[b]Pezzo in lingua originale inglese: Obama and Israel, Into the Abyss
di Daniel Pipes
Liberal 25 luglio 2009[/b]

Fonte:

Ciò che nelle settimane passate ho definito «un rapido e duro cambiamento contro Israele» da parte dell'amministrazione Obama ha avuto tre risultati veloci, prevedibili e controproducenti, indici di ulteriori difficoltà in vista. Primo risultato. La decisione di Barack Obama di mostrare i muscoli con Israele si traduce in crescenti pretese da parte dei palestinesi.

Ai primi di luglio, il presidente dell'Autorità palestinese Mahmoud Abbas e Saeb Erekat, il suo capo negoziatore, hanno insistito su cinque concessioni unilaterali da parte dello Stato ebraico. Che sono: uno Stato palestinese indipendente; un ridimensionamento dei confini israeliani che tornerebbero ad essere quelli esistenti antecedentemente al giugno 1967, senza un braccio di terra fra la Cisgiordania e la Striscia di Gaza; un "diritto al ritorno" palestinese in Israele; la risoluzione di tutte le questioni relative allo status permanente, in base al piano Abdullah del 2002; e infine uno stop incondizionato al progetto edilizio da parte degli ebrei a Gerusalemme est e in Cisgiordania. I palestinesi e gli americani sono i designati spettatori di questa lista di prelazioni; il documento mostra che simili pretese esorbitanti si limitano a ridurre la disponibilità israeliana a fare delle concessioni.

L'ex Hotel Shepherd a Gerusalemme est.
Secondo risultato. Il governo Usa prende ordini di marcia da Abbas e li passa agli israeliani. Abbas si lamenta con gli americani che la costruzione di 20 appartamenti e di un parcheggio sotterraneo nel quartiere Shimon Hatzadik a Gerusalemme est, 1,4 km a nord della Città Vecchia, muterebbe l'equilibrio demografico di Gerusalemme. Il 17 luglio il dipartimento di Stato ha prontamente convocato l'ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, incaricandolo di bloccare il progetto edilizio.

Qualche informazione. I sionisti fondarono il quartiere Shimon Hatzadik nel 1891, acquistando la terra dagli arabi, e poi, a causa di sommosse arabe e della conquista giordana, abbandonarono l'area. Amin al-Husseini, il mufti filonazista di Gerusalemme, costruì un edificio negli anni Trenta che in seguito ospitò l'Hotel Shepherd (da non confondere con lo Shepeard's Hotel al Cairo). Dopo il 1967, gli israeliani dichiararono la terra "proprietà latitante". Irving Moskowitz, un uomo d'affari americano, acquistò la terra nel 1985 ed affittò l'edificio alla polizia di frontiera fino al 2002. La sua società, C and M Properties, due settimane fa ha ottenuto l'autorizzazione definitiva a restaurare l'hotel e costruire degli appartamenti in loco. Terzo risultato. La richiesta americana ha provocato una risolutezza israeliana volta a non infrangere le tradizionali posizioni, bensì a reiterarle. Oren ha respinto la richiesta del dipartimento di Stato. Il premier israeliano Binyamin Netanyahu, che ha ammesso di essere rimasto "sorpreso" della pretesa americana, ha assicurato ai colleghi «non mi darò per vinto sulla questione». Pubblicamente, Netanyahu ha chiuso la porta alle concessioni. Insistendo sul fatto che la sovranità israeliana su Gerusalemme «non può essere messa in discussione», egli osserva che «gli abitanti di Gerusalemme potrebbero acquistare degli appartamenti in ogni parte del Paese» e ha intenzionalmente rammentato che «negli ultimi anni centinaia di appartamenti nei quartieri arabi e nella zona occidentale della città sono stati acquistati dai residenti arabi – oppure affittati ad essi – e noi non abbiamo interferito». «Questa è la linea politica di una città aperta, priva di divisioni che non presenta delle separazioni a seconda dell'appartenenza religiosa o nazionale».

Poi la sua risentita chiosa: «Non possiamo accettare l'idea che gli ebrei non avranno diritto a vivere e ad acquistare abitazioni in qualsiasi zona di Gerusalemme. Posso limitarmi a spiegare a me stesso cosa sarebbe accaduto, se qualcuno avesse avanzato una proposta che vietava agli ebrei di vivere in certi quartieri di Londra, Parigi o Roma. Senz'altro ci sarebbe stato un grande clamore internazionale. Di conseguenza, non possiamo essere d'accordo con un simile provvedimento da applicare a Gerusalemme». Posizione, quest'ultima, rivendicata sia dal ministro degli Esteri Avigdor Lieberman sia da Yuli Edelstein, ministro dell'Informazione e della Diaspora, che ha aggiunto come la richiesta Usa "dimostri quanto sia pericoloso tirare dentro i colloqui la questione del congelamento di un insediamento. Perché potrebbero spingersi a immaginare un congelamento delle nostre vite in seno a Israele». Dal quando l'amministrazione Obama ha dato il via al suo attacco contro gli "insediamenti" israeliani (27 maggio), fa mostra di un'inaspettata ingenuità e mi chiedo quando tornerà a rendersi conto che Washington fallisce quando dà ordini al suo principale alleato mediorientale. Di più: ha mostrato una vera e propria incompetenza attaccando briga in merito ad una questione sulla quale già esiste un consenso israeliano – non su un remoto "avamposto", ma su un quartiere di Gerusalemme che vanta un pedigree sionista dal 1891. Quanto tempo ci metterà Obama a comprendere il proprio errore e a ravvedersi? Quanti danni farà nel frattempo?

 

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