La storia del Bund, il partito che organizzava i lavoratori e la vita quotidiana delle
comunità ebraiche polacche e che finì con le deportazioni nei campi di sterminio e con la disperata insurrezione del ghetto di Varsavia; Marek Edelman, bundista, medico, dirigente di Solidarnosc…

Wlodek Goldkorn, giornalista, di Marek Edelman ha curato, con Rudi Assuntino,
Il guardiano, e recentemente, con Adriano Sofri e Ludmila Ryba, [i]L’amore nel
Ghetto[/i], per Sellerio.

[b]Ci puoi raccontare un po’ che cos’era il Bund?[/b]
Il Bund era nato nel 1897 a Vilnius, allora nell’impero zarista, una città abitata da
polacchi, ebrei, russi, lituani. Esistevano in realtà due Bund, uno nell’impero
zarista e un altro nella Polonia tra le due guerre mondiali, dal 1918 al ’39. Quello
dell’impero zarista è stato il primo partito socialista della Russia imperiale. Era
nato per il semplice motivo che dei lavoratori ebrei, in quel periodo, stiamo
parlando degli anni ’90 dell’Ottocento, avevano cominciato a organizzarsi, più o
meno come tutti gli altri lavoratori in Europa. Forse si può dire che erano più
propensi degli altri abitanti dell’Impero a organizzarsi, perché i lavoratori ebrei
vivevano nelle città, erano in genere più istruiti, in quanto -i maschi almenosapevano
leggere e scrivere, altrimenti, essendo la preghiera in ebraico lettura, non
si sarebbe potuto pregare. In più, rispetto ad altri lavoratori, avevano il problema di
vivere in un paese in cui l’antisemitismo faceva parte della dottrina ufficiale dello
Stato. Gli ebrei in quanto infedeli erano considerati in qualche modo nemici della
patria e dello zar. E così nacque il partito.Che cosa si può dire di più?
Un problema che loro si pongono subito,
immediatamente, è quello dei pogrom. Nel 1902 c’è un’ondata di pogrom e
l’autodifesa diventa una necessità. E non è un problema di autodifesa dei quadri
del partito, ma di un’intera popolazione esposta ad atti di violenza. Quindi non è
terrorismo, anche se c’è un elemento terroristico forte in questa vicenda. Così si
formano squadre di combattimento armate che combattono contro chi fa i pogrom.
L’uso della violenza è fondamentale per la storia del Bund ed è fondamentale
anche per la figura di Marek Edelman, contrariamente a tutte le cose che possono
essere dette sul pacifismo, sui buoni sentimenti, e così via.
[b]In che senso c’entrava anche il terrorismo?[/b]
Ci sono anche atti di terrorismo che sono molto importanti per la conquista della
dignità. Nel 1902, la manifestazione del 1° maggio a Vilnius viene dispersa dalla
polizia e alcuni arrestati vengono flagellati sulla pubblica piazza. Allora, per
vendetta, un giovanissimo apprendista calzolaio, di nome Hirsh Lekert, tenta di
ammazzare il governatore di Vilnius von Wahl. Lo ferisce solo leggermente, viene
catturato, condannato a morte e impiccato. Ora, tra la gente del Bund questa storia
aveva fatto una grande impressione e Hirsh Lekert era diventato un eroe popolare,
intorno al quale era nata una leggenda, si componevano canzoni, ballate. Allora i
capi e gli ideologi del Bund, pur essendo marxisti e quindi contrari agli atti di
terrorismo individuale, si allinearono al sentimento popolare e cominciarono a
rivendicare quell’atto.
[b]Tu dici che pur professando un’ideologia erano molto pragmatici. E’ giusto dire
così?[/b]
Sì, ho fatto l’esempio dell’atteggiamento verso il terrorismo, ma ce ne sono tanti
altri. Il loro rapporto tra la teoria e la prassi (per usare parole in uso 30 anni fa) era il
contrario esatto del bolscevismo o di un’ideologia. Per esempio riguardo al
problema della lingua. Il Bund, a un certo punto, ai primi del Novencento, dichiara
che lo yiddish è la lingua nazionale degli ebrei, si batte per l’autonomia degli ebrei
all’interno dell’impero zarista, un’autonomia legata non al territorio bensì alla
cultura: un’autonomia nazional-culturale. Un intellettuale populista, Chaim
Zhitlovski, che non era proprio un bundista, scrisse: “Noi non siamo il 4% di
qualcosa, cioè dell’impero zarista, ma siamo il 100% di noi stessi…”.
D’altro canto il Bund era un partito che si diceva internazionalista e a rigor di
logica, se tu sei internazionalista, non c’è nessun bisogno di rivendicare la tua
autonomia nazionale, culturale, eccetera, eccetera. Tanto più che in quel momento
i socialisti e più tardi i comunisti rivendicavano l’assimilazione degli ebrei, i
liberali pure, pensavano: “In fondo prima o poi gli ebrei diventeranno come tutti
gli altri, diventeranno polacchi, russi…”.
