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[b]Fiamma Nirenstein

Il Giornale, 4 agosto 2009
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Se il mondo si era affacciato alla finestra per guardare meglio la conferenza di Fatah che da oggi raccoglie 2265 delegati a Betlemme per tre giorni, meglio torni a dormire.

Non ci sarà un cambio della guardia, i più che settantenni resteranno al potere; non ci sarà un cambiamento di linea che porti il Mediorente verso la pace; non ci sarà la base per un accordo fra Fatah e Hamas. Il fatto che si tratti della sesta convenzione in venti anni è una grande occasione di incontro fra personaggi sparsi ai quattro angoli del Mediorente in cui il West Bank è contro Gaza, i vecchi contro i giovani, i moderati, pochi, contro i moltissimi rivoluzionari permanenti. Hamas, che ha tentato di impedire ai 200 delegati di Fatah provenienti dalla sua zona di arrivare, è di fatto, per Fatah, il nemico da battere ma anche il remoto ispiratore di una linea sempre più tragicamente dura: la leadership di Abu Mazen, ormai 74enne, così come quella dei cinquantenni come Mahmud Dahlan o il carcerato Marwan Barguti, in dura competizione fra di loro, hanno in comune la determinazione a reggere la competizione di Hamas sfoderando toni durissimi.
Così la bozza del documento conclusivo, di cui già si parla anche se pochi l’hanno visto, promette di non riconoscere Israele come stato ebraico, di propugnare il diritto al ritorno dei profughi del ’48 e del ’67, e, pare, anche di ribadire la legittimità della lotta armata, ovvero, nella tradizione palestinese, del terrorismo.
Israele, con permessi speciali valutati dai servizi segreti dell’interno, lo Shabbach, ha scelto una linea morbida con alcune eccezioni. È stato lasciato entrare persino Khaled Abu Asba, uno degli autori del terribile attentato del 1978 sulla costa di Tel Aviv, in cui morirono 35 innocenti passeggeri di un autobus. Contento di essere rientrato, dice che adesso spera di rendere la lotta armata più attiva. Invece, non ha ricevuto il lasciapassare Munir Hussein al Maqda, un capo terrorista legato all’Iran e molto vicino agli Hezbollah, che vive in Libano nel campo profughi di Ein al Hinveh, tiene collegamenti con Hamas, spedisce denaro e ordini a chi si vuole far coinvolgere in attività terroriste.
A Betlemme si eleggerà un comitato centrale di 21 persone, per cui ci sono 150 candidati e un comitato rivoluzionario di 120 delegati, per cui ci sono 500 in lizza. Il capo della nuova guardia è Hatem Abdel Khader, e punta sul comitato rivoluzionario, perché il vertice è ancora in buona parte controllato dalla vecchia guardia, che dal ritorno di Arafat con i suoi da Tunisi, ai tempi degli accordi di Oslo, ha consolidato un vasto potere piramidale, sempre sotto accusa da parte della gente, anche a causa della corruzione.
Il cambo della guardia, il rafforzamento di Fatah a fronte di Hamas, la definizione della strategia, sono i tre obiettivi principali della conferenza di oggi. Ma il presente della lotta con Hamas incombe, insieme al solito uso dell’antisraelismo, tanto più fonte di potere quanto più acuto e gridato. È chiaro che rifiutarsi di riconoscere lo stato ebraico non c’entra col rifiuto di principio di uno stato confessionale, dato che gli ebrei sono una nazione laica con il 20 per cento di religiosi che seguono le loro regole ma non possono imporle a nessuno. La verità è che riconoscere lo stato ebraico d’Israele significa rinunciare a distruggere Israele con la demografia, e questo nessuna jihad potrà mai accettarlo. Invece è proprio, magari inconsapevolmente, una forma di jihad religiosa quella per cui anche Abu Mazen propugna il “ritorno” della terza o quarta generazione di profughi figli, nipoti e pronipoti di coloro che furono costretti a spostarsi, in guerra, verso i Paesi arabi mentre un numero altrettanto grande di ebrei si spostava in fuga verso Israele. Obama certo guarda preoccupato alla prossima convenzione: potrebbe venirne fuori un grosso “no” alla sua linea della mano tesa, e proprio da chi non se lo aspetta.

 

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