14-08-2009

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Approfondimento di Janiki Cingoli
Segnalato da Daniela Cohen

Il congresso di al Fatah si è concluso con un sostanziale successo, smentendo chi riteneva che l’organizzazione fosse in una crisi oramai irreversibile, e che ogni tentativo di rivitalizzarla fosse destinato al fallimento.

Non che mancassero le ragioni per crederlo. Al Fatah è uno dei tanti movimenti di liberazione nazionale, di imprinting sovietico.
Movimenti che hanno finito per evolvere in partiti-stato, perdendo ogni collegamento con le masse, disinteressandosi dei problemi più profondi della società e identificandosi con il potere, con gli inevitabili corollari di burocratizzazione, corruzione e autoritarismo.
Come l’Fln in Algeria, o l’Mpla in Angola. Un processo che, nei paesi arabi, ha finito per lasciare largo spazio ai diversi fondamentalismi islamici. Solo che al Fatah è diventato un partito-stato senza avere uno stato.
E tuttavia, le innervature della società palestinese hanno fatto resistenza a che questo processo si compisse del tutto; in qualche misura ha influito anche, malgrado l'occupazione, il riferimento della contigua società israeliana con le sue ricche articolazioni; infine le diverse fasi di resistenza popolare alla occupazione, inclusa l’ultima intifada, hanno portato nuova linfa al movimento, esprimendo nuovi quadri più legati alla popolazione e meno compromessi con le vecchie pratiche.
Da tutto ciò è derivato un aspro e prolungato confronto tra la vecchia guardia dei notabili e il cosiddetto gruppo dei giovani, in realtà quarantenni e cinquantenni, il cui dirigente più prestigioso è Marwan Barghouti, il leader della seconda intifada, da anni nelle carceri israeliane condannato a diverse sentenze all’ergastolo.
I vecchi hanno resistito fino all’ultimo, per non perdere il loro ruolo e i privilegi connessi, ma hanno dovuto per la maggior parte cedere le armi: nel nuovo comitato centrale di 18 membri sono entrati solo alcuni di essi, come Nabil Sha’aath, redattore del documento politico approvato, o il capo negoziatore Saeb Erekat. Molti degli altri, oramai anche fisicamente inabilitati a svolgere alcun ruolo, sono scomparsi.
La vittima più illustre dello scontro è Ahmed Qrea (Abu Ala), l’ex premier che aveva tentato di contrapporsi a Abu Mazen alleandosi alla vecchia guardia, e che è stato sonoramente trombato dal voto.
L’altro sconfitto è Farouk Kaddoumi, il leader dell’ala intransigente, sempre restato all’estero, che alla vigilia del voto aveva accusato Abu Mazen di aver complottato con gli israeliani per avvelenare Arafat.
Il vincitore è il presidente Mahmoud Abbas (Abu Mazen), rieletto praticamente all’unanimità presidente di al Fatah, che ha saputo tener ferma la barra del congresso, imponendo la scelta di Betlemme per la sua convocazione, in alternativa alla Giordania come richiesto da molti dei suoi avversari per sottrarsi al controllo israeliano, e ha retto altresì la provocazione di Hamas, che all’ultimo momento aveva bloccato i 400 delegati di Gaza impedendo loro di uscire dalla Striscia, se non venivano rilasciato i circa 900 prigionieri dell’organizzazione islamica detenuti nelle carceri della Anp. I delegati di Gaza hanno finito per votare per email, e il congresso è andato avanti.
Va dato atto alle autorità israeliane di aver sostanzialmente sostenuto lo sforzo di Abu Mazen, consentendo (salvo alcuni casi estremamente limitati) a molti dei 2200 delegati che provenivano dall’esterno il rientro, anche se molti tra essi erano imputati per atti di terrorismo.
Per quanto riguarda la giovane guardia, va detto che tra gli esponenti eletti non si può certo parlare di unità: oltre a Barghouti, classificatosi terzo tra gli eletti, e di cui alcuni prestigiosi leader israeliani chiedono la liberazione dalla prigione per rafforzare la leadership di al Fatah, e a Muhammad Shtayyeh, tecnocrate di rara intelligenza, già direttore di Pecdar, vi è Jibril Rajoub, già capo della sicurezza palestinese in Cisgiordania, che non può certo considerarsi amico di Muhammad Dahlan, già capo della sicurezza preventiva a Gaza, che aveva subito un lungo periodo di eclisse dopo la bruciante sconfitta subita a opera di Hamas con il sollevamento militare dell’estate 2007, e che era stato accusato da più parti di corruzione e di controllare il flusso del contrabbando e della droga attraverso i tunnel con l’Egitto.
Resta da dire della linea politica prescelta: sostanzialmente, una riconferma della scelta negoziale, anche se viene riconfermato come diritto inalienabile il ricorso alla lotta armata contro l’occupazione se la opzione diplomatica dovesse fallire; parole moderate sulla questione dei rifugiati, per cui si auspica una soluzione equa e concordata, sulla linea del Piano arabo di pace del 2002; una richiesta del blocco totale degli insediamenti israeliani, cui si vincola la ripresa delle trattative con Israele; quanto a Gerusalemme, se ne rivendica la sovranità palestinese, senza far distinzione tra Est e Ovest, facendo eco alla rivendicazione della controparte Netanyahu, di Gerusalemme capitale unica e indivisibile di Israele.
Domani è un altro giorno, meglio non fare sconti in anticipo.

[i]Il CIPMO, Centro Italiano per la Pace in Medio Oriente, fondato nel 1989 da Janiki Cingoli , che ne è il Direttore, è tra le principali strutture di riferimento in Italia per le tematiche dell’area mediorientale e mediterranea.
Esso si propone di favorire, con un approccio bilanciato e costruttivo, il dialogo fra israeliani, palestinesi e arabi e di promuovere le più diverse forme di cooperazione euromediterranea.

Nel 1998 ha ottenuto la qualifica di Ente Internazionalistico dal Ministero degli Affari Esteri, che ne ha riconosciuto il costante impegno nel rafforzare il ruolo dell’Italia nell’area, svolgendo un compito non secondario nel sostegno del processo di pace.

Il Centro è sostenuto dal Comune di Milano, dalla Provincia di Milano e dalla Regione Lombardia, che ne hanno promosso la nascita, e realizza alcuni dei suoi più importanti progetti con il supporto dell’Unione Europea. [/i]

 

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