[b]29.12.2009
Analisi di Carlo Panella, redazione del Foglio. Intervista di Maurizio Molinari a Mehrzad Boroujerdi
Da Informazione Corretta[/b]

Testata:Il Foglio – Libero – La Stampa
Autore: Carlo Panella – Redazione del Foglio – Maurizio Molinari
Titolo: «Serve un patto tra America ed Europa per sanzioni vere all’Iran – Teheran ironizza sulla mano tesa e Obama prepara il piano B – Ieri assieme a Khomeini. Oggi contro Ahmadinejad – E' tutto in mano ai pasdaran, sarà scontro»

[b]Riportiamo dal FOGLIO di oggi, 29/12/2009, a pag. 1-3, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " Serve un patto tra America ed Europa per sanzioni vere all’Iran " e gli articoli titolati " La piazza utilizza liturgie e banconote contro la repressione dei mullah" e " Teheran ironizza sulla mano tesa e Obama prepara il piano B ". Da LIBERO, a pag. 19, l'analisi di Carlo Panella dal titolo " Ieri assieme a Khomeini. Oggi contro Ahmadinejad " .
Sui quotidiani italiani di oggi sono state pubblicate numerose interviste, riportiamo dalla STAMPA, a pag. 7, l'intervista di Maurizio Molinari a Mehrzad Boroujerdi, iranista dell’Università di Syracuse, dove dirige il Centro di studi sul Medio Oriente, dal titolo " E' tutto in mano ai pasdaran, sarà scontro ". Ecco gli articoli:[/b]

[b]Il FOGLIO – Carlo Panella : " Serve un patto tra America ed Europa per sanzioni vere all’Iran"

Carlo Panella[/b]