Ma i bundisti rivendicavano l’autonomia nazional-culturale perché semplicemente
il loro pubblico questo voleva, e perché loro vivevano tra questa gente. La scelta
dello yiddish è tutta qui: la gente con cui lavoravano parlava yiddish, quindi ne
scoprirono e valorizzarono anche tutta la storia.
In questo senso, tutta l’attività del Bund, nella Polonia del dopoguerra, è strana,
perché da una parte si definivano socialisti, dall’altra erano privi di ogni ideologia.
Erano convinti di avere un’ideologia, ne discutevano anche tanto, ma in realtà ciò
che il partito invece aveva sviluppato era un fortissimo ethos, cioè un modo di vita,
di porsi al mondo, di agire. L’azione precedeva quasi sempre la riflessione, cosa
che ovviamente non avrebbero mai ammesso.
Probabilmente neanche Marek Edelman avrebbe ammesso questa cosa e se fosse
qui a sentirmi mi darebbe dello scemo. Ma io sono convinto che agissero prima di
pensare, e solo dopo cominciassero a teorizzare le cose che facevano. E penso che
fossero così perché semplicemente erano, in ogni senso della parola, l’espressione
di un mondo, del mondo dei lavoratori ebrei tra la Vistola e il Don, che parlava lo
yiddish.
[b]Si definivano socialisti però?[/b]
Anche qui: nel ’37 c’è un testo di Henryk Erlich, uno dei due leader del Bund
polacco tra le due guerre (l’altro era Wiktor Alter, furono ambedue ammazzati da
Stalin fra il ’42 e il ’43); è un intervento scritto per il 40° anniversario del Bund.
Erlich lì prevede già tutto, prevede la fine, e ringrazia tutti quelli che sono stati
bundisti, che si sono “raccolti intorno alla bandiera del Bund e l’hanno difesa
come uno scudo con i loro corpi”. Ne racconta anche l’inizio, dice che quando i
padri fondatori decisero di fondare il partito, c’erano due opzioni: c’era chi voleva
chiamarlo “Federazione dei gruppi socialisti ebrei in Russia”, e chi “Yiddisher
Allgemeiner Bund”, cioè Unione generale dei lavoratori. Prevalse la seconda
opzione, l’Unione generale dei lavoratori. Ecco, pur essendo socialisti, i bundisti
non hanno messo mai l’aggettivo “socialista” nel nome.
A questo proposito nella preparazione del funerale di Marek Edelman è venuta
fuori una cosa buffa. Avevamo pensato di dover mettere la bandiera del Bund sulla
bara. In Polonia evidentemente non ne esistono (distrutte ai tempi
dell’occupazione nazista), non se ne trovano da nessuna parte. La bandiera è rossa,
con la scritta Bund in yiddish in oro, qui, come in tutto il mondo. Sapevamo che in
Francia ce n’era una, perché c’è una biblioteca intitolata a Vladimir Medem, che
era stato uno dei teorici del Bund, morto nei primi anni ’20, una leggenda. Sono
stati loro a prestarcela. Quando è arrivata abbiamo visto che in yiddish c’era scritto
correttamente “Bund”, e in francese Partie Socialiste…
Quindi l’adesione al marxismo è una cosa relativa…
No, non era relativa, erano marxisti ed erano convinti di esserlo, allora tutti si
definivano marxisti. E’ che l’adesione vera non era determinata dalla convinzione
ideologica quanto piuttosto da un modo di essere. Diciamo che la cosa
fondamentale, per esempio in Marek Edelman, era la questione della dignità.
All’epoca non esisteva la nozione di diritti umani, esisteva però la nozione della
dignità, e tutto ruotava intorno a questa questione: restituire la dignità alle persone
e alla classe operaia.
Dopodiché era anche un modo per organizzare una società che non aveva una base
territoriale e che non poteva costituire uno Stato (né era previsto che lo facesse).
Così, se nella Russia zarista non possono fare molto, nella Polonia indipendente,
dopo il ’18, fanno sindacati, scuole, sanatori per bambini, organizzazioni
femminili, club sportivi, biblioteche. Praticamente un’organizzazione che
abbraccia l’intera società. Da bambino entravi nella Skif, poi da adolescente, fino a
19-20 anni, entravi in Tsukunft (l’Avvenire), l’organizzazione giovanile.
Dopodiché da adulto diventavi membro del Bund, e se eri un lavoratore, anche
membro del sindacato. Se eri forte e coraggioso, poi, entravi nella milizia del Bund,
che combatteva sul serio, cioè faceva battaglie di strada con i fascisti polacchi. Se
eri una donna impegnata nel sociale entravi nell’organizzazione femminile; se eri
infermiere o medico pediatra entravi in un’organizzazione che si occupava
dell’educazione delle madri; se eri un bambino malato ti mandavano in un loro
sanatorio; se eri sportivo entravi a far parte del club sportivo…
Il welfare se lo facevano da soli; si ispiravano all’austro-marxismo, che per primo
teorizzò un’organizzazione in parallelo e l’autonomia culturale. Ci sono interi
quartieri operai costruiti con questo intento a Vienna.
