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Testata: Il Foglio
Data: 11 dicembre 2010
Autore: La Redazione del Foglio[/b]

Perchè Obama e Sarkozy non hanno più presa sul Medio Oriente. Un riassunto efficace della situazione mediorientale.

Roma. La richiesta agli Stati Uniti del riconoscimento unilaterale di uno stato avanzata dal capodelegazione palestinese, Saeb Erekat, permette di capire il fallimento della strategia mediorientale di Barack Obama. Dopo tre mesi dalla “storica” apertura di una nuova fase negoziale – imposta, senza che ve ne fossero le premesse, da un Obama in palese affanno elettorale in vista della scadenza di midterm – Abu Mazen inaugura una fase avventuristica, non priva di aspetti grotteschi. Grottesca sarebbe la proclamazione di uno stato da parte del leader dell’Anp, che non riesce a imporre la propria autorità, né a siglare una tregua su metà del territorio che dovrebbe controllare: da tre anni, la Striscia di Gaza è nelle mani di Hamas e gli emissari di Abu Mazen non possono nemmeno entrare. Ma il dato più grave è che la proclamazione di fatto annullerebbe gli accordi di Oslo del 1993, violerebbe l’impegno a passi esclusivamente contrattati siglato da Yasser Arafat, consegnerebbe a Israele la possibilità di rioccupare tutti i territori palestinesi manu militari. Si tratta di una mossa esasperata e disperata, di un contraccolpo alla delusione palestinese per le speranze indotte da Obama da quando è alla Casa Bianca. Tutto comincia il 12 maggio del 2009, quando il presidente americano comunica al premier di Israele, Benjamin Natanyahu, che la Casa Bianca sostiene lo stop agli insediamenti nei territori e considera la moratoria una precondizione indispensabile alle trattative. E’ una svolta clamorosa nella politica mediorientale degli Stati Uniti, una mossa che obbliga lo stesso Abu Mazen a considerare tale precondizione vincolante e assoluta. Netanyahu si limita a moratorie temporanee in Cisgiordania e dichiara che i cantieri a Gerusalemme non possono essere considerati “insediamenti”. Obama arretra, chiede lavoro extra al suo inviato nella regione, George Mitchell, e al segretario di stato, Hillary Clinton, ma non ottiene risultati significativi. Infine, annuncia negoziati “senza precondizioni” – alcuni testimoni raccontano che Abu Mazen si sia messo a urlare nella Muqata quando ha sentito le parole del presidente americano. Il leader dell’Anp continua a parlare di moratoria sugli insediamenti – né potrebbe fare altro, di fronte alla platea araba – Obama sigla un accordo con Netanyahu in cui accetta le nuove costruzioni a Gerusalemme e ottiene un nuovo congelamento temporaneo in Cisgiordania. Abu Mazen non cede. Tre giorni fa, alcuni diplomatici americani fanno sapere al New York Times che la Casa Bianca ha interrotto le pressioni su Israele. Poche ore più tardi, un portavoce del dipartimento di stato fa una confusa precisazione e dichiara che gli Stati Uniti considerano “illegittimi” gli insediamenti in Cisgiordania – non a Gerusalemme est – che “possono cambiare la tattica, non la strategia”. Di tattica in tattica, il tradizionale avventurismo palestinese riprende campo anche nell’Anp, che lavora soltanto sull’ipotesi di proclamarsi stato. Questo scenario avvicinerebbe l’Anp a uno scontro con Israele, ipotesi coerente con le strategie oltranziste dell’Iran e della Siria. Proprio Damasco ha messo a frutto gli errori europei e francesi, che sono paralleli a quelli di Obama. Giovedì, Nicolas Sarkozy ha ricevuto con tutti gli onori il presidente siriano, Beshar al Assad, che non gli ha dato nessuna garanzia sulla situazione della crisi in Libano, che non gli ha fornito alcuna risposta sull’Iran, ma che, da quando Sarkozy l’ha ospitato sul palco d’onore il 14 luglio 2009, grazie alle manifestazioni di fiducia di Francia e Unione europea, ha ritrasformato il Libano in una provincia siriana, non senza avere armato Hezbollah di cinquemila missili e risorse finanziarie.

 

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