L’Europa si è mostrata unita nel condannare le violenze del regime iraniano, da Angela Merkel a Franco Frattini, gli Stati Uniti dimostrano molti più imbarazzi. La strategia della mano tesa di Barack Obama è fallita ed è difficile trovare una via alternativa, soprattutto perché l’Amministrazione americana rischia di restare prigioniera del multilateralismo. E il multilateralismo non fa che aiutare gli oltranzisti iraniani. Sarà difficile infatti convincere la Cina – ma anche la Russia – ad appoggiare sanzioni al Consiglio di sicurezza che favoriscano un movimento di massa in lotta contro un regime autoritario. Nell’impasse, con la credibilità della minaccia americana in grande calo, i cosiddetti moderati iraniani perdono terreno, a tutto vantaggio della strategia repressiva della Guida suprema, Ali Khamenei, che ha infatti annunciato: “L’opposizione sarà estirpata”. Angela Merkel ha definito la repressione delle forze di sicurezza iraniane “inaccettabile”, tutti i governi europei si sono distinti per prese di posizione dure nei confronti del governo di Teheran, Franco Frattini, ministro degli Esteri italiano, si è incaricato di portare l’Unione europea a una netta posizione di richiamo. Ancora una volta, invece, l’Amministrazione americana si è espressa per bocca di un portavoce, Mike Hammer del National Security. La ragione è semplice: è agli atti il fallimento totale della “svolta” nelle relazioni iranoamericane predicata da Barack Obama e non è alle viste una nuova strategia. Con una mossa azzardata – che un giorno gli verrà rimproverata aspramente – Obama decise di non aspettare, come un presidente accorto avrebbe dovuto fare, l’esito delle cruciali elezioni presidenziali iraniane, ma di anticiparle con un’apertura di credito ai dirigenti iraniani contenuta nel suo discorso del Cairo, dalla moschea di al Azhar, del 4 giugno. Dopo l’esito elettorale, i brogli e la dura repressione successiva, un Obama in evidente imbarazzo ha più volte spostato la data della verifica finale della volontà di dialogo degli iraniani: prima a fine settembre, poi a fine novembre, infine a fine dicembre. Avuta a Ginevra e nelle strade di Teheran la risposta più inequivocabile, il presidente americano ora non dispone di una strategia di riserva per una ragione molto semplice: è prigioniero del suo multilateralismo. Sia sul terreno del nucleare sia su quello della repressione interna, il multilateralismo obamiano gioca così a favore degli oltranzisti iraniani. Sino a quando George W. Bush minacciava azioni militari americane, anche al di fuori dell’ombrello dell’Onu, era chiaro ai moderati così come agli oltranzisti che le minacce erano realistiche, che Bush avrebbe potuto portarle a segno, come aveva fatto in Iraq. Questo aveva aperto una dinamica interna al regime iraniano, con un conseguente rimescolamento di schieramenti, tanto che l’ala più moderata, facente capo a Ali Hashemi Rafsanjani – sponsor dei riformisti di Mir Hossein Moussavi – pareva essere riuscita ad arruolare anche personaggi centrali come Ali Larijani, ex responsabile delle trattative sul nucleare e attuale presidente del Parlamento, Bagher Qalibaf, sindaco di Teheran, e altri. La minaccia dell’Amministrazione Bush di un embargo unilaterale americano e soprattutto di azioni militari aveva indotto lo spostamento verso posizioni aperturiste verso l’occidente della grande area sociale del bazaar, che in Iran è centrale e rappresenta un intreccio storico tra il commercio e il grande capitale finanziario privato (il cui punto di riferimento è appunto Rafsanjani). L’avvento dell’Amministrazione Obama ha tolto ogni credibilità a questa minaccia perché il vincolo multilaterale, dogma per il presidente, comporta l’accettazione del veto cinese e russo nei confronti di ogni forte pressione sul governo iraniano. Ahmadinejad e Khamenei sanno benissimo che la Cina di Hu Jintao – per evidenti ragioni di autoconservazione – non è disposta ad ammettere sanzioni che favoriscano un movimento di massa in lotta contro un regime autoritario (e lo stesso dicasi per la Russia di Dmitri Medvedev e Vladimir Putin). La dirigenza iraniana riformista e comunque quella più disponibile a un confronto dialogante con l’occidente si è così trovata indebolita sul fronte internazionale, nel momento stesso in cui ha fallito tutti i tentativi di ribaltare il verdetto elettorale del 12 giugno scorso e addirittura di destituire Ali Khamenei (obiettivo che Rafsanjani persegue da tre anni, dalla posizione strategica di presidente del Consiglio dei guardiani, che ha appunto i poteri per nominare, ma anche per destituire, la Guida della rivoluzione). Scomparsa anche la voce dell’ayatollah Montazeri, gli spazi della fronda di vertice a Khamenei e Ahmadinejad sembrano al lumicino: Rafsanjani non parla in pubblico da mesi e non si registra un suo commento neanche per gli avvenimenti tragici di questi giorni, Bagher Qalibaf tace, Larijani, in veste di neofalco, si fa sentire per incitare a reprimere con più forza i manifestanti e per attaccare gli Stati Uniti. Il punto di svolta pare essere stata la riunione dell’Ufficio della Guida suprema del 13 dicembre, in cui i generali pasdaran avrebbero chiesto e ottenuto da Khamenei l’arresto di Moussavi, Karroubi e Khatami, tanto è che nei giorni successivi Khamenei ha annunciato: “L’opposizione sarà estirpata”. E’ quindi possibile che in queste ore, misurate le nulle (sul piano pratico) pressioni internazionali e le declinanti resistenze interne, il regime stia attuando un’escalation preparata da settimane, che prevede l’arresto di Moussavi e dei leader riformatori al culmine di giornate di sangue che proverebbero la loro attività “controrivoluzionaria”.

[b]Il FOGLIO – " La piazza utilizza liturgie e banconote contro la repressione dei mullah"[/b]

