Alla fine del mese scorso è stato mandato a molti residenti di Tel Aviv un invito in tre lingue: il 3 aprile si sarebbe svolta in un parco cittadino una festa molto particolare, un Seder di Pesach, cioè un pasto che gli ebrei usano consumare la prima sera di Pasqua, nota presso i cristiani come l'Ultima Cena di Gesù. Molto particolare perché oltre che a svolgersi di giorno, anziché di sera e qualche giorno prima dell'inizio effettivo della Festività, era un'occasione per un caloroso, gioioso, istruttivo, ma anche informale incontro tra profughi africani, in particolare dal Darfur e dall'Eritrea con i residenti della città.

Una festa all'aperto, con una tavola abbondantemente imbandita, con musica africana, israeliana e mediorientale e tanti giochi per i più piccoli.
In Israele ci sono molti profughi e lavoratori stranieri. Dei primi, circa 14mila provengono dalle zone martoriate dell'Africa. Scappando soprattutto dal Darfur e dall'Eritrea, sono passati per l'Egitto ed entrati in Israele in cerca di un rifugio, trovando 8 associazioni (Amnesty International, Assaf – associazione per l'accoglienza dei profughi, Acri – Associazione per i diritti civili in Israele, Hotline for Migrants Workers, Medici per i Diritti Umani, Centro per lo Sviluppo dei rifugiati africani, Worker's Hotline e The Refugee Right Clinic dell'Università di Tel Aviv) ad accoglierli e a occuparsi di loro. Molti sono già integrati, alcuni lavorano da uno o due anni in Kibbutz o in altre comunità agricole, i ragazzi vanno a scuola e, come tutti i più giovani, hanno imparato velocemente la lingua. Un'altra associazione di volontari, Activision, con un progetto, noto come Asylum City, ha organizzato un corso di video di tre mesi, durante i quali 15 adolescenti hanno avuto la possibilità di raccontare le loro esperienze. "Girare video li ha aiutati a capire che hanno nelle loro mani il potere di creare consapevolezza sulla loro situazione. Li ha fatti sentire al pari degli altri", commenta uno dei volontari. Ne è venuto fuori un filmato, "Te e me", di cui alcuni racconti sono andati in onda sui canali televisivi pubblici e l'argomento si è diffuso anche nel web. La maggioranza della popolazione vede in questi rifugiati le esperienze personali o dei propri antenati; l'invito alla festa nel parco del 3 aprile recita: "Perché anche noi eravamo stranieri e, come ricordiamo ancora oggi con questo pasto la nostra fuga dalla schiavitù in Egitto verso la libertà, così ora essi cercano qui rifugio" (riferendosi al passo biblico dell'Esodo) e ricorda che lo Stato di Israele, nella dichiarazione di Indipendenza, garantisce a tutti i suoi abitanti gli stessi diritti.
Ovviamente, però, non tutti hanno accolto a braccia aperte questi rifugiati: un ragazzino del corso si lamenta che alla stazione degli autobus di Tel Aviv molti dei passanti sono presi dai loro problemi: intervistate, una filippina racconta che ha lei stessa già abbastanza guai per pensare agli altri, trovandosi in Israele illegalmente, mentre una signora risponde che non può pensare ad altro che alla guerra che Hamas ha lanciato da Gaza. In un blog, Onejerusalem, dove il proprietario invita a raccogliere cibo, indumenti e beni di prima necessità per i rifugiati, un commentatore scrive: "Non possiamo aiutare anche altri. Quanti bambini israeliani vanno a letto la sera con lo stomaco vuoto? Siamo un piccolo Paese di sette milioni di abitanti, non è nostro compito salvare il mondo. Lasciateli andare in Cina, in India o in Russia. Che li aiutino l'Arabia Saudita o l'Iran con i loro ricavati petroliferi." Un'altra commentatrice afferma: "Ho studiato le relazioni politiche tra Egitto e Sudan: tra i due Paesi c'è un accordo di libero scambio e movimento, quindi non c'è nessun motivo per cui i sudanesi meridionali non tornino nella loro terra d'origine (perfino l'Onu sta tentando di rimpatriarli), la guerra civile è finita nel 2005. (…) Certo, quando si presentano alla frontiera noi non possiamo cacciarli via perché le loro vite sono in pericolo, ma non pensi che, questo è il punto, essi sanno già prima che qui saranno ben accolti?" I ragazzi rifugiati, invece, hanno sentimenti contrastanti: si trovano bene, studiano, ma hanno nostalgia del Paese d'origine e, spesso, anche della famiglia che sono stati costretti a lasciare. Uno dei partecipanti al corso di video dichiara tra le lacrime: "E' impossibile ora vivere in Sudan oggigiorno. Voglio studiare per diventare medico e tornare ad aiutare il mio popolo in Africa". Molti adulti alla manifestazione contro Bashir che si è tenuta all'indomani dell'incriminazione da parte della Corte Penale Internazionale dell'Aja, sventolavano la bandiera israeliana e alcuni hanno raccontato: "quando eravamo piccoli, seguendo il nostro curriculum scolastico in arabo, ci raccontavano che gli israeliani erano il male. Quando siamo arrivati qui ci siamo resi conto che quel che ci avevano detto era tutto sbagliato." E un altro dichiara: "Noi amiamo Israele, nessun altro Paese ci ha accettato. In Egitto hanno ucciso molti sudanesi, in Libia c'è una forte discriminazione e sono qui (alla manifestazione) per dire al mondo di unirsi a Israele per aiutarci. Ringrazio il Signore ogni giorno per essere venuto qui." 14 aprile 2009 ,
http://www.agenziaradicale.com/

tratto da: http://viaggisraele.blogspot.com/

 

One Response to Dal Darfur in Israele

  1. Admin ha detto:

    Ottima la solidarietà al popolo del Darfur.
    Aggiungerei anche l'auspicio che alla solidarietà si aggiungano le armi.

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