Per capire, stiamo parlando di alcuni milioni di ebrei tra la Polonia e la
Russia…
Non esageriamo, stiamo parlando di tre milioni di ebrei, così suddivisi: una parte,
la maggiore, sono ortodossi, e quindi non c’entrano niente col Bund; un’altra parte,
anche se pochi, sono sionisti. Il Bund nel ’18 non è un grande partito, quando
nasce la Polonia indipendente.
Diventa il primo partito nelle grandi città, Varsavia, Lodz, e nelle città medie, a
metà degli anni ’30, quando ottiene l’assoluta maggioranza dei voti tra la
popolazione ebraica. Ma questo grazie non già a un fattore ideologico, ma a questo
tipo di lavoro che ho appena descritto.
Tuttavia non è facile fare dei calcoli perché quando c’erano elezioni libere per il
Parlamento polacco, a loro non interessava entrarci, lo consideravano comunque
“istituzione borghese”. Erano invece molto interessati a far parte dei consigli
comunali, dove secondo loro si dovevano determinare le cose, e non solo quelle
locali. Per esempio, Alter ed Erlich furono consiglieri comunali di Varsavia per
tutto il tempo tra le due guerre mondiali. Ed erano i due massimi leader del partito.
T’immagini Berlinguer consigliere comunale?
[b]Ma era un partito disciplinato?[/b]Sì, se la discussione era assolutamente libera, c’era invece una disciplina di partito
ferrea. C’è questa battuta di Alter che dice: “A un buon cattolico si insegna che il
papa è infallibile, a un comunista si insegna che Stalin ha sempre ragione, da noi
invece a un bambino che entra nella Skif gli si dice subito che deve criticare tutti i
membri del Comitato centrale…”. Infatti stavano sempre a litigare. Le discussioni
vertevano su tutto, però quando si decideva bisognava attenersi alla decisione. Per
esempio, Erlich, che era il numero uno del partito, era assolutamente contrario a
partecipare alle elezioni per le comunità ebraiche, perché erano antireligiosi, laici,
ma alla fine entrò a farne parte perché la maggioranza del Comitato Centrale decise
che si doveva entrare.
[b]Hai detto che Elich e Alter furono uccisi da Stalin…[/b]
Nel ’39, quando la Germania invade la Polonia, loro scappano all’Est. E’ il 1°
settembre del ’39. Il 17 settembre si trovano sotto il potere dell’Armata Rossa, che
invade anch’essa la Polonia, e vengono arrestati. Quando Hitler invade l’Unione
Sovietica, nel 1941, Stalin fa pace con il governo polacco a Londra, e a questo
punto rilascia i prigionieri politici polacchi. In Urss comincia a formarsi l’esercito
comandato dal generale Anders (quello che liberò dal fascismo gran parte
dell’Italia), per cui anche loro vengono rilasciati. I sovietici, a quel punto,
chiedono loro di costituire il Comitato ebraico antifascista e pensano di mandarli
all’estero. L’idea di Stalin è di convincere l’opinione pubblica occidentale che
l’Unione Sovietica è un paese degno di essere alleato delle democrazie, perché
combatte il fascismo. Ma loro all’estero sarebbero stati capaci di raccontare la
verità. Avrebbero potuto dire: “Bisogna appoggiare l’Unione Sovietica anche se fa
schifo, ci sono prigionieri politici, le condizioni sono terribili, è una tirannide da
abbattere domani, però fino a domani noi dobbiamo stare con Stalin, dobbiamo
appoggiarla”…
Credo che sia per questo, perché non sono controllabili, che Stalin ci ripensa, li fa
arrestare di nuovo e scompaiono.
Si è saputo solo pochi anni fa che erano stati condannati a morte di nuovo, che
Alter era stato fucilato e Erlich si era suicidato.
I rapporti coi socialisti polacchi? Questa organizzazione sociale era
rigidamente ebraica, dai bambini in su…
Tranne i bambini. Nel sanatorio c’erano anche bambini polacchi, tedeschi… Le
altre cose sì, ma non nel senso di separazione. E’ la contraddizione di cui
parlavamo prima.
I bundisti erano socialisti e internazionalisti, però non era loro mai venuto in mente
di entrare nel Partito Socialista polacco. Avrebbero potuto farlo, spiegando al
Partito Socialista che doveva accettare gli ebrei; avrebbero potuto chiedere di poter
formare sezioni yiddish, poiché il Partito Socialista non era antisemita, ma non gli
passò mai per la testa. Il problema, credo non si sia mai posto. La spiegazione
ufficiale era questa: che il Bund era molto più a sinistra rispetto al Partito Socialista
polacco.