Roma. Quindici morti ammazzati dalla polizia nelle proteste, dice il regime di Teheran, che poi fa irruzione negli uffici dei leader dell’opposizione, da Mir Hossein Moussavi a Mohammed Khatami, arresta personaggi eccellenti, compreso l’ex ministro degli Esteri Ebrahim Yazdi, tiene in ostaggio il cadavere del nipote di Moussavi, ucciso domenica, così non si può celebrarne il funerale, usa manganelli e lacrimogeni per disperdere i manifestanti. Ma la disobbedienza non si ferma. L’onda verde ha imparato a utilizzare le infrastrutture della Repubblica islamica per organizzare la rivolta, trasforma le cerimonie sacre in momenti per scambiarsi informazioni e darsi appuntamenti. Il contagio nelle zone rurali dimostra che la piazza non è un affare limitato ai sofisticati universitari che masticano l’inglese. Le banconote segnate con la “v” di vittoria sono sparse per tutto il paese ed esistono prodotti “anti regime” così come boicottaggi dei prodotti “pro regime”. La rivolta ha una strategia – stravolgere e portare a proprio vantaggio le liturgie del regime – ma ancora le manca un’agenda comune. La rivolta ha dei leader, ma nessun Mandela come era stato ingenuamente preconizzato da alcuni a giugno. Ma se il partito di mezzo che teme il potere del sangue si allarga, la rivolta sarà ancor meno solitaria. Roma. “Bebakhshid, bebakhshid”, grida il bassiji caduto a terra consapevole di rischiare il linciaggio. Scusa, scusatemi, grida il giovane picchiatore, “io non voglio uccidere i miei fratelli” implora mentre i manifestanti lanciano pietre, i compagni del bassiji-ostaggio si ritirano, la folla conquista la piazza, e il fumo dei lacrimogeni è inghiottito da quello delle moto in fiamme dei giustizieri di Ali Khamenei. La mattina dopo la domenica di Ashura, lo speaker della tv di stato ha illustrato la devastazione dei controrivoluzionari, ha ammesso l’uccisione di quindici manifestanti e la macchina della repressione è tornata a funzionare a pieno regime con nuovi lanci di lacrimogeni e nuovi prigionieri eccellenti, ultimo in ordine di tempo Ebrahim Yazdi, collaboratore di Khomeini, già ministro degli Esteri, da tempo critico nei confronti di Khamenei e della sua nomenklatura. La polizia ha fatto irruzione nell’ufficio dell’ex presidente riformista, Mohammed Khatami e ha arrestato almeno sette figure di spicco del fronte “riformista”. La famiglia di Ali Moussavi, il nipote di Mir Hossein Moussavi ucciso domenica, ha denunciato la “sparizione” del suo corpo. “Nessuno si prende la responsabilità per questa sottrazione – ha spiegato il fratello della vittima a Parlemannews – ovviamente non può esserci funerale prima del ritrovamento del corpo”. Le immagini delle piazza in tumulto correranno anche su Facebook e su YouTube, ma i riti che alimentano la protesta sono antichi e, non potendo vietarli, il regime fa quello che può per sabotarli. Dopo aver esaltato per trent’anni, gli shahih, i martiri – martiri santi come l’imam Hossein, martiri della rivoluzione, martiri della guerra Iran-Iraq – la Repubblica islamica si trova a lottare contro la stessa liturgia che ha conculcato. Ogni funerale crea un mito: oggi Ali Moussavi, ieri Neda Agha Soltan o Sohrab Arabi. Ma oltre che nei social network la rivolta vive nei luoghi e nelle occasioni più care allo sciismo. Khamenei