[b]"Per la verità, per Israele"
maratona oratoria

di Fiamma Nirenstein
L'Occidentale 8 Ottobre 2010[/b]

Non voglio spiegarvi di nuovo perché noi siamo tutti qui. Voi lo sapete bene. Voglio solo cercare di darvi tre minuti di verità su Israele, anche se mi occorrerebbero ore per raccontarvi una storia che è stata rovesciata fino a non serbare alcuna parvenza di realtà. Io sono una giornalista e una parlamentare italiana: per questo ho negli occhi la verità di ciò che ho visto in tanti anni di servizio, nel cuore il desiderio che questa verità sia utile, indispensabile all’Italia e all’Europa.

La mia prima verità è una unica strada, quella che porta da casa mia all’aereoporto di Fiumicino quando parto e poi quando atterro, prosegue verso Gerusalemme dall’aereoporto Ben Gurion, vicino a Tel Aviv, quando arrivo in Israele, e viceversa. Un’unica strada: quella dove le macchine corrono liberamente dove vogliono senza dar conto a nessuno, le donne si vestono come preferiscono e scelgono il lavoro e il marito che vogliono, le radio nelle auto trasmettono pareri difformi e ferocemente dissenzienti ma una canzone, allegra o triste, ritma sempre la stessa storia: quella della democrazia, piena di vita e di sogni, di movimento, di dissenso, di giovani in corsa verso il futuro, di idee diversissime fra di loro.
Ma la vita di Israele, quella di un Paese dove è proibito insegnare a scuola una sola parola di odio, dove si mescolano tutte le razze e le religioni, dove i bambini attraversano per mano e vengono accompagnati a scuola di nuoto e di canto, dove negli ospedali le donne arabe partoriscono insieme alle ebree e alle cristiane, dove nella Città Vecchia di Gerusalemme tutte le fedi praticano liberamente i propri riti, io l’ho vista corrosa e aggredita da un nemico terribile: l’assedio, la guerra, l’odio. Quei preziosi bambini educati all’amore andranno in guerra, e a volte, non tornano.
Ho visto con i miei occhi vent’anni di storia e di bugie: la scena terribile di Mohammed Al Dura di cui subito si fece la vittima quintessenziale di Israele, condannato come assassino di bambini, si vedeva subito come hanno dimostrato i fatti, che era controversa, che la piccola povera vittima era stata colpita in uno scambio di fuoco. Lo scrissi mentre tutto il mondo ne faceva l’icona dell’Intifada, un martire della ferocia israeliana. Sono andata a Jenin il paese dei terroristi suicidi, il giorno dopo la battaglia, e mentre il responsabile dell’ONU dichiarava che gli israeliani vi avevano compiuto una strage come quella di Sebrenica, bastava camminare fra le case minate dalla dinamite dai palestinesi e parlare con i soldati e la gente per sapere la verità: era stata una battaglia porta per porta, in cui gli israeliani avevano perduto 23 uomini e i palestinesi 51.
Uno scontro in cui gli israeliani avevano rifiutato di usare gli aerei o i droni, come avrebbero potuto facilmente. La verità è sempre stata sotto gli occhi di tutti: chi non ha visto l’incredibile rovina di pizzerie, caffè, mercati e supermarket sbranati dalle bombe dei terroristi sucidi, i tavoli rovesciati cosparsi di sangue, le carrozzine vuote e insanguinate, i morti e i feriti, feriti per sempre, a migliaia. Feriti che l’amore, la pazienza, la medicina avanzata ha aiutati a risorgere da condizioni spaventose. Ma ho incontrato durante il processo di Oslo a Ramallah, nel Campo profughi di Deheishe, fra i ragazzini delle scuole di Hevron e di Betlemme, miriadi di palestinesi la cui sofferenza ho descritto, ma per cui era impensabile una pace col nemico, dato che l’odio era materia di insegnamento delle radio, delle tv, dei discorsi di Arafat che proclamò che niente poteva essere più bello di un martire bambino.