In realtà i bundisti avevano quest’idea di essere una nazione. Del resto si
muovevano dentro un contesto preciso. Pensate a Isaac Bashevis Singer che
lavorava in una rivista yiddish, che non c’entrava niente con il Bund, Literarische
bleter, una delle più belle riviste di cultura dell’Europa tra le due guerre; c’erano
film sonori in yiddish, c’erano i teatri, insomma il contesto era quello di un mondo
che parlava yiddish…
[b]Il rapporto con la rivoluzione russa. Cosa succede?[/b]
E’ molto contraddittorio. All’inizio subiscono il fascino della rivoluzione russa
però sia Alter che Erlich erano in Russia durante la rivoluzione, per cui vedono il
bolscevismo, non si fanno illusioni. Il problema è che il loro pubblico invece
qualche illusione se la fa.
Quando viene costituita la Terza Internazionale, loro non entrano, cioè fanno finta
di voler entrare e però non entrano. Alter va clandestinamente a Mosca per capire,
trattare, vedere. Coi bolscevichi si conoscono da sempre e appena questi lo sentono
parlare, lo mettono in galera.
A quel punto Alter fa uno sciopero della fame, dieci giorni, cominciano le proteste
fuori e lo rilasciano. Insomma, erano anticomunisti, su questo non c’è dubbio, però
c’è uno scritto di Alter, durante i processi di Mosca, in cui si appella ai comunisti, e
dice: “Compagni comunisti, dovete riconquistare la vostra dignità, è una vergogna
quello che sta succedendo…” e aggiunge, significativamente: “Questa è la
vergogna di tutta la sinistra…”.
Quando l’ho letto mi sono molto stupito perché li sapevo sempre anticomunisti.
Evidentemente avevano l’idea che comunque i comunisti facessero parte della
sinistra.
[b]I rapporti col sionismo invece?[/b]
I rapporti col sionismo sono inesistenti, nel senso che il Bund era un partito
antisionista. Fine. Teniamo presente ovviamente che la parola antisionismo allora
aveva un’altra accezione rispetto a oggi…
Quindi il legame con la Polonia era forte.
Non era il legame con la Polonia, era il legame con il luogo. Un giorno chiesi a
Marek: cos’è la patria? Mi rispose: “La patria sono gli amici e l’albero davanti a
casa tua”.
Poi cos’erano allora i sionisti? Era gente che diceva: noi dobbiamo andare in
Palestina. Ok, va bene, dopodiché? Come vai? Di chi è la Palestina? All’epoca,
prima della prima guerra mondiale era dei turchi. Dopo dei britannici. Puoi entrare?
Ti presenti, bussi alla frontiera, e dici: “Buongiorno, vengo…”. Poi trasferisci tre
milioni di ebrei in un giorno? Con quali soldi? E poi gli inglesi li volevano? No.
Gli arabi li volevano? No. Di cosa si sta parlando?
Oggi si sente dire: “Ah, se allora…!”. Pensiamoci un attimo: chi andava? Dove
andava? E perché, per quale motivo? Tu vivi qui, hai il tuo sindacato, il tuo partito
politico, il tuo teatro, i tuoi film… vai via a fare che?
Ma oltre a una questione pratica, c’era, molto importante, una questione
ideologica: i sionisti avevano ovviamente scopi esattamente opposti a quelli degli
antisemiti, però il loro immaginario dell’ebreo era identico.
Affermavano che l’yiddish non era una lingua, era un gergo, una cosa vernacolare
schifosa, di cui vergognarsi. I modi di vita degli ebrei erano da degenerati, gente
che non sapeva fare niente, che non sapeva cos’è la terra, che viveva di
intermediazioni… Dicevano questo, no? E perché volevano che gli ebrei andassero
in Palestina? Perché così avrebbero smesso di parlare yiddish e avrebbero
cominciato a lavorare la terra. E perché mai tu dovevi stare a una storia simile? Non
esisteva, proprio non esisteva.
[b]Veniamo al percorso di Edelman…[/b]
Del padre non si sa niente, lui diceva di non averlo mai conosciuto, di avere un
solo ricordo quando lui era piccolo, e che poi era morto. La famiglia veniva da
Homel, che oggi è Bielorussia. Aveva dodici zii fucilati dai bolscevichi, per cui il
suo rapporto col comunismo era chiaro fin dall’inizio.
Arrivano a Varsavia. La madre è morta che lui era adolescente, per cui a 13 anni è
già orfano. Viene cresciuto dalle compagne della mamma che erano tutte bundiste;
insomma, Edelman è veramente figlio del partito. Infatti, nel 1997, per il centenario
del Bund a New York, lui dice: “Il Bund era questo, era quello, beh, il Bund era la
mamma di noi tutti”. La sua di certo. E siccome era orfano, “la mamma” lo trattava
anche meglio degli altri. I suoi amici erano tutti i figli dei capi del Bund. Poiché a
scuola era abbastanza asino, allora le lezioni private gliele dava il figlio di Erlich
(che poi fece carriera nelle più prestigiose università americane).
