[b]Federico Steinhaus, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(da Informazione Corretta)
Fonte: Moked[/b]

Non sono un vaticanista. Mi occupo di storia, di antisemitismo, di rapporti fra Santa Sede ed Israele. Non sono in grado, di conseguenza, di fare una esegesi teologica, filosofica, linguistica del documento approvato dal sinodo dei vescovi, ma sono in grado di inquadrarlo e di esprimere una mia opinione al riguardo.
Il concetto basilare della separazione degli ebrei dal “corpo sano” dei cristiani in Europa, poi degenerato nelle note persecuzioni, ha avuto la sua originaria applicazione fin dai primissimi secoli dell’era cristiana, si è istituzionalizzato attraverso l’ invenzione del ghetto, ed ha trovato il suo culmine proprio con papa Pio XII nella piena adesione ai principi ispiratori delle leggi antiebraiche del 1938, a tal punto che quando Badoglio alla fine del 1943 pensò di abolirle il papa inviò in missione padre Tacchi Venturi per scongiurare questa decisione.

Parallelamente e basandosi sulla medesima concezione dei rapporti fra mondo cattolico e mondo ebraico, la Santa Sede contrastò il sionismo e la creazione di una patria degli ebrei (in Palestina soprattutto, essendo quella la “Terra Santa” che fin dalle Crociate doveva essere il dominio incontrastato della Chiesa). Il mancato riconoscimento diplomatico dello Stato d’Israele non fu che l’appendice politica di questa impostazione teologica.
Ugualmente ambiguo fu il salvataggio di molti ebrei (non certamente 10.000, un quarto degli ebrei italiani!) da parte di istituzioni ecclesiastiche: salviamo le persone, ma non accettiamo la loro fede. Quanti di questi “salvataggi” furono finalizzati alla conversione dei salvati? Ricordiamo le direttive papali che suggerivano la conversione dei bambini ebrei affidati ai cattolici dalle loro famiglie, una rivelazione che destò scandalo pochissimi anni fa ma che è confermata da quanto realmente avvenne.
E infine, pur motivato con la volontà di avversare il comunismo, vi fu l’aiuto fornito dalla Santa Sede ai nazisti in fuga dopo la sconfitta della Germania, un aiuto massiccio ed indiscriminato che consentì a molti criminali e responsabili di stragi di sottrarsi alla giustizia.
Questo è un sintetico quadro storico-politico che dovrebbe aiutarci a trovare una chiave di lettura seria e ponderata del documento del sinodo dei vescovi sul Medio Oriente. Il documento stesso, tuttavia, non è facile da decifrare a causa della vaghezza di alcune affermazioni: una vaghezza voluta, per lasciare aperta una via di fuga dalle prevedibili accuse che puntualmente arrivano da parte israeliana ed ebraica.
Vorrei pertanto sottolineare alcuni passi significativi dei “Lineamenta”, il lavoro preparatorio del sinodo redatto da una commissione di 7 patriarchi, 2 presidenti di conferenze episcopali e 4 capi dei dicasteri della Curia romana, che ne traccia con meticolosità le argomentazioni.
Nella prefazione l’arcivescovo Eteroviç afferma che il Medio Oriente, tutto il Medio Oriente, è “la patria” dei cristiani. Una affermazione che, accoppiata a quella emersa nella conferenza stampa di presentazione dei lavori del sinodo, in cui si nega qualsiasi legame degli ebrei con la Palestina, diventa un accostamento audace non meno della tesi della sostituzione per la quale – anche questo è stato detto in tale occasione – Dio avrebbe revocato il suo patto col popolo ebraico per siglarne uno nuovo coi cristiani.
Al paragrafo 67 del punto C il documento riconosce che “è essenziale distinguere bene i piani politico e teologico” “per evitare che le ideologie politiche arrivino ad intaccare” il “legame religioso esistente tra Giudaismo e Cristianesimo”, ma ciò malgrado questo documento si avventura in giudizi politici a dir poco contestabili.
L’accesso ai Luoghi Santi “condizionato da permessi militari”, le “teologie cristiane fondamentaliste” che giustificano “basandosi sulle Sacre Scritture l’occupazione della Palestina da parte di Israele”, l’occupazione dei Territori Palestinesi (si noti la differenza con la precedente accezione di “Palestina”) che è causa dell’ostilità tra il mondo arabo ed Israele sono passaggi chiave. Ma di una assoluta gravità è la successiva affermazione al paragrafo 75 del punto E, poi ripetuta al paragrafo 77, che “la soluzione dei conflitti è nelle mani del Paese forte che occupa un Paese o gli impone la guerra. La violenza è nelle mani del forte ma anche del debole,che, per liberarsi, può ugualmente ricorrere alla violenza a portata di mano”; è compito del buon cristiano dire la verità ai “forti che opprimono”. Dulcis in fundo, al conclusivo paragrafo 86 si afferma che “in Medio Oriente esistono diversi conflitti nati a partire dal focolaio principale che è il conflitto israelo-palestinese”.
Con parole diverse: in Medio Oriente regnerebbero la pace e la fraternità se Israele non opprimesse con una ingiusta occupazione la Palestina. Il terrorismo è un’arma di difesa dei “deboli” contro “la violenza dei forti”. Il mondo arabo è innocente rispetto a quanto avviene in quella regione.
E meno male che, come afferma il documento, “è essenziale distinguere bene i piani politico e teologico”! Se no, cosa avrebbe scritto un sinodo teologicamente motivato come questo?
Ad onor del vero, una cauta critica nei confronti dell’islam c’è. Nel mondo islamico i cristiani sono dei non-cittadini in quanto non sono ammesse religioni diverse da quella musulmana (paragrafo 68); inoltre, a causa di ciò, l’Islam ha come nemico primo “la modernità” e non distinguendo fra religione e stato esclude e disconosce la libertà religiosa e quella di coscienza (paragrafo 84). Ma si tratta di una critica che si appoggia ad argomentazioni teologiche, non politiche. Da un punto di vista strettamente politico, per non turbare i rapporti fra Cristianesimo ed Islam (parafrasando quanto affermato in precedenza sui rapporti fra Ebraismo e Cristianesimo) il mondo arabo è innocente, anzi è vittima.

Federico Steinhaus, Consigliere dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
(da Informazione Corretta)

 

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