di[b] Giusi Meister [/b](http://bibliotecadisraele.wordpress.com)
[i]Riportiamo un'interessante intervista all'autore del libro 'Dizionario affettivo della lingua ebraica'[/i].

Bruno Osimo (Milano, 14 dicembre 1958) è un traduttore e teorico della traduzione italiano.
È docente di teoria della traduzione, storia della traduzione, traduzione dal russo e traduzione dall’inglese presso vari atenei.
Allievo di Peeter Torop, ha conseguito il dottorato all’Università degli Studi di Milano; da allora si è dedicato allo studio della traduzione a partire da una prospettiva semiotica, in particolare studiando le fasi mentali del processo traduttivo e la valutazione della qualità della traduzione.

[i][b]Dall'intervista[/b][/i]: Io sono convinto che la lingua si impari attraverso l’affettività, i metodi tipo Berlitz, servono per cavarsela in modo pratico, ma per imparare una lingua devi avere un legame affettivo con essa.

La biblioteca d’Israele: Partiamo dal titolo ‘Dizionario affettivo della lingua ebraica’, mi interessa molto comprendere il ruolo dell’affetto nell’apprendimento e nella elaborazione di una lingua. Inoltre, come hai fatto a selezionare solo quarantacinque voci, e perché hai scelto proprio il termine ‘Voci’ e non già ‘Parole’ o ‘Lemmi’? Mi sembra una scelta che contiene già in sé dei rimandi molto intimi a colori, odori e che possiede una dimensione di coralità.

Bruno Osimo: Vedi, per me è funzionale l’esperienza del dizionario perché ho scritto libri sulla traduzione e , in questo modo, potevo far finta di scriverne un altro, anche se, in realtà, quello a cui mi stavo avvicinando era qualcosa di ben diverso. I miei tentativi di essere anticonformista c’erano già come autore di saggi sulla traduzione. Aggiungere accenti scherzosi alla trattazione mi è sempre sembrato importante, dunque, quando mi è venuta in mente l’idea del dizionario, questa particolare formula, mi è piaciuta.
Quanto al numero quarantacinque, be’, io credo nella kabbalah, e quarantacinque vuol dire ‘ebreo’.
La scelta del termine ‘Voci’, inoltre, mi è tornata anche molto comoda quando descrivo il delirio psicotico del protagonista. Per una persona con quel tipo di nevrosi, questa è decisamente la struttura più adatta perché gli consente di trovare un canale espressivo attraverso cui esprimersi.
In ultimo, riguardo all’affetto, io sono convinto che la lingua si impari attraverso l’affettività, i metodi tipo Berlitz, servono per cavarsela in modo pratico, ma per imparare una lingua devi avere un legame affettivo con essa.

Bruno Osimo: Io di natura sono un polemico. Mi piaceva particolarmente il fatto che, seppur conosciuto da tutti come Lorenzo da Ponte, lui nascesse in realtà con un nome ben diverso in quanto ebreo. Oltretutto, Emmanuel Conegliano aveva deciso di convertirsi solo per motivi esclusivamente pratici. Uno dei temi del libro, infatti, è: sono ebrei solo quelli che decide il rabbino o sono ebrei anche quelli che si sentono tali?. Conegliano per me lo è a tutti gli effetti, ad esempio. In quell’opera di Mozart, inoltre, ci son tanti spunti anche molto utili anche dal punto di vista della struttura, e da lì ho mutuato, ad esempio, il personaggio del Cherubino. Infatti, ad un certo punto, il protagonista si rende conto di avere il problema del ‘cherubinismo’, cioè di cedere nel rapporto con gli altri, e prestarsi a fare il ‘cherubino’ per farsi accettare. Il cherubino, inoltre, è anche una figura ambivalente dal punto di vista del genere sessuale. La femminilità del carattere in un corpo maschile, mi sembrava qualcosa di molto importante e di estremamente moderno.

La biblioteca d’Israele: Trovo particolarmente significativo questo passo: ‘’ Non desidero imparare l’ebraico. Desidero studiarlo. ‘’. Questo marca il tuo tipo di atteggiamento nei confronti della lingua ebraica e l’intenzione di relazionarti ad essa compiendo quasi un’opera di scavo anche rispetto alla tua vita, è così?