Diceva sempre: “Andavo nella casa del figlio di Erlich, sulle pareti c’erano
bellissimi quadri, quadri di Manes Katz”, un pittore ebreo. Lui era stato educato in
quell’ambiente, non ne conosceva altri, e quindi crescendo non poteva che
diventare un quadro del Bund. Nel ’39 ha vent’anni e scappa da Varsavia il I°
settembre, come tutti; qualche settimana dopo però ci ritorna e si mette a fare il
lavoro politico che faceva da sempre.
[b]Durante l’insurrezione…[/b]
Lì la storia è un po’ complicata, perché nel ’39 quasi tutti i dirigenti scappano
verso l’Est. Non scappano per fuggire, c’è una riunione del Comitato centrale che
decide che i dirigenti debbano mettersi al sicuro, andare verso l’Est per ricostruire
il partito. Alcuni di loro non vogliono farlo perché capiscono che cosa sta per
succedere. Credo che Alter capisca… Alter è un personaggio molto strano, è un
ingegnere benestante, molto cosmopolita, che capiva moltissime cose, era anche
economista, e credo intuisse che i sovietici sarebbero entrati in Polonia a fianco dei
nazisti, però d’altronde non poteva neanche stare coi tedeschi perché l’avrebbero
fucilato immediatamente. Fuggirono quasi tutti, i maschi, perché si pensava che le
donne non sarebbero state toccate dai tedeschi, si pensava che avrebbero fatto fuori
solo i dirigenti e gli uomini.
Comunque, Alter ed Erlich vengono arrestati dai sovietici perché vengono
riconosciuti, mentre molti altri (per esempio Emanuel Nowogrodzki, il segretario
generale del Comitato Centrale del Bund, il cui figlio era un amico di Marek, ed è
tornato quest’anno per la prima volta a Varsavia) invece passano per Kaunas, in
Lituania dove c’era un console giapponese che dava i visti per il Giappone; così
molti di loro attraversano tutta l’Unione Sovietica e anziché andare in Giappone
vanno negli Stati Uniti. Alcuni però tornano a Varsavia e si mettono a lavorare alla
resistenza. Il problema è che nella Zob, l’organizzazione di combattimento, in real?
tà eran tutti ragazzini ventenni. Marek che nel ’43 aveva 24 anni, era tra i più
anziani.
Come diventa un dirigente lo descrive in questo libro, C’era l’amore nel ghetto:
viene assunto all’ospedale come portantino, poi pian piano emerge. D’altronde non
c’era altro, i pochi dirigenti rimasti non potevano fare nulla perché troppo
conosciuti…
[b]Si trovarono impreparati?[/b]
Diciamo che prima dell’istituzione del ghetto -Edelman lo racconta anche nel
Guardiano-quando i nazisti organizzano un pogrom, che fanno fare ai polacchi, in
quell’occasione le milizie del Bund riescono ancora a mobilitarsi e a combattere.
Ma nel ghetto non potevano fare la lotta armata; non avevano i mezzi, né le armi,
non avevano niente. D’altronde la resistenza polacca non gli passava praticamente
niente perché non si fidava. In più, nel ’42, quando deportano la stragrande
maggioranza della popolazione ebraica, 200.000 persone, praticamente anche tutta
la milizia del Bund finisce deportata. Edelman la descrive la deportazione, una
delle cose per lui più dolorose: “Noi dirigenti dicevamo che sarebbero finiti nelle
camere a gas, ma loro ci rispondevano che siccome gli davano il pane, la
marmellata, voleva dire che li portavano a lavorare…”. Erano facchini, macellai,
gente così… “Siccome ci danno da mangiare, ci faranno lavorare, e siccome noi
siamo forti, organizzati, sappiamo cosa vogliamo, siamo gente seria, abbiamo
un’esperienza politica, ce la caviamo, non vi preoccupate per noi”.
E così sono finiti nelle camere a gas. A quel punto, nel ’43, nel ghetto erano rimaste
forse solo trentatremila persone, non si sa esattamente, pochissimi giovani, per cui
tutta l’organizzazione erano 220 persone.
Quello che rimane, e che io racconto con molto piacere, è la riflessione sulla
violenza. Edelman, poco prima di morire, ha ricevuto due dottorati universitari,
uno dell’università di Cracovia e uno di quella di Varsavia. In queste occasioni
fanno le laudatio, ecc. Allora, per uno di questi dottorati, un filosofo ha scritto un
testo proprio sulla questione del rapporto tra l’autorità e la violenza, di come si
impone l’autorità. E’ una cosa che mi ha sempre affascinato: la questione della
violenza “pedagogica”. Marek Edelman ricordava sempre gli Schutzbund, la
milizia dei socialisti austriaci, quelli‘che tentarono l’insurrezione negli anni ’30;
per lui erano sempre stati un mito.
Allora, mentre con Rudi Assuntino scrivevamo Il guardiano, io insistevo molto su
questa storia della violenza, perché i militani della Zob a un certo punto si mettono
a eliminare i collaborazionisti nel ghetto, gli agenti della Gestapo, insomma.
