[b]Qualcuno ancora crede che la Siria rivoglia il Golan per l'agricoltura

Testata: Panorama
Data: 15 marzo 2010
Pagina: 99
Autore: Pino Buongiorno
Titolo: «Assad bifronte Il gioco di equilibri del 'giovane leone'»

Riportiamo da PANORAMA n° 12 del 12/03/2010, a pag. 99, l'articolo di Pino Buongiorno dal titolo " Assad bifronte Il gioco di equilibri del 'giovane leone' ".
Fonte: Informazione Corretta[/b]
L'articolo di Pino Buongiorno ha un tono un po' troppo ammirato nei confronti di Bahar al Assad, il dittatore siriano.
Nel corso del pezzo vengono elencati tutti i suoi 'successi' in politica estera. Il più clamoroso è il riavvicinamento con la Turchia : " Poi ha consolidato i legami con la Turchia, un paese con il quale solo 10 anni fa era sull’orlo della guerra. Al premier Erdogan, nello scorso dicembre, il presidente siriano ha chiesto un’ulteriore mediazione, dopo quella fallita nel 2009, per arrivare a un accordo di pace con Israele. La posta in palio più importante è la restituzione delle alture di Golan, vitali per l’economia siriana, che ha bisogno di acqua e di terreni coltivabili. ". La Siria non ha mai coltivato il Golan. L'ha sempre e solo usato per bombardare Israele. Per questo motivo continua ad insistere per riaverlo e, sempre per questo motivo, è poco probabile che Israele glielo ceda.
Buongiorno ha mai fatto un giro sulle alture del Golan? Glielo consigliamo, siamo sicuri che le sue analisi sulla politica e sull'economia siriana sarebbero diverse, più veritiere.
Ecco l'articolo:

Il Palazzo del popolo, in cima al monte Kassioun, domina tutta Damasco. La residenza ufficiale del presidente siriano è un edificio maestoso, che mette quasi soggezione. Sotto le imponenti volte intarsiate gli ospiti stranieri devono camminare su un tappeto rosso lungo 100 metri prima di essere accolti da Bashar Assad, 44 anni, al potere dal luglio 2000.

Le visite di stato si susseguono a ritmo frenetico, come in nessun’altra capitale mediorientale: dal presidente francese Nicolas Sarkozy a re Abdallah dell’Arabia Saudita, dall’alleato strategico iraniano Mahmoud Ahmadinejad al primo ministro turco Recep Tayyip Erdogan. Dal 18 al 20 marzo, anche il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano, accompagnato dal ministro degli Esteri, Franco Frattini, potrà ammirare dalle ampie vetrate una delle più antiche città del mondo e tentare di convincere Assad che è nel suo interesse collaborare sul piano politico, su quello delle riforme democratiche, delle relazioni commerciali, del turismo e degli investimenti.

Solo 5 anni fa Bashar Assad, conosciuto anche nel mondo arabo come «il Dottore» per via della laurea in oculistica, era un paria, vilipeso e isolato dopo l’assassinio a Beirut del premier libanese Rafik Hariri che scatenò la Rivoluzione dei cedri in Libano e portò alla cacciata delle truppe di occupazione siriane. Oggi è un leader coccolato, che tutti vogliono coinvolgere perché ne riconoscono l’influenza nella turbolenta regione: in Libano, in Iraq, in Palestina, perfino nello Yemen, dove ha mediato per preservare l’unità del paese contro le spinte secessioniste della minoranza sciita, al punto da mettersi in contrasto con l’Iran.

È sicuramente un interlocutore difficile e ambiguo che, da una parte, fa timide aperture all’Occidente e, dall’altra, rafforza l’asse con il blocco radicale, Iran-Hezbollah-Hamas, tanto per aumentare la sua forza contrattuale.

Le ultime settimane hanno visto l’apoteosi del doppio gioco. Il 17 febbraio scorso, per la prima volta da anni, il Palazzo del popolo si è aperto a un esponente di rango dell’amministrazione americana. William Burns, sottosegretario di stato per gli Affari politici, accompagnato dal coordinatore dell’antiterrorismo Daniel Benjamin, ha portato tre buone notizie da Washington: l’imminente arrivo a Damasco dell’ambasciatore Usa Robert Ford, dopo cinque anni di ostracismo, il ritiro del veto politico per l’accesso della Siria all’Organizzazione mondiale del commercio e il rallentamento dell’embargo Usa sui pezzi di ricambio degli aerei della compagnia siriana. Fra le righe è stata ventilata anche la possibilità di inviare a Damasco una delegazione di imprenditori della Silicon Valley.

Secondo quanto Panorama ha accertato, queste concessioni, volute da Barack Obama nel segno di una politica meno muscolare, sono state subordinate a una serie di iniziative che Assad dovrebbe prendere nell’immediato. La prima: arrestare l’incessante flusso di guerriglieri stranieri in Iraq, nel momento in cui i soldati americani si accingono a lasciare il paese, e smantellare le reti logistiche in Siria anche per superare i dubbi del Congresso e di diversi settori del dipartimento di Stato, per nulla convinti della conversione filoccidentale del presidente siriano. La seconda: aumentare lo scambio di informazioni dei servizi segreti di Damasco con la Cia sul terrorismo.

La risposta siriana è stata interlocutoria e tattica: passi discreti sono possibili, ma occorrono anche premi immediati, senza dovere necessariamente reimpostare tutto il dialogo bilaterale. Alla fine Burns, da vero diplomatico qual è, ha riassunto a Washington il senso dei suoi colloqui con questa formula: «entusiasmo contenuto».