Bruno Osimo: Esatto. Il protagonista compie quasi un lavoro da archeologo. La sua infanzia è stata rimossa, e per individuare e allargare gli spiragli, usa le parole ebraiche imparate alle elementari. Inoltre, poiché l’ebraico è la lingua della Bibbia, essa può essere realmente studiata per aprire un varco in se stessi, e non solo esclusivamente per esprimere qualcosa di estremamente pratico e riferibile alla mera, prosaica, quotidianità.

La biblioteca d’Israele : ‘’Il fatto è che ci sono alcuni caratteri cirillici che in mammese sono uguali a quelli ebraici. C’era una parte di me che voleva studiare l’ebraico, però poi c’era una parte di me che non voleva perché era troppo legato a mia madre e quindi ho finito per studiare il russo La definizione di ‘lingua russa’ è “lingua che si studia quando non si vuole studiare l’ebraico”. E questa è anche la risposta che danno molti cittadini israeliani contemporanei. ‘’. Ho adorato questa pagina in cui descrivi la tua cauta manovra di avvicinamento non solo all’ebraico, ma alle tue origini, alla tua storia familiare.

Bruno Osimo: Vedi, quando ho cominciato a studiare il russo avevo 14 anni ed ero molto adolescente, cioè un ragazzo riconducibile perfettamente allo stereotipo del ribelle. Credo che allora nel mio inconscio pesasse ancora troppo il fatto che l’ebraico fosse la lingua dei miei genitori, se però pensi al rapporto tra l’alfabeto cirillico e quello ebraico, a quelle lettere rovesciate … in qualche modo, dentro di me, devo aver notato questa specie di affinità … sì, qualcosa avrà di sicuro giocato un ruolo nell’inconscio. Io ho frequentato la scuola ebraica, e il fatto che a sei anni abbia iniziato a studiare una lingua con un alfabeto diverso, e mi sia poi avvicinato al russo e non ad un’altra lingua con un qualsiasi altro differente alfabeto, dài, qualcosa di interiore avrà inciso in tutto questo.

La biblioteca d’Israele : Ogni famiglia ha una sua lingua che poi diventa un vero e proprio linguaggio. Tu dici: ‘’In tampònico il verbo ‘amare’ non si usa perché è troppo forte, al più la gente si frequenta’’. Il tuo excursus nella lingua è anche un viaggio in quello che è lo strumento per eccellenza di avvicinamento e allontanamento nei rapporti tra gli esseri umani. Le relazioni, infatti, sono marcate dall’uso che si fa del linguaggio.

Bruno Osimo: Sì, certo, il protagonista ha una madre anaffettiva, e così, col tempo, impara a prendere quel che c’è della madre e a tradurlo. Invece di piangersi addosso per quella anaffettività, interpretandola, le dà un po’ alla volta cittadinanza nella propria vita, cercando il senso di quello che gli viene detto. Insomma, ‘Auguri e complimenti’ vuol dire ‘Ti amo’ in mammése o tampònico.

La biblioteca d’Israele: Tu scrivi: ‘’Il senso, che non è fatto di parole ma di pensieri.’’ E sei già verso la conclusione del libro, ma già all’inizio, quasi a disegnare una circolarità, dicevi anche ‘Il senso è anche indeterminatezza’, e questo è molto bello e vero. In definitiva noi tutti cerchiamo un senso definitivo nelle parole, una soluzione.

Bruno Osimo: Questa non è farina del mio sacco, lo ammetto. In queste parti sul senso e la traduzione cito senza citare degli autori che ho studiato e che ammiro. Non li ho citati in modo esplicito per non appesantire il tutto e mantenere quindi l’opera godibile. L’indeterminatezza della traduzione, tuttavia è essenziale, ed è di Quain, un filosofo del linguaggio americano degli anni ’60, e poi, altri concetti vengono da Wolff, Lotman e altri studiosi ancora.

La biblioteca d’Israele : Il senso morto, invece, è per te è quello dei dizionari e questo mi fa capire ancora meglio perché non hai usato la parola ‘Lemma’ al posto di ‘Voci’ per il titolo del tuo libro. Tu scrivi inoltre: ‘’I dizionari bilingui sono repertori di significati, ossia di cadaveri di senso. I dizionari sono obitori, e i lemmi celle mortuarie. Se i traduttori attingessero qui per il loro lavoro, produrrebbero opere putrefatte.’’ Questo illustra benissimo il lavoro del traduttore , o meglio, del bravo traduttore, quello che ha una affezione per il proprio lavoro. Mi spieghi questa affermazione?