Avevo sempre pensato che fosse una specie di esaltazione giacobina, nel senso,
cioè, del purismo, “dobbiamo essere puri, solo i puri possono veramente
combattere”, ma anche una questione di dignità: tu usi la violenza perché così
acquisti la tua dignità. Vorrei essere chiaro, non sto facendo l’elogio della violenza
per la violenza, e Marek era quanto di più lontanto da una simile mostruosità.
Stiamo parlando di una situazione estrema, in cui il nemico ti dichiara non
appartenente alla specie umana, anzi un elemento nocivo, e dice che la tua vita
deve essere distrutta, tu vali meno di un cane o di una lepre. In quella situazione tu
eserciti la violenza per affermare di essere un essere umano, di avere la tua dignità.
Ma Marek mi disse: “No, guarda, ti racconto una storia. Noi rapinavamo le casse
dello Judenrat (il consiglio ebraico nel ghetto)… Facevamo rapine per trovare soldi
per la Zob. Una volta andiamo da un poliziotto che era conosciuto perché
particolarmente figlio di puttana, gli diciamo: ‘ok, devi darci i soldi entro tot’.
Scaduto l’ultimatum, non arrivano i soldi, lo raggiungiamo e gli spariamo in testa,
e da allora non c’era più questione, cioè qualunque cosa noi volevamo, ce la
davano. Tutto il ghetto sapeva chi comandava, e come bisognava vivere e
comportarsi”.
[b]Era un poliziotto ebreo?[/b]
Sì. E poi raccontava, en passant, che solo nel mese di marzo avevano fatto fuori tre
collaborazionisti della Gestapo.
Ecco, quel filosofo polacco aveva colto quello che io non avevo colto nel
Guardiano, che è elementare, fondamentale, quasi banale, cioè il rapporto tra la
violenza e l’autorità. Si usava la violenza per dire: “Qui comandiamo noi”.
Ovviamente anche questo riferito solo a una condizione estrema e di guerra; Marek
diceva: “Sai, in guerra, se non spari, non sei nessuno”.
Altra questione era quella che riguardava i fascisti: era convinto che bisognasse far
loro capire che il giorno in cui non sarebbero più stati protetti, nessuno avrebbe
avuto pietà di loro. Su questo era intransigente. O che ai fascisti non bisognava
permettere di parlare.
[b]Era in linea col film di Tarantino…[/b]
No, non c’entra niente. Quando l’ho visto ho pensato che lui non l’avrebbe proprio
apprezzato. C’è un altro episodio, molto significativo, che lui ricordava. Un suo
amico, un suo ex compagno, gli aveva raccontato che dopo la guerra era stato
guardiano di un campo dove venivano rinchiusi i prigionieri tedeschi, e lui li
torturava, e Edelman diceva: “A quel punto gli ho dato del figlio di puttana, gli ho
detto: tu sei come i nazisti, e ho interrotto con lui ogni rapporto”.
Usi la violenza per riconoscere l’umanità, ma anche l’umanità del tuo avversario.
Sei in una situazione estrema, perché usano la violenza contro di te, e quando la usi
ti metti a pari grado con l’avversario, ma non rovesci la situazione, semplicemente
cerchi di essere pari.
C’è la storia di quello che ha comandato le truppe tedesche nell’insurrezione,
Jürgen Stroop (poi è stato catturato dopo la guerra, è stato impiccato a Varsavia,
Marek è stato testimone al suo processo). Loro si incontrano nella prigione, durante
l’interrogatorio, e Stroop si mette sull’attenti e lo saluta come un comandante che
ha vinto. E io gli ho chiesto: “E tu portavi un sentimento di odio, di vendetta?”. Mi
ha risposto di no, che aveva davanti uno che era stato sconfitto e voleva che la
giustizia facesse la sua parte. Niente vendette, niente risentimenti…
Tutto questo mi sembra importante, per capire, se non altro, che Edelman non era
pacifista.
[b]La sua lettera per Sarajevo…[/b]
Sì, la scrisse a Clinton, chiedendogli di intervenire nella guerra dei Balcani, e
Clinton l’ha citata quando hanno deciso di intervenire.
Edelman partecipa anche all’insurrezione dell’agosto del ’44?
Lì stavano per fucilarlo i polacchi. Lo shock provocato in Polonia dalla
pubblicazione del Guardiano è dovuto al racconto che Edelman fa di come nel ’44
gli insorti polacchi fucilavano gli ebrei. Ci sono varie storie.
C’è la storia di Jurek Grasberg, uno che lavorava per un giornale dell’Armata
dell’interno -quella anticomunista insomma- al comando del governo di Londra,
che venne preso e fucilato, perché dicevano: “Come? Questo è ebreo, è armato,
quindi è una spia”. Allo stesso Marek stava per capitare la medesima cosa. Mentre
andava a recuperare dei soldi in un edificio che stava bruciando -avevano lasciato
lì la cassa- venne preso e di nuovo: “Sei armato, sei ebreo, eccetera eccetera” e
stavano per farlo fuori.