ha moltiplicato gli uffici di propaganda incaricati di sorvegliare lo svolgimento delle sacre cerimonie, ma è impossibile che il controllo possa essere capillare in tutti gli angoli delle paese. Così accade che i rituali di Moharram e Sahar si tingano di venature politiche con maddah, predicatori improvvisati che lanciano accuse più o meno velate al sistema, e accade anche che, privi di altre occasioni di incontro, ragazzi e ragazze sfruttino le festività per flirtare – una deriva denunciata più volte dalle autorità – ma anche per scambiare opinioni politiche e “complottare” la rivolta. Per le strade iraniane non ci sono soltanto universitari sofisticati, ma anche una gran quantità di ragazzi tradizionali, religiosi, di un’estrazione solitamente amica e non nemica del sistema. Se a riempire le piazze vi fossero soltanto borghesi non si spiegherebbero le manifestazioni in zone rurali e città molto religiose, e se i manifestanti fossero soltanto i supporter di Moussavi non si spiegherebbe la virulenza degli slogan sempre criticata dal leader dell’onda verde. Si sottovaluta spesso che le proteste post elettorali si saldano su una storia di disobbedienza civile che turba da anni i sonni di Khamenei. Una disobbedienza cresciuta attraverso momenti eclatanti – le manifestazioni degli universitari del ’99 quando la maglietta insanguinata di Ahmad Batebi sull’Economist divenne il primo simbolo della malattia del regime, quelle più borghesi dell’estate del 2003 con le strade di Teheran bloccate per giorni da macchine piene di donne e bambini, la rivolta del sindacato fuorilegge dei conducenti d’autobus del dicembre 2005 o quella dei mistici sufi nello stesso anno. La protesta monta da anni con i graffiti sui muri o sulle banconote: negli ultimi mesi centinaia di migliaia di rial sono stati marchiati con una v verde di vittoria, si alimenta nelle botteghe di quartiere e nei mall alla moda dove alla cassa ci si segnala gli uni agli altri se un prodotto è pro o anti regime, molti beni pubblicizzati sulla tv di stato sono boicottati, così come i telefoni cellulari delle società che passano tecnologia “cattura manifestanti” alla task force contro “i terroristi”. Il difetto di leadership della protesta iraniana non può essere ignorato. Mir Hossein Moussavi e Mehdi Karroubi viaggiano a velocità diversa rispetto ai verdi che li invocano e la loro agenda non ha molto a che spartire con quella dei leader studenteschi; non perfettamente coincidenti sono anche le istanze di Mansour Osanlou, carismatico leader sindacale da anni ostaggio dei centri di detenzione del regime. La piazza ha dei leader, ma nessun Gandhi e nessun Mandela come era stato ingenuamente preconizzato da alcuni sull’onda dell’emozione di giugno. La rivolta ha una strategia – stravolgere e portare a proprio vantaggio le liturgie del regime – ma le manca un’agenda comune. Per questi e altri peccati originali c’è chi vaticina Tian An Men e chi la chiama “Intifada iraniana”. Ma se di questi tempi può capitare che un bassiji implori perdono, se le fratture del regime continuano ad approfondirsi e il partito di mezzo che teme il potere del sangue si allarga a capitani pasdaran, burocrati, businessmen e grand commis del regime, allora la corsa tutt’altro che solitaria della piazza non si ferma.