Bruno Osimo: Anche questo è uno strascico polemico che mi viene dal mio lavoro di traduttore. Non dimentichiamo che il fondatore della semiotica affermò la necessità di inserire nell’analisi il c.d. interpretante, ovvero una entità mentale frapposta tra la parola e l’oggetto proprio per meglio chiarire il rapporto tra le parole e i pensieri. E l’affetto per me è senz’altro un interpretante. E non solo per me. Io sono convinto che quando si fa un discorso, esso passa prima di tutto attraverso l’affetto, ovvero attraverso un filtro molto personale e soggettivo. Pertanto,ci vorrebbe non solo un dizionario per ogni libro, ma per ogni capitolo di ogni libro. Le parole, infatti, non solo suonano diverse per ognuno di noi, ma per ogni libro che apriamo. La ridefinizione del senso delle parole è costante e continuo man mano che ci si avvicina ad opere diverse della letteratura, e la realtà, a sua volta, viene così ridefinita più e più volte nel corso della vita. Le parole, del resto, sono solo etichettine mobili e sfumate che si muovono in modo volatile nella nostra mente, e il traduttore prende contatto con loro pur sapendo che non potrà mai riuscire a fissare una lingua perfettamente sincronica con il lettore.

La biblioteca d’Israele : Parliamo di traduzione per mezzo della forma e, quindi, anche dello Yad Vashem. Tu scrivi: ‘’ Sì, lo so, la mente di un architetto ha inventato tutto questo, e quello che mi viene proposto qui è una traduzione, una traduzione razionale, e il fatto che produca su di me un effetto emozionale non significa né che sia vero né che sia spontaneo…. È questo l’unico posto in cui paradossalmente mi sento protetto, non nel fisico ma nell’identità, qui sono legittimo, non sono più clandestino, né come ebreo né come cittadino del mondo, qui ci sono i miei ‘documenti’. Posto che ci sono innumerevoli modi per tradurre la realtà, quello che colpisce di questo passaggio è che, attraverso il lavoro sulla forma di quell’architetto -traduttore del reale anche lui- tu sei riuscito, alla fine, a tradurre te stesso. Il tuo passato e il tuo presente. Me ne parli?

Bruno Osimo: Ho messo questo pezzo per evidenziare che la traduzione per quanto finga spontaneità e disinvoltura, è sempre una razionalizzazione della realtà.
La clandestinità di cui parlo nel libro derivava dal fatto che il mio avvicinamento alla scuola ebraica, da piccolo, non era avvenuta con una adeguata preparazione, per cui mi ero sempre sentito colpito da una sorta di estraneità. Il senso dell’essere ebreo pertanto, l’avevo trovato allo Yad Vashem. E lì ero riuscito anche a fare il punto su un passato familiare che non mi era mai stato compiutamente spiegato.

La biblioteca d’Israele : Il viaggio della tua famiglia per salvarsi, di cui parli nel libro, non ti fu mai veramente raccontato. Come sei riuscito a ricostruirlo?

Bruno Osimo: Mi hanno aiutato le memorie di zia Lucia e il diario di mia nonna Elena oltre ai racconti di mia madre. E’ così che ho ricostruito le cose. Mia madre, però, era sempre stata molto reticente. In qualche modo, nella vita della mia famiglia, si era messo un punto e si era andati avanti come se nulla fosse successo, ma invece qualcosa era successo. Eccome. In papése come dico nel libro, però, le parole per raccontare tutto questo non c’erano. Se ci pensi, ci sono stati tantissimi uomini e donne che, prima di riuscire a dire qualcosa rispetto al proprio vissuto di quegli anni, hanno dovuto lasciar passare tanto tempo. Levi ci è riuscito in tempi brevi, ma non per tutti è stato così. Alla fine, è un problema di elaborazione del proprio vissuto e delle cose. Ci sono persone che cercano e trovano gli strumenti per farlo, e chi, invece, non lo fa o pur provandoci, non riesce a dare cittadinanza alla vita dentro alle proprie parole. Per me un intellettuale non è chi ha i titoli di studio, le lauree, ma chi compie questa operazione. La più

 

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