A quel punto, lui riuscì a scappare e a salvarsi bussando alla porta di un ufficiale
che abitava lì e che lo conosceva.
Poi dipendeva dal reparto, c’era un reparto che fucilava gli ebrei, un altro che non
lo faceva. I comunisti non lo facevano. Infatti tutti i sopravvissuti della Zob
nell’insurrezione di Varsavia combatterono insieme con i comunisti. Però non
scendevano mai nelle cantine, restavano sempre fuori. Avevano comunque paura di
stare con gli altri.
[b]Quanto era importante per Edelman essere medico?[/b]
Era la dimensione fondamentale e la più importante della sua vita, dal dopoguerra.
Fino alla metà degli anni ’70, lui è medico cardiologo, non esiste altro. Si è sentito
medico fino all’ultimo respiro. Fino all’ultimo, a Lodz, all’età di 88 anni, si alzava
la mattina, prendeva la macchina e andava all’ospedale in cui era stato primario per
anni. E non potendo più praticare, dava consigli, perché era una specie di genio
della diagnostica.
Ai funerali uno scrittore polacco ha parlato e ha detto: “Io 25 anni fa ero molto
abbattuto, perché mia moglie stava malissimo, non si riusciva a capire cosa avesse.
Qualcuno mi suggerì di andare dal dottor Edelman. Ci andai e lui mi disse: ‘Allora
andiamo subito a casa sua’. Ci andammo e quando lui la guardò, le disse: ‘Lei
viene immediatamente con me a Lodz, che la ricovero nel mio reparto’. Lì le
diagnosticò il tumore e le salvò la vita”.
Prima di tutto era un medico cardiologo, in secondo luogo era anche militante.
Infatti quando abbiamo organizzato i funerali, tutti volevamo che parlasse anche
un cardiologo.
[b]Il regime comunista lo licenziò…[/b]Due volte: nel ’65 e nel ’68 per ragioni antisemite. Sua moglie e i figli sono partiti
nel ’70, per questo motivo. Tieni presente che anche sua moglie, che è morta un
anno fa, era di Lodz; il padre di sua moglie, prima della guerra, era un medico ebreo
bundista. Anche lei, si chiamava Alina Margolis, era nel ghetto e ha scritto un libro
sulla sua esperienza. In Francia è stata tra i fondatori di Médecins Sans Frontiéres e
poi Médecins du mond. Era pediatra, e in Polonia ci sono ancora dei programmi
avviati da lei, dopo la caduta del comunismo, di aiuto ai bambini bisognosi,
poveri, malati.
Suo figlio racconta che quando era bambino gli hanno insegnato a fare le punture
perché potesse farle ai bambini, che di lui avevano meno paura…
Questo è l’ambiente. Lui si ricorda della cucina, dei genitori che parlavano sempre
di malati: “Allora con quello come facciamo? Vediamo se riusciamo, operiamo,
non lo operiamo…”.
A metà degli anni ’70 esce il libro di Hanna Kral, Arrivare prima del Signor Iddio
(lo sta per pubblicare Giuntina, in Italia). A quel punto gli oppositori al regime,
l’opposizione democratica lo scopre, e cominciano a chiedergli di partecipare.
Vanno da lui, gli chiedono l’adesione e lui in un primo momento risponde che non
gli “interessa niente…”. Poi lo convincono, e così entra nella vita pubblica, diventa
amico di Kuron, di Michnik, eccetera eccetera.
[b]Con Jaruzeski verrà arrestato…[/b]
Sì, quando c’è il colpo di stato, il 13 dicembre ‘81 viene arrestato, perché in quel
momento è uno dei dirigenti di Solidarnosc. Per il colmo dell’idiozia non lo
mandano in un campo di internamento per i vip, lo mandano invece in un carcere
abbastanza schifoso, e lì rimane solo qualche giorno, perché fuori succede un
casino. Credo che sia intervenuto Brandt che lo conosceva; era stato in Polonia
ospite del Bund prima della guerra. Così viene scarcerato. Viene poi messo agli
arresti domiciliari nell’83, in occasione del 40° anniversario dell’insurrezione. Il
regime vuole organizzare una cosa grossa, internazionale, e lui scrive questa lettera
famosa, in cui dice: “Io non solo non parteciperò, ma chiedo a tutti di boicottare,
perché noi non abbiamo combattuto per questo”. Così lo mettono agli arresti
domiciliari.