[b]Il FOGLIO – " Teheran ironizza sulla mano tesa e Obama prepara il piano B "[/b]

Roma. La strategia della “mano tesa” di Barack Obama con l’Iran è fallita, Mahmoud Ahmadinejad si prende addirittura il lusso di farsene beffa: “Che mano ha teso verso di noi, la destra o la sinistra?”. Ora gli Stati Uniti devono decidere come cambiare direzione. Il Pentagono e il dipartimento di stato, Bob Gates e Hillary Clinton, dichiarano che il tempo sta finendo, la fine dell’anno concesso ai negoziati sul nucleare è vicina, ora bisogna introdurre nuove sanzioni. La vicepresidenza di Joe Biden, come già è accaduto con la questione afghana, è più cauta, ma il clima a Washington è cambiato: la Camera ha già approvato sanzioni più restrittive per le aziende straniere che fanno affari con l’Iran e il Senato sta studiando altre misure economiche. Soprattutto Obama, che soltanto sei mesi fa liquidava come “questioni interne” le proteste finite nel sangue a Teheran, ora ripete – e fa ripetere ai suoi – che gli Stati Uniti stanno dalla parte della piazza. Pragmatico, il presidente prende atto del fallimento di una strategia e ne elabora un’altra (è passato un altro anno di balletto diplomatico, con decine di morti per le strade iraniane, ma tant’è): oggi Obama non è più per lo status quo del regime a tutti i costi. Intanto si moltiplicano simulazioni su scenari di guerra, l’ultima è quella organizzata dall’analista Ken Pollack, esperto di Iran e Golfo persico, ma le prime indiscrezioni non sono molto rassicuranti. “Quale mano ha teso verso di noi il presidente americano, la destra o la sinistra?”, ha ironizzato Mahmoud Ahmadinejad, presidente iraniano, in un’intervista a Channel 4, sancendo di fatto la fine – se mai c’è stato, da parte di Teheran, un inizio – della strategia del dialogo intrapresa da Barack Obama. La Repubblica islamica andrà fino alla fine con i suoi programmi nucleari ed egemonici, li considera un diritto, certo non materia di negoziazione, “continueremo a resistere”, dice Ahmadinejad. A nulla sono servite le offerte generose della comunità internazionale promosse attraverso l’Agenzia atomica dell’Onu né gli appelli a non reprimere nel sangue le proteste che ormai da sei mesi invadono le piazze d’Iran. Ora tocca all’Amministrazione americana decidere come e se cambiare strategia e, non a caso, molti analisti – come Tom Ricks su Foreign Policy – sottolineano che i primi mesi del 2010 saranno decisivi per reimpostare il rapporto con Teheran. Il famoso “engagement” con cui Obama ha aperto la sua stagione presidenziale – unico, cruciale elemento di discontinuità con la politica estera di George W. Bush – è fallito: non ci sono stati passi avanti sul negoziato nucleare e il regime si è chiuso a riccio sulle questioni di potere interno. “Si è scoperto che il problema – scrive Stephen Hayes su Weekly Standard – non è la mancanza di buona volontà da parte dell’America, e neppure la nostra incapacità di capire gli errori o il fatto di non aver sviluppato capacità nazionali di ascolto. Il problema è il regime iraniano”. E’ dunque davvero finita quella che Spengler definisce, su Asia Times, “la pax obamicana”? Certo l’insofferenza nei confronti di Teheran è palpabile al dipartimento di stato e al Pentagono (molto meno nell’ufficio della vicepresidenza, dove Joe Biden, come già è stato chiaro con l’Afghanistan, è il più autorevole difensore del ridimensionamento dell’impegno americano nel mondo, meglio negoziare che combattere, ancora meglio tornare a casa). Hillary Clinton e Bob Gates hanno più volte dichiarato che il tempo per la Repubblica islamica è finito: si era detto che il negoziato era aperto fino alla fine dell’anno (e già i tempi si erano allungati, nell’incontro di primavera tra Obama e il premier israeliano, Bibi Netanyahu, la data ultima era settembre), e ora si andrà al Consiglio di sicurezza per decidere nuove e più restrittive misure economiche. Il clima è decisamente cambiato a Washington: la Camera americana ha approvato – con maggioranza schiacciante – sanzioni all’Iran che penalizzeranno le aziende straniere che aiutano la Repubblica islamica nell’attività in cui è più vulnerabile, la raffinazione del petrolio e il Senato sta per approvare altre misure sanzionatorie. E’ necessario però capire che cosa abbia intenzione di fare Obama. E’ lui che ha messo la sua faccia per incoraggiare il dialogo, è lui che ha liquidato come “questioni interne” le proteste che a giugno hanno segnato con la violenza – in modo irreversibile – le guerre di potere in Iran, è sempre lui che ha optato per la tenuta dello status quo per continuare le trattative sul nucleare. Da buon pragmatico, una volta sperimentato il fallimento di una strategia, Obama ne prende atto e stabilisce un piano B. Che l’atteggiamento del presidente sia cambiato è risuonato chiaro nella sala di Oslo durante il discorso di ringraziamento per il Premio Nobel: “E’ responsabilità di tutte le persone libere e di tutte le nazioni libere chiarire che questi movimenti, questi movimenti di speranza e storici, questi movimenti ci troveranno dalla loro parte”. Un cambiamento significativo e improvviso, decretò Laura Rozen, analista di The Politico, visto che la frase non compariva nella stesura del discorso consegnata alla stampa. La dichiarazione del National Security Council l’altroieri rievocava proprio quelle parole: “Condanniamo fortemente la repressione violenta e ingiusta dei civili in Iran che vogliono esercitare i loro diritti universali. La speranza e la storia sono dalla parte di chi cerca pacificamente i loro diritti universali, e così sono gli Stati Uniti”. Obama ora difende la piazza e mentre il Pentagono si dota di armamenti per colpire i bunker (dove sono le centrali nucleari iraniane) si moltiplicano le simulazioni su scenari di guerra. L’ultima – dopo quella di Harvard e quella dell’Institute for National Security Studies dell’Università di Tel Aviv – è stata organizzata da Ken Pollack, analista della Brookings Institution: simula la reazione di America, Iran e Israele a un raid militare di Gerusalemme in Iran. I risultati saranno resi noti a gennaio, ma le indiscrezioni non sono rassicuranti. Un partecipante anonimo ha detto: “Un attacco militare andrebbe a danno di tutti tranne che del regime iraniano”.

