comunque una visione magnifica, degna delle migliori leggende sugli antichi giardini pensili persiani e babilonesi dei tempi d’oro.
Un giardino ben più occidentale, come concezione, è quello che ci accoglie a Cesarea, la nostra terza tappa sul Mediterraneo. Cesarea è un luogo “fighetta”, per dirla alla milanese. Ci sono campi da golf, palme, aiuole curatissime e colorate, localini sul lungomare con arredamente hi-tech e residence di lusso. A quanto pare viene scelto come luogo per celebrare e festeggiare matrimoni, dato che avvistiamo ben due coppie di sposi che si fanno fotografare sulla riva del mare. Ad attirare la nostra attenzione è soprattutto la parte romana della città. O meglio: ebraica in stile romano, perché fu costruita per volontà di re Erode in omaggio a Roma. Che allora era potenza egemone, non ancora direttamente dominatrice di questo angolo del mondo. Piaccia o no questo atto storico di mezza sottomissione, è splendido lo scenario che si spalanca alla nostra vista, con l’antico anfiteatro (attualmente restaurato e adibito a spettacoli teatrali) e tutte le rovine della città antica che arrivano fino al bagnasciuga.
Si accusa, però, una certa stanchezza di città antiche. Vogliamo una dose di ultra-modernità. Ed eccoci accontentati: alle 5 del pomeriggio del nostro ultimo giorno di viaggio arriviamo a Tel Aviv. Non abbiamo molto tempo, considerando che il nostro viaggio di ritorno inizierà alle 2 del mattino del giorno dopo.
Prima di tutto ci facciamo un bel bagno nelle acque calde del Mediterraneo, in una delle più belle spiagge d’oriente. Tutti parlano delle meraviglie di Dubai dove hanno costruito un grattacielo a forma di vela. Ma nessuno parla di Tel Aviv, dove ci sono grattacieli magnifici di tutte le forme, da quello a strutture surreali che ricordano il bauhaus anche se lo sviluppano in verticale. Come avevamo constatato nel primo giorno di viaggio, qui gli architetti contemporanei si sono sbizzarriti veramente. Il lungo-mare è una vera e propria Miami mediterranea: spiaggia, palme e grattacieli senza soluzione di continuità. Dopo il tramonto si illumina di una sfilza di locali, sulla spiaggia, aperti per tutta la notte. Con un gruppo di volontari decido di saltare il sonno e di farmi la notte bianca. A Tel Aviv non ci si va tutti i giorni. E soprattutto, in quella città, si può fare la notte bianca. E’ aperta e vitalissima 24 ore su 24, come le metropoli più civili. Anche dopo la mezzanotte trovi gente che fa footing o va in bicicletta sul lungomare, mentre masse di persone si accalcano ai banconi dei locali a prendere un drink, o fanno la coda all’ingresso delle discoteche. Questa è la Tel Aviv notturna che vediamo. Niente a che vedere con la città terrorizzata dagli attentati ai tempi (che sembrano lontanissimi) della II Intifadah. Un ragazzo, in un bar del Porto Vecchio (ora trasformato in una zona veramente trendy), ci chiede come mai facciamo parte di un’associazione di “amici di Israele”. Ha viaggiato in lungo e in largo in Europa e sa quanti pregiudizi ci siano contro questo Paese. Ci chiede se siamo ebrei o se abbiamo parenti o amici qui. Gli sembra incredibile che delle persone “estranee” come noi dedichino parte del loro tempo libero per organizzare manifestazioni o eventi a favore di Israele. Gli spieghiamo che in Italia i media stanno dando un’immagine sempre migliore dello Stato ebraico. Che i telegiornali non sono più faziosi come lo erano fino a tre o quattro anni fa e che la gente non fischia più quando vede sfilare la bandiera con la stella di David. Con questo viaggio speriamo di aver infranto un altro tabù: Israele non è un luogo pericoloso, non è un Paese in guerra. E’ un posto normale, esteticamente bellissimo, in cui si può fare una vacanza divertente.

[b]Stefano Magni[/b]

 

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