Un padre medico che al pronto soccorso ha salvato miriadi di ebrei e di arabi, con sua figlia a cena al caffè Cafit pr salutarsi alla vigilia del matrimonio; una ragazza nota in tutto il quartiere per la lunghezza dell’ala bionda dei suoi capelli; un ragazzo venuto dagli Stati Uniti da solo per cercare, arruolandosi nell’esercito, di lenire la solitudine di Israele.. E vicino a tutti questi funerali, e oltre la profonda notte della città vuota con i suoi cipressi neri piantati dai Templari, ho visto la vita vincere sempre, ogni mattina. Ho visto i soldati diciottenni stanchi fino allo sfinimento chiacchierare e ridere raccontandosi storie di ragazze e di famiglia sul confine Libanese che avrebbero dovuto poi passare, marciando a dieci metri uno dall’altro nella notte verso la roccaforte degli Hezbollah a Bin Jebel; ho incontrato ufficiali che hanno scelto di restare vicino ai soldati feriti fino alla fine; tutti possono vederli, conoscere le loro storie. La loro verità di ragazzi che hanno voglia di ballare e di ridere ma anche di difendere il Paese e la loro famiglia, è a portata di tutti; tutti possono vedere la dolcezza della sorella di Ytzchack Rabin ferma come una vecchia bellissima roccia bianca nel suo minuscolo kibbutz di confine, bombardato tante volte dalle katiushe di Nasrallah. E chi parla dei settler come mostri, è mai possibile che non li abbia visti quando durante lo sgombero da Gaza che avrebbe dovuto regalare la pace e ha portato invece all’inusitato feroce potere di hamas, si sono arresi senza colpo ferire alla decisione del Parlamento e all’esercito che ne impugnava la decisione sradicandoli dalle loro belle case, dalle serre di pomodorini ciliegia e di fiori.
Dentro Gaza, sono stata a casa di Ahmed Yassin, di Rantisi, e non ho sentito che parole di odio e di disprezzo razziale senza remissione, non ho visto che saluti nazisti e passo dell’oca, altro che bambini già preparati a diventare shahid. La verità di Israele è dolce come un fico d'india, che ha però intorno le spine della guerra, di un rifiuto cominciato col rispondere no alla risoluzione dell’ONU del 1947 quando la partizione avrebbe subito creato due stati per due popoli, e poi proseguita nei decenni, cinica della sorte della propria gente, odiosa verso gli ebrei.
Ho visto la incredibile passione della gente per le gare sportive che la collocano nel grande mondo, la fierezza inusitata di un aereoporto che è il suo unico sbocco sull’esterno, l’orgoglio di tutti, il gran parlare delle scoperte scientifiche, o archeologiche, per la gara di Bibbia che si svolge ogni anno, per i cantanti che accettano di venire a cantare in Israele, per il Festival del cinema, per la spiaggia di Tel Aviv. E per la pace: è incredibile quante canzoni, quanta discussione discussione politica e fra la gente, quanti sondaggi, sono dedicati alla pace. Anche chi adesso teme che non ci se la possa fare, dopo tanto rifiuto, anche chi disperato non ce la fa più, la porta fra gli occhi come un segno distintivo. A volte finge, a volte si illude che ci sia, a volte si addormenta sognandola. Finchè non lo risveglia una nuova esplosione.
Per capire bene chi è un israeliano, lo si deve vedere a Roma quando scopre che dalle fontanelle scorre acqua senza sosta. Sbarra gli occhi, spalanca la bocca, chiede se non la chiudiamo mai, chiede dove va a finire, mi informa che il Kinneret, ovvero il mar di Galilea, quest’anno è cresciuto di 5 millimetri, e poi chiede “Magari ci sarebbe modo di portarne un po’ in Israele”.

 

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