A proposito di anniversari, nel ’93, nel 50° anniversario dell’insurrezione del
ghetto, accade un’altra storia abbastanza scabrosa (in quel periodo il presidente
della Repubblica è Walesa). Siccome da quattro anni si erano normalizzati i
rapporti tra Polonia e Israele, Israele aveva mandato una delegazione molto
importante, con a capo il primo ministro Rabin. A quel punto, quando si decide chi
deve parlare, i polacchi che non sapevano niente delle questioni tra ebrei volevano
che parlasse anche Marek Edelman. Gli israeliani minacciano allora di non
partecipare alle celebrazioni. E la spuntano. E lì, però, c’è questo bellissimo gesto
di Walesa che, poco prima dell’inizio delle celebrazioni ufficiali, spontaneamente
si dirige verso Edelman nella tribuna degli ospiti, lo prende per mano, Edelman a
sua volta prende per mano il nipotino di sette anni, e tutti e tre camminano verso il
monumento di fronte a tutti. Dopodiché Edelman vede a colazione Rabin, da solo
(un suo zio era stato uno dei fondatori del Bund, e non so come Edelman facesse a
saperlo) e gli dice: “Se ti guardo negli occhi sono sicuro che tu farai la pace con i
palestinesi”. E a settembre ha fatto la pace…
[b]Ma al funerale non c’erano poche delegazioni ufficiali?[/b]Ma no, perché?
Avrebbe potuto esserci qualche capo di stato europeo…
Il presidente della Polonia Kaczynski c’era. La cerimonia si è svolta in due parti, la
prima davanti al monumento degli insorti del ghetto, la seconda al cimitero. In
mezzo, abbiamo fatto un corteo, con musicisti jazz, dal monumento al cimitero. I
funerali sono stati molto complicati. E credo che lui sarebbe stato contento e fiero
di come li abbiamo organizzati. Intanto, noi, la famiglia, gli amici, non volevamo
funerali di Stato. Sono stati offerti dalla Presidenza della repubblica, ma abbiamo
detto: “Grazie, no, perché lui non era un uomo di Stato”.
Era un medico e un militante, non ha mai partecipato alle celebrazioni ufficiali,
perché avrebbe dovuto avere i funerali ufficiali? Anche perché poi i funerali
ufficiali avrebbero comportato un cerimoniale a cui lui era assolutamente
refrattario.
Il presidente della repubblica ha capito e nonostante questo ha partecipato. E’ stato
un bel gesto. Al monumento hanno parlato gli amici, Adam Michnik, Tadeusz
Mazowiecki, il primo premier dopo la caduta del comunismo, Aleksander Smolar,
un intellettuale che lo frequentava molto a Parigi e a Varsavia, e un cardiologo cui
era devoto. E’ stata letta una lettera di un’amica da Israele. Non ci sono stati
discorsi di politici.
Infine l’abbiamo sepolto al cimitero ebraico, e non al cimitero dei benemeriti per la
patria, perché lì c’è la tomba simbolica dei combattenti del Bund, quelli
dell’insurrezione, e poi perché volevamo che un eroe nazionale polacco stesse al
cimitero ebraico, che il cimitero ebraico diventasse parte della memoria nazionale
polacca.
[b]Da Israele è venuto qualcuno?[/b]
Sì, c’era un rappresentante ufficiale del governo israeliano. Questa è una storia
interessante, si può anche renderla pubblica. Netanyahu ha mandato un ex-ministro
della difesa, Moshe Arens, che è proprio destra destra. Ha 85 anni, è stato ministro
della difesa sotto Begin, e lui l’ha mandato perché Arens è molto legato alla
memoria dell’estrema destra ebraica, quella che nel ghetto fondò L’unione militare
ebraica, erano dei borghesi, ex ufficiali delle forze armate polacche, d’anteguerra,
gente lontanissima dalla mentalità della Zob. Già qualche anno fa era venuto a
Varsavia e a Lodz, a trovare Marek. Da parte sua era una cosa abbastanza nobile,
nel senso che Arens si lamenta sempre che in Israele sono state cancellate varie
memorie, tra le quali la memoria di quella organizzazione di destra. Marek non
voleva nessuna mediazione su questo, non voleva mai mediare su questioni come
la memoria, per lui quelli della destra erano sempre rimasti degli avversari. Ora,
Arens è venuto a trovare i figli di Marek e ha detto: “Vengo come rappresentante
ufficiale di Israele, come messo personale del presidente del consiglio di Israele, e
sono portatore di un riconoscimento che a Marek Edelman è sempre mancato da
parte di Israele…”. La figlia di Marek gli ha risposto: “E’ arrivato troppo tardi…”. E
lui ha ribattuto: “Meglio tardi che mai…” e anche questa è una bella risposta. E
ovviamente era presente sia ai funerali, anche se non ha parlato, sia al cimitero
ebraico.
[b]Marek Edelman non ha mai preso in considerazione di andare in Israele?[/b]
No. E’ andato tante volte per trovare i suoi amici ma la sua vita era lì, in Polonia.
Ma, lo ripeto, non per il legame con la Polonia in quanto idea della Polonia, ma in
quanto luogo. Fai le cose dove stai. Questo fa parte dell’ethos del Bund: si fanno le
cose dove si sta. Fine. Cioè non c’entrano niente l’idea, i miti, gli antichi, niente.
Stai qui, fai qui. Fai il consigliere comunale qui. Basta. Fine.
UNA CITTÀ n. 169 / Novembre 2009

 

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