[b]ne scrive Paolo Rumiz

Testata: La Repubblica Data: 12 febbraio 2009 Pagina: 44
Autore: Paolo Rumiz Titolo: «Torah, quei testi ebraici conservati in Vaticano»

Da pagina 44 de La REPUBBLICA del 12 febbraio 2009, di Paolo Rumiz, "Torah, quei testi ebraici conservati in Vaticano":

Meraviglie, come l´unico esemplare del Targum (interpretazione) palestinese del Pentateuco, scritta in lingua aramaica sulla base di un testo forse più antico di Cristo. Oppure i salmi napoletani rinascimentali vergati su pergamena dallo spagnolo Isaac ben Moses ibn al-Ragil in caratteri sefarditi con sontuose decorazioni floreali. O il commento del IX secolo al Levitico, con vocali e accenti babilonesi scritti sopra le consonanti, un po´ come le note sul testo di una partitura musicale. Sotto, la firma dei proprietari, Hasan ben Mubarak ben Tawila e suo figlio Ali, sudditi dei califfi fatimidi in terra palestinese. Forse il più antico manoscritto ebraico esistente sulla faccia della Terra.[/b]

Ora lo sappiamo. Sta in Vaticano la più grande raccolta di manoscritti ebraici del mondo. Dopo anni di lavoro, s´è chiuso il conto. Più di ottocento documenti, molti dei quali divisi in decine di parti e ricchi di centinaia e centinaia di pagine, sono stati schedati, microfilmati, datati e commentati. Ottocento "faldoni di saggezza" come li chiama il poeta ebreo-spagnolo Moses ibn Ezra, articolati in un labirinto, sospesi in un luogo fuori dal tempo, un giardino di spiriti magni, una casa dalle mille porte di cui un catalogo – appena stampato a Gerusalemme d´accordo con la Chiesa di Roma – fornisce i chiavistelli al lettore.
Scritto in ebraico e inglese, questo Libro dei libri offre, in tempi non facili, un ennesimo "ponte" fra cristiani ed ebrei. Lo dicono già i due frontespizi contrapposti – l´opera si legge da due parti – come i battenti del tempio di Giano Bifronte.
"Sefer" in ebraico significa il libro, dunque parola, ma anche codice e numero. Da "sefer" deriva la parola "cifra", a spiegare che alfabeto e matematica hanno radice comune. La parola non è solo una targhetta applicata alle cose, ma è l´anima del creato. E sulla parola è lecito, anzi doveroso, soffermarsi fino allo sfiancamento per trarne il senso ultimo, come nei commenti talmudici alla Torah.
È strana la storia. Ci sono settantamila manoscritti ebraici nel mondo, ma essi sono una minima parte di ciò che è stato prodotto nei millenni e che è andato disperso non tanto per diaspore o persecuzioni, quanto per degrado da usura. Succede perché, a differenza dei libri greci, latini e arabi, essi non furono conservati in biblioteche, monasteri o moschee, ma prodotti per uso privato. Così, fa notare Malachi Beit-Ariè, paleografo curatore dell´opera, i manoscritti sopravvissuti alle persecuzioni cristiane, trovarono salvezza proprio nelle biblioteche cristiane. Come quella vaticana, oggi considerata – con la biblioteca palatina di Parma – un «baluardo del retaggio letterario ebraico».
Il "boom" della scoperta è datato al tempo di Leonardo, in pieno Quattrocento, quando il Rinascimento accende la curiosità verso la Bibbia originaria, la stessa che nel giro di pochi anni Martin Lutero tradurrà in Germania, dando inizio allo scisma con Roma. Pico della Mirandola si getta a capofitto nello studio della Qabbalà, Sisto IV assume un "scriptor" ebraico in Vaticano con il compito di acquistare libri, il sacro testo in greco e latino non basta più, il più antico dei popoli del Libro diventa necessario alla "nuova" religione cristiana e la sete di "Hebraica veritas" s´accende anche fra i prelati.
Così nel 1435 Isaac ben Obadiah di Mantova copia per Mordechai ben Avigdor da Forlì un manoscritto giuridico con favolose miniature, ma subito il cardinale Domenico Capranica sborsa fior di quattrini per comprarlo. La curiosità per quel mondo è divorante: nel 1472 il duca di Urbino assedia e saccheggia Volterra solo per mettere le mani su collezioni di manoscritti ebraici contenuti nella città. Vuole soprattutto i libri di Menahem ben Aharon, possessore della "Bibia Volterra", un tomo splendido che poi finisce nella biblioteca del Papa, esce indenne dal "sacco di Roma" a opera dei Lanzichenecchi, e ricompare intatto, cinque secoli dopo, nel catalogo in questione.