Anche perché, otto giorni dopo, il 25 febbraio, lo stesso Palazzo del popolo ha spalancato i battenti al «summit della resistenza»: Siria (Assad), Iran (Ahmadinejad), Hezbollah (Hassan Nasrallah) e Hamas (Khaled Meshaal) hanno discusso le questioni della sicurezza, dei rapporti interpalestinesi e del reciproco sostegno, se Israele dovesse attaccare gli impianti nucleari dell’Iran.

In questa politica da Giano bifronte il «giovane leone», com’è descritto Bashar in un bel libro dallo storico inglese David Lesch, si sta rivelando più machiavellico del padre Hafez, «il vecchio leone». Il fine, che è quello di essere il cardine dei futuri assetti politici della regione, giustifica i mezzi: tenere aperte tutte le opzioni, dagli Stati Uniti all’Unione Europea, dall’Iran ai paesi vicini, Turchia e Arabia Saudita.

È una questione di sopravvivenza per lui, per la famiglia e soprattutto per il suo clan, quello degli alawiti, una setta islamica assolutamente minoritaria (7 per cento) nella Siria a maggioranza sunnita. Già questo la dice lunga su cosa significhi governare a Damasco e dintorni.

All’inizio, nel 2000, pochi scommettevano sul giovane Bashar, impegnato negli studi all’estero. Il padre aveva deciso che il suo successore sarebbe stato il primogenito Basel. Ma un incidente d’auto fece saltare le linee ereditarie prestabilite e l’inesperto Bashar varcò il palazzo presidenziale. Ci mise tempo per prenderne pieno possesso e far fuori la vecchia guardia. Solo nel luglio dello scorso anno, per esempio, è uscito di scena il potentissimo cognato Assaf Shawkat, capo dell’intelligence, fatto fuori probabilmente per il suo coinvolgimento nell’omicidio di Hariri.

Nella spietata lotta di potere ha avuto la meglio Ali Mamluk, nominato al vertice dei servizi segreti (Mukhabarat), considerato oggi l’interfaccia del presidente e il punto di raccordo fra tutte le figure chiave del governo, del parlamento, del partito Baath e del mondo degli affari. L’altro uomo forte è Mahmoud Makhluf, lo zio di Bashar, uno degli esponenti politici ed economici più in vista.

I figli, Rami e Ihab, sono i principali imprenditori del paese, attivissimi, il primo all’estero, il secondo in patria. L’altro personaggio che conta nella ristretta cerchia del presidente è la moglie Asma, una siriana nata in Gran Bretagna, che funge da voce liberal del regime.

Funambolo a casa sua, Bashar Assad sembra ancora più a suo agio negli equilibrismi internazionali. Qui, fra le priorità, c’è la precaria situazione economica a causa della disoccupazione, del deficit crescente, degli scarsi investimenti internazionali e dei tre anni di siccità. Ecco la necessità di giocare su più tavoli. Anche se non è sempre facile.

Lo dimostra il dossier nucleare. A Panorama risulta che il presidente siriano avesse deciso di imitare il modello libico del colonnello Muammar Gheddafi e ammettere l’esistenza di un progetto nucleare a scopi militari, sviluppato grazie alla Corea del Nord e all’Iran. L’autodenuncia sarebbe servita a migliorare i rapporti con gli Stati Uniti e l’Europa. Non solo, poteva essere usata come arma di scambio per evitare una condanna da parte del tribunale internazionale che indaga sull’omicidio di Hariri.

Sia Ahmadinejad sia Kim Jong-il si sono opposti con tutte le forze fino a minacciare conseguenze disastrose per la Siria, se Assad avesse dato seguito ai suoi propositi. Sta di fatto che nell’ultimo rapporto, del 18 febbraio scorso, gli ispettori dell’agenzia atomica delle Nazioni Unite hanno denunciato «la mancanza di cooperazione» da parte del governo siriano e hanno sollevato seri dubbi sugli scopi civili del programma nucleare.

Un altro esempio di quanto sia irta di ostacoli la strada che porta a Damasco è la mancata firma dell’Accordo di associazione (Asa) della Siria con l’Europa, offerto da Bruxelles assieme a sostanziosi aiuti economici (130 milioni di euro). Anche in questo caso c’è lo zampino dell’Iran, che vede come una minaccia all’alleanza strategica qualsiasi tipo di cooperazione con l’Occidente. Un gruppo di economisti iraniani è stato spedito a dimostrare che l’economia siriana avrebbe patito gravi danni dalla competizione con i prodotti europei. Assad si è fatto convincere, almeno per il momento, e ha chiesto agli europei più tempo per approfondire le conseguenze di quel trattato di associazione.

Non per questo se n’è stato tranquillo a subire i diktat degli ayatollah. Quasi a voler far male all’Iran, all’improvviso ha migliorato i rapporti con l’Arabia Saudita, tanto che l’uomo di Riad in Libano, il giovane Saad Hariri, ha potuto essere nominato capo del governo a Beirut (anche se sono continuati i rifornimenti di armi a Hezbollah).

Poi ha consolidato i legami con la Turchia, un paese con il quale solo 10 anni fa era sull’orlo della guerra. Al premier Erdogan, nello scorso dicembre, il presidente siriano ha chiesto un’ulteriore mediazione, dopo quella fallita nel 2009, per arrivare a un accordo di pace con Israele. La posta in palio più importante è la restituzione delle alture di Golan, vitali per l’economia siriana, che ha bisogno di acqua e di terreni coltivabili. Ma l’oculista di Damasco è fatto così: ha la vista sempre lunga.

 

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