[b]di Stefano Magni
Opinione 04 Settembre 2010 – Società E Cultura[/b]

Israele terra di religioni. Israele terra di guerre continue. Ma dell’arte non parla nessuno, o quasi. Maurizio Turchet, milanese, fotografo, si è preso questo impegno: mantenere un occhio fisso sullo Stato ebraico, fotografandolo prima di tutto, ma anche creando un legame con un esplosivo ambiente artistico e del design veramente poco conosciuto qui in Europa.

Con tre libri fotografici, IsraeleOggi, usciti in tre successive annate dal 2008 ad oggi, con rassegne fotografiche periodiche e itineranti, Turchet dà un volto e un significato a deserti e città sfuggendo ai luoghi comuni dei media. Il suo nuovo progetto, IsraelLab, di prossima uscita (sarà accompagnato anch’esso da una mostra itinerante in Italia) parte dal presupposto che tutta Israele sia un gigantesco laboratorio di idee, parole, immagini. “Il progetto è nato nel 2008, in occasione del 60mo anniversario della nascita dello Stato di Israele” – spiega Maurizio Turchet a L’Opinione. Come è nata l’idea di IsraeleOggi? L’idea era quella di iniziare un percorso fotografico da proseguire nella quotidianità. La prima puntata, del 2008, è un viaggio sull’esteriorità del Paese, aveva come tema la scrittura, tanto significativa nella cultura ebraica. Parliamo di scrittura pubblicitaria, grafica e, all’origine, religiosa. E prima ancora: la natura, l’idea che le tavole del Monte Sinai contenessero già l’iscrizione che lo scalpello ha poi rivelato. Il secondo viaggio è stato a Tel Aviv, in occasione dei 100 anni della sua fondazione. E anche questo è stato un percorso esteriore, sull’architettura della città. Il terzo viaggio è il deserto e l’ecologia tutta particolare di Israele, dove anche il deserto vive: solo a vedere sulle mappe di Google il deserto israeliano è verde, contrariamente a quelli color sabbia d’Egitto e Giordania. Infine, quest’anno segna l’incontro con gli artisti e le scuole d’arte, i gruppi teatrali, ai designer ai confini con l’arte, con i musei e con la vita creativa urbana, soprattutto a Gerusalemme e a Tel Aviv. E poi la Galilea, il regno dei cabalisti, l’area in cui si sono stabiliti nel XVI Secolo, artisti, visionari e religiosi. La religione è presente in tutta Israele, ma l’arte contemporanea è quanto di più laico e sperimentale si trovi nell’area. Ma qual è il rapporto fra tradizione e arte contemporanea?
L’arte, se non è legata al trascendente, non è interessante. Acquisisce una marcia in più quando trascende dal materiale, dal quotidiano, per aggiungere una dimensione spirituale. Israele è particolarmente ricca da questo punto di vista. E deve fare i conti, in continuazione, con il principio di non farsi immagini o idoli di ciò che è in cielo, in terra e sotto le acque. Principio che è stato subito trasgredito nella stessa Bibbia, quando Dio ordina di realizzare l’Arca dell’Alleanza, con due cherubini, due raffigurazioni di angeli. Mosè costruisce anche un simulacro di serpente di rame per salvare il popolo di Israele dalla pestilenza. Non c’è, dunque, il rispetto rigido di iconoclastia, non c’è alcuna proibizione di giocare con le immagini. Ma quello di non crearsi idoli. L’arte contemporanea è intrisa di tradizione, ma in un modo segreto e ironico, assolutamente non ortodosso. E nessuno lo proibisce. Oltre alla religione, l’altra dimensione di Israele più nota è la guerra. Come viene vissuta dall’ambiente artistico? Proprio mentre stavo conducendo ricerche a Tel Aviv è scoppiato il caso della Mavi Marmara, l’abbordaggio della nave turca con gli aiuti per Gaza da parte di un commando israeliano. Anche da parte di amici stretti in Europa, che fanno parte del mondo artistico, non c’è stata alcuna lettura cosciente di quegli avvenimenti. Tutti si sono scagliati contro Israele senza chiedersi cosa fosse successo. A Tel Aviv ho visto una profonda tristezza in tutti gli artisti, ma anche nella gente comune. Tristezza per non essere compresi dal Vecchio Continente. Il discorso dominante era: “Noi amiamo l’Europa, che per noi è una terra di cultura e di diritti civili, un esempio da seguire. Noi ci sentiamo parte dell’Europa, ma gli europei non capiscono che noi vogliamo solo continuare ad esistere, a sopravvivere”. In Israele l’atmosfera è molto diversa da quel che si può immaginare. Tutti hanno continuato a frequentare locali arabi, anche nel pieno della crisi della Freedom Flotilla. E i ragazzi arabi iscritti nelle accademie artistiche sono numerosi, continuano ad esserlo. Il conflitto non c’era: il conflitto era tra europei, che non sanno leggere il Medio Oriente.

 

Comments are closed.

Set your Twitter account name in your settings to use the TwitterBar Section.