Ma fin dall´inizio l´interesse curiale nasconde intenti di conversione, più meno forzata: la conoscenza dei manoscritti diventa il know how indispensabile a conoscere l´anima degli "amatissimi nemici" di San Paolo per poterli meglio manipolare. Così si studiano i vecchi testi in alfabeto askenazita o sefardita, li si smonta, li si correda di annotazioni cristologiche per cercare nella Torah le prove dell´annuncio dell´arrivo di Cristo in Terra.
Ma ecco, egualmente annotate a margine del Pentateuco o dei Salmi, ecco negli ebrei stessi le preoccupazioni per gli effetti della diaspora e per la pressione del Sant´Uffizio. Sono altri tempi. Col libro ci si confida, come all´amico più intimo. E così tutto finisce, perfettamente leggibile, nella pergamena che il Libro dei libri fedelmente ci riconsegna secoli dopo.
C´è gente che a causa della Controriforma cambia identità: vedi il figlio di rabbi Nissim Abu-al-Faraj di Sicilia, uno Zelig ante litteram che diventa Guillelmus Raimundo Moncada e, da convertito, Flavius Mitridates, traduttore in latino della Qabbalà per Pico della Mirandola. Oppure i commentari cristologici, pure in latino, ai Salmi CXX e CXXXIV di Alessandro de Franceschi, apostata e missionario a caccia di ex confratelli da convertire, prima conosciuto come Hananel Graziadio da Foligno. O ancora le virulente omelie antiebraiche di Andrea del Monte, ex rabbi Samuel Zarfati da Fez, Marocco, sbarcato in Italia dal Marocco col nome di Domenico Gerosolimitano.
Ma questi drammi personali sono compensati dal destino, e così accade che la prima vera full immersion del Papato nell´ebraismo (senza più intenti di conversione) inizi in pieno periodo antisemita. Negli anni Trenta papa Achille Ratti invita studiosi come Umberto Cassuto e Giorgio Levi della Vida a lavorare nella biblioteca vaticana per leggere e catalogare i vecchi manoscritti in lingua semitica. Un´ospitalità che continua anche dopo le leggi razziali e durante la guerra. Ma è soprattutto con Giovanni Paolo II che – dopo l´apertura conciliare di Giovanni XXIII ai "fratelli del libro" – Roma e Gerusalemme stipulano l´accordo di collaborazione che mette in cantiere l´opera di catalogazione finale.
Il pensiero forte di Wojtyla «in questi tempi amareggiati da odiosi negazionismi della Shoah», è richiamato da monsignor Pierfrancesco Fumagalli, vicerettore dell´Ambrosiana, che ha seguito da vicino la "navigazione" degli studiosi in Vaticano verso questi «orizzonti sconfinati del pensiero». E spiega che l´avventura più intrigante è forse andare oltre il contenuto delle pergamene, ricostruirne il viaggio attraverso come in un albero genealogico.
Attraverso le note in calce si apprende per esempio che i commenti di Ibn Ezra ai trattati cabbalistici, copiati da un testo trecentesco ad Alessandria d´Egitto nel 1435 dal medico Joshua ben Judah, furono comprati l´8 maggio 1541 dal banchiere Fuegger per sei ducati.
Si scopre che i Codici Rossiani – fantastica Bibbia italiana del 1286, zeppa di disegni a colori – Mosed ben Jakuthiel li riceve dal suocero Nethaniel morente e li vende nel 1432, per 42 ducati d´oro, al medico di Ascoli Piceno Jakob ben Abraham alla presenza dei testimoni Joseph ben Samuel e Menahem ben Daniel. Centotrenta anni dopo la figlia di tale Moses di Porto cede il prezioso malloppo a Moses ben Obadiah di Sulmona alla presenza del pisano Samuel ben Jehel.
Passaggi di mano, a volte furti o tempestosi sequestri. Vite, meteore che attraversano il cielo della storia, e lasciano traccia di sé solo grazie al Libro.

 

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