[b][size=12]Vivere sotto i colpi di cecchini e Qassam
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Di Stefano Magni[/b]

Aggressori e aggrediti sono posti esattamente sullo stesso piano morale, secondo il “Rapporto Goldstone”, discusso all’Onu, sui crimini della guerra a Gaza. Le azioni dell’esercito israeliano e della milizia di Hamas, nel corso del conflitto del dicembre/gennaio scorsi, sono state soppesate, giudicate ed esposte. Entrambe le parti sono state accusate di crimini di guerra e contro l’umanità. Hamas per i suoi razzi, i Qassam, lanciati contro i civili israeliani. L’esercito di Israele per le sue “azioni indiscriminate”, compiute nel corso di una risposta militare giudicata “sproporzionata”.

Quel che sfugge completamente, a chiunque si occupi di questo conflitto, standone a debita distanza, è la sequenza delle azioni: sfuggono gli otto anni in cui le popolazioni israeliane che vivono a ridosso della Striscia di Gaza, sono state ininterrottamente martellate da razzi, colpi di mortaio e cecchini palestinesi, durante il regno di Fatah (il partito di Yassir Arafat) e poi sotto quello integralista di Hamas. In quegli otto anni, dal 2000 al 2008, la storia si è evoluta, la Palestina si è divisa in due, il governo israeliano è cambiato per tre volte. Ma la pioggia di razzi e di ordigni quella no: non è mai cambiata, né diminuita. Le statistiche parlano di 12mila razzi e una manciata di morti. I numeri parlano anche di sole tre settimane di bombardamenti israeliani che hanno provocato un numero esorbitante di vittime palestinesi: 1400 secondo le stesse fonti militari di Gerusalemme. Ma anche qui le statistiche non colgono l’essenza di sei anni di continuo terrorismo. Non riescono a spiegare la vita sospesa di chi è appena scampato a un attacco e non sa quando sarà il prossimo, dei passanti che, ad ogni angolo della strada, devono calcolare quanto è vicino il prossimo rifugio, l’angoscia del sopravvissuto che, dopo il cessato allarme, non sa se ha ancora una casa, o se tutti i suoi parenti e amici sono ancora vivi.
Ilan R., un floricoltore di Netiv ha Asara è un sopravvissuto, ma suo fratello ha perso la fidanzata in un bombardamento di quattro anni fa. Il caso e un muro hanno salvato suo fratello da morte sicura: la metà della casa esposta all’esplosione è stata completamente distrutta. Ci mostra con lucidità il luogo del delitto: un buco di entrata (quello di un proiettile di mortaio), la casa ancora in piedi, l’interno ancora devastato e trasformato in una tomba per la ragazza che ci viveva fino a pochi secondi prima. Netiv ha Asara è stata particolarmente martellata nel corso di questi anni, ci spiega Ilan. Non solo era centrata dai razzi Qassam, ma anche da mortai. Il tempo di preavviso era di appena 10-15 secondi. Anche i cecchini sparavano sulle case, finché non è stato eretto il muro, la famosa barriera difensiva (per i pacifisti è sempre il “muro dell’apartheid”) che, nella sua facciata interna, quella che dà sulle case israeliane, è stata abbellita con i colori del cielo e del deserto. “Fino all’Operazione Piombo Fuso”, ci spiega Ilan, “in questa cittadina non c’era vita. Nessuno si fidava più ad uscire di casa, le strade erano deserte”. Dopo l’attacco israeliano su Gaza, la “normalità” è stata ripristinata, per quanto è possibile: gli abitanti al lavoro, le strade e i giardini ben curati, i campi da calcio di nuovo frequentati, nelle serre si continua a lavorare, come sempre. Si lavorava sodo anche nei giorni in cui arrivavano razzi e colpi di mortaio tutti i giorni. Nelle serre di Ilan ne sono arrivati quattro, facendo danni e mettendo in pericolo la vita degli operai, tutti immigrati tailandesi, che hanno sostituito una manodopera palestinese scomparsa subito dopo l’inizio della II Intifadah.

[b]L’Opinione 4 novembre 2009[/b]

 

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