Una pattuglia delle forze di sicurezza egiziane nel Sinai: dopo il massacro di 16 guardie di frontiera da parte di un gruppo salafita il governo ha mandato rinforzi

Al confine dove passano le merci trafugate: alle guardie basta una
bustarella

La Stampa 10/08/2012 – REPORTAGE

IBRAHIM REFAT
DAHAB (EGITTO)
Il pesce comincia a marcire dalla testa», dice un proverbio non solo egiziano. Nella penisola del Sinai sta succedendo il contrario. Qui il declino è cominciato in una periferia abbandonata da uno Stato troppo centralizzato e autoritario.

La penisola, una delle regioni più belle dell’Egitto, da paradiso turistico è diventato roccaforte dei neo jihadisti, una vasta terra di nessuno, che il nuovo Egitto, uscito dalla sua «primavera araba» del 2011, non riesce a gestire. Le avvisaglie, in realtà, si potevano cogliere già al tempo di Mubarak, con gli attentati di Taba nel 2004, di Sharm el-Sheikh, nel 2005, e di Dahab, nel 2006. Attacchi messi a segno da diversi gruppi terroristici: un centinaio di morti, uno choc per il regime del vecchio raìs, che rispose con il pugno di ferro. Non meno di quattromila persone furono arrestate e torturate dagli apparati di sicurezza. Il risultato fu di allargare il divario tra Il Cairo e gli abitanti del Sinai, tra gli «effendi» (i burocrati) venuti dalla Valle del Nilo per amministrare (e saccheggiare) queste terre di beduini. Un fossato fra centro e periferia.

I beduini vivono ancora in società tribali, dominate da culture arcaiche. I dati sono impietosi: nel Sinai centrale si vive con 300 dollari pro capite l’anno, contro una media nazionale di 1400. Quelli che abitano lungo la costa del Mar Rosso, nel

Sud del Sinai, bene o male