[b]LIBERO – Carlo Panella : "Ieri assieme a Khomeini. Oggi contro Ahmadinejad"

Khomeini[/b]

Nel 1978, vissi da testimone nelle strade di Teheran un’altra Ashura, vidi centinaia di migliaia di manifestanti – più, molti di più di quelli di oggi – massacrati dalle forze di sicurezza dello scià Reza Pahlevi, più feroci, molto più feroci dei pur bestiali pasdaran di oggi. Su larghi viali di Teheran incombeva la cappa di cielo grigio che vedete nelle foto di questi giorni, un misto di nubi e di cherosene mal bruciato dalle stufette giapponesi che riscaldano le abitazioni oggi di 10-12 milioni di abitanti. Stessi alberi spogli, stesse barricate, stessi volti dei giovani, determinati, carichi di vita, pronti a morire pur di testimoniare voglia di libertà. Allora – erano i primi di dicembre, perché il calendario iraniano è lunare e l’Ashura cade in date mobili – al termine di giornate come queste i morti non erano 15, o poche decine, erano centinaia. Molti, li avevo visti morire, anche bambini, con la testa che esplodeva come fosse una palla di vetro di Natale, per il colpo devastante di un Winchester. Ma la differenza tra queste due Ashura, non è nei numeri, non solo.

La differenza, purtroppo, è nel consenso che hanno i pasdaran e i bassij che sparano contro le tante piccole Neda scese nelle strade di Teheran. Allora, le forze di sicurezza dello scià, rappresentavano solo la voglia di potere – e la stupida rigidità, incapace di riforme – di una corte corrotta e straricca, arroccata sulle alture della capitale, priva di senso politico, piena di arroganza. Dall’altra parte, c’era invece il popolo. Esattamente tutto il popolo. Non mancava nessuno, perché quel regime era morto, anche se non lo sapeva, non era in grado di decidere, di fare politica, sapeva solo comandare. E sparare. Oggi, invece, le strade di Teheran e delle altre città iraniane non hanno visto tutto il popolo scendere in piazza contro il regime, perché una sua parte consistente, grande, è scesa in piazza a fianco del regime.

Questo è il dramma iraniano di oggi. Ahmadinejad non ha certo ricevuto i 24 milioni di voti che vanta, imbrogliando, ma 18-20 milioni li ha avuti di sicuro e i pasdaran, vestiti tutti di nero, casco nero, moto nere, quasi fossero una squadra di un Rollerball feroce che mena ragazzini, non sono scherani prezzolati del regime. Ci credono, hanno una ideologia forte, forte come quella dei manifestanti che reprimono, una fede. Fede nella rivoluzione che io vidi nel 1978, che i giovani dell’Onda Verde, giustamente, ritengono tradita, e che loro, invece, ritengono vitale e giusta. Con un paradosso, non secondario. Durante l’Ashura del 1978 io intervistai molti dirigenti del movimento (Khomeini era ancora esule a Parigi) e tutti, a partire dal grande ayatollah di Teheran, Taleghani, mi spiegavano che in assenza del dodicesimo Imam (che è il Messia per gli sciiti, che nell’Ashura celebrano proprio il martirio del terzo Imam messianico), era nel popolo la sede della sovranità, della interpretazione del Corano, della Parola di Dio, la sua attualizzazione. Ma Khomeini, quando poi trionfò, con l’aiuto proprio di Mussavi, Rafsanjani e dell’ayatollah Montazeri – gli oppositori di oggi – eliminò tutti quelli che avevano questa idea di “democrazia islamica” (molti, amici miei cari, li trucidò) e stabilì che la sovranità è di Allah e che la Guida della Rivoluzione la esercita in nome suo, il popolo deve solo obbedire.

Oggi, la Guida è Khamenei, e milioni di iraniani, e i pasdaran e i bassij sono convinti che effettivamente rappresenti la volontà di Allah, come già fece Khomeini per cui vinsero la rivoluzione, e credono che chi si oppone, inclusa la piccola Neda, è un agente del Demonio da uccidere.

