[b]Stefano Magni
L'Opinione 12.04.2010 alle 19.49[/b]

Benjamin Netanyahu non sarà presente al vertice internazionale di Washington sulla non proliferazione nucleare. Il summit della capitale americana, che si terrà la settimana prossima, sarà un lavoro preparatorio per la revisione del Trattato di Non Proliferazione del 1970, uno strumento di controllo nucleare ormai giudicato obsoleto da tutti i suoi firmatari.

Sarà anche un’occasione importante per discutere sul da farsi con il caso Iran, ormai lanciato e inarrestabile nella sua corsa al nucleare (probabilmente anche militare). La presenza di Israele, direttamente minacciato dall’eventuale atomica di Teheran, era dunque di fondamentale importanza. Ma dopo lo scontro diplomatico fra Washington e Gerusalemme, sulla costruzione dei nuovi centri abitativi ebraici nei quartieri arabi della capitale israeliana (questione che ha provocato un lungo stallo nel processo di pace) e soprattutto dopo la pessima accoglienza riservata da Barack Obama al premier di Israele, Netanyahu ha optato per lo strappo. Soprattutto dopo che ha saputo che Turchia ed Egitto, ospiti a Washington, avrebbero sollevato la questione del nucleare israeliano. Che ufficialmente non esiste. La Casa Bianca minimizza sull’assenza di Netanyahu, ma è ormai chiaro che i rapporti privilegiati fra lo Stato ebraico e gli Stati Uniti sono incrinati. E Israele non è l’unico alleato dell’America a sentirsi abbandonato. A cosa porta la nuova politica estera di Obama? Ne abbiamo parlato con Arduino Paniccia, docente di Strategia ed Economia Internazionale presso l’Università di Trieste, consulente dell’Onu e autore di numerosi saggi sulle Relazioni Internazionali, fra cui il recente “La pace armata” sul ruolo dell’Italia nella nuova dottrina strategica occidentale.

Professor Paniccia, perché occorre una riforma del Trattato di Non Proliferazione?
Il Trattato appartiene pienamente all’epoca della Guerra Fredda, in cui oltre il 90% degli ordigni nucleari (sia tattici che strategici) erano nelle mani delle due superpotenze, Usa e Urss. Il Trattato nasce per consolidare lo status quo, con due obiettivi: sbarrare la via del nucleare ad altri Paesi e impegnare i capofila delle due alleanze (Nato e Patto di Varsavia) a intervenire con uso di armi atomiche in caso di attacco ai propri alleati. E’ evidente che questo mondo bipolare, retto sulle due superpotenze e sui loro sistemi di alleanza, non esiste più.

Quali modifiche dovrebbero essere apportate al Trattato di Non Proliferazione?
Al momento della firma del Trattato (accettato subito da Urss, Usa, Gran Bretagna, dal 1992 anche da Cina e Francia), l’India, il Pakistan, Israele, il Sud Africa, tantomeno la Corea del Nord, non avevano la bomba atomica. Dopo il trattato, tutti questi Stati sono diventati potenze nucleari regionali. Non c’erano Stati di cui si sospettava la presenza di programmi nucleari militari segreti, come nel caso dell’Iran. O regimi di cui si sospetta addirittura il possesso di armi atomiche, come la Birmania, che potrebbe aver ricevuto testate nucleari dalla Cina. Insomma: sono in maggioranza le potenze nucleari che non hanno aderito al Trattato. Un nuovo Trattato permetterebbe ad ogni Paese di dotarsi di energia nucleare civile, mentre gli impianti per l’arricchimento dell’uranio (utili a produrre materiale fissile per le testate) sarebbero messi sotto controllo. A garanzia del nuovo Trattato saranno rafforzate le funzioni dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica (Aiea), perché i firmatari del Tnp non hanno una propria “polizia internazionale” che faccia rispettare le sue clausole. L’Aiea c’è anche oggi, ma chi non obbedisce alla non proliferazione va a cospetto del Consiglio di Sicurezza dell’Onu, con tutte le conseguenze che sappiamo (veti incrociati, ecc…). A quarant’anni di distanza dall’entrata in vigore del Tnp, Obama ha tutta l’intenzione di riformarlo, anche per isolare l’Iran, che attualmente costituisce l’unico caso totalmente fuori controllo. Perché la Corea del Nord, infatti, ha probabilmente già più di una testata nucleare, ma, in una certa misura, è la Cina che garantisce per il suo controllo. L’Iran, invece, è fuori da tutti i giochi.

Anche Israele avrebbe tutto l’interesse a isolare l’Iran. Come si spiega, allora, il suo strappo?
In generale, Netanyahu non condivide la politica estera americana, per una questione di spazio e tempo. Il tempo e lo spazio sono due variabili che per lo Stato ebraico sono molto limitate. Il governo israeliano non ha tempo per permettere alle sanzioni di convincere l’Iran ad abbandonare i suoi intenti: è convinto che la sopravvivenza del suo Paese sia compromessa dal momento in cui la Repubblica Islamica si sarà dotata della sua prima bomba atomica. Una politica come quella di Obama, poi, può avere senso dal momento che gli Usa sono dall’altra parte del mondo rispetto all’Iran. Mentre Israele è già entro il raggio dei missili iraniani.

Perché Obama sta abbandonando Israele e altri alleati tradizionali degli Usa?
La strategia dell’ultimo presidente, non è una novità. L’abbandono di amici e alleati è una componente intrinseca della politica estera americana, soprattutto da quando Washington ha deciso scientemente di auto-limitare la propria forza militare. Dai tempi della Guerra di Corea, quando il presidente Truman impedì al generale McArthur di usare armi nucleari contro nordcoreani e cinesi, gli Usa diedero il via a una nuova politica di intervento, diversa dalle guerre precedenti: piccoli conflitti, guerre per procura, guerre “ibride”. In queste nuove realtà belliche, è capitato ormai più di una volta che gli Usa abbandonassero un alleato al suo destino. E’ successo con il generale Diem (Vietnam del Sud), con Noriega (Panama), con lo Scià di Persia. E ci sono innumerevoli altri casi in America Latina e Africa. Sono stati sacrificati, a volte, perché gli americani hanno male interpretato la situazione. In altri perché li hanno scientemente sacrificati sull’altare della negoziazione con i nemici, dopo anni di guerra.

E con Israele può accadere la stessa cosa?
Il legame fra Usa e Israele non è eterno. Obama ha fatto capire a chiare lettere che sta riorientando gli interessi dell’America sul versante del Pacifico, sull’Asia. Il Mediterraneo avrà meno importanza per Washington nel prossimo futuro, se non come fonte di approvvigionamento energetico. Anche l’Afghanistan potrebbe essere assegnato in custodia alla Cina e alla Russia. E per l’Iraq è ancora tutto da vedere. Insomma, nel prossimo decennio, in tutta la regione mediorientale, la presenza americana potrebbe diventare solo un ricordo.

[b]L'Opinione 10 aprile 2010[/b]

 

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