Io, nel 1978, ho avuto il privilegio di vedere tutto un popolo offrirsi a mani nude contro la ferocia di un regime, sino a quando i suoi sgherri non hanno avuto schifo di sé stessi, non ce l’hanno più fatta a mitragliare inermi per le strade (sì: mitragliare, con il treppiede piantato sul cassone del camion e la canna ad alzo zero sulle teste della folla) e il regime si è sfasciato su sé stesso, perché i suoi soldati hanno cessato di obbedirgli. Noi tutti, oggi, abbiamo invece il triste privilegio di vedere sotto i nostri occhi una sorta di ripetizione del 1933 a Berlino, o di 1931 a Mosca: un regime dittatoriale e feroce, che però riesce a conquistare il consenso di una parte consistente del suo popolo, nel momento stesso in cui ne perseguita un’altra. Questo è il mistero che ci consegna questa tristissima Ashura del 2009. Che non sarà l’ultimo mese di passione e di sangue in Iran.

[b]La STAMPA – Maurizio Molinari : " E' tutto in mano ai pasdaran, sarà scontro "

Mehrzad Boroujerdi[/b]

«A guidare la Repubblica Islamica oramai sono i comandanti dei Pasdaran che non si fidano più dell’esercito». A descrivere la lotta di potere in atto dentro il regime degli ayatollah è Mehrzad Boroujerdi, iranista dell’Università di Syracuse, dove dirige il Centro di studi sul Medio Oriente.
Chi dà gli ordini alla polizia che spara sui manifestanti?
«Il potere è saldamente nelle mani della Guida Suprema, Ali Khamenei, che lo esercita attraverso i comandanti delle Guardie Rivoluzionarie, i Pasdaran, sono questi generali, e gli ufficiali che rispondono loro direttamente, a guidare le forze di polizia che fronteggiano i manifestanti, e sparano loro addosso».
Qual è il ruolo del presidente Mahmoud Ahmadinejad?
«Molto ridotto. E’ solo il capo del potere esecutivo e la Costituzione della Repubblica Islamica gli assegna poteri assai limitati. È soprattutto un leader fedele a Ali Khamenei».
L’esercito regolare che posizione ha nella crisi in atto?
«Le Guardie Rivoluzionarie non si fidano dell’esercito che essendo di leva è composto da tutti gli uomini che hanno compiuto 18 anni di età e dunque non è considerato ideologicamente affidabile. L’esercito riflette la società iraniana, al suo interno c’è di tutto e dunque anche molti favorevoli al movimento di protesta».
Quanto è solido il legame fra Khamenei e i Pasdaran?
«Ricorda da vicino quello che univa il raiss iracheno Saddam Hussein e la Guardia Repubblicana. Anche lo Shah aveva simili truppe scelte, fedelissime e ideologicamente compatte. Così come la monarchia saudita dispone di reparti dello stesso tipo. Nei regimi mediorientali corpi come i Pasdaran assicurano la stabilità di chi è al potere. Anche se bisogna dire che negli ultimi tempi si sono viste delle fratture crescenti tra le Guardie Rivoluzionarie».
A che cosa si riferisce?
«Al fatto che alcuni ex comandanti dei Pasdaran, come ad esempio l’attuale presidente del Parlamento, si sono espressi a favore delle proteste lasciando intendere che le Guardie Rivoluzionarie non sono più un monolite. E’ una situazione che ricorda da vicino l’ultimo periodo del regime dello Scià, quando nel ristretto gruppo di accoliti che gli era attorno si aprirono delle falle sempre più vistose. Sembra di essere all’inizio della fine della Repubblica Islamica».
C’è il rischio di un’escalation di violenza?
«Molto dipende dalle scelte che faranno i comandanti dei Pasdaran, che tendono a vedere tutto in termini di scenari militari e di pianificazione strategica. Se dovessero immaginare di poter reprimere il movimento di piazza ricorrendo a una massiccia operazione di forza sarebbe un grave errore perché in Iran ogni uomo maggiorenne ha fatto il servizio militare, è stato addestrato a combattere e sa usare le armi da fuoco. Senza parlare dei milioni di reduci della guerra con l’Iraq. Lo scontro frontale potrebbe degenerare in una bagno di sangue. Basta guardare le immagini che arrivano da Teheran per accorgersi che la folla dei manifestanti ha aggredito i poliziotti in maniera efficace, non casuale. È per questo che, confesso, da qualche giorno, seguo quanto sta avvenendo con il fiato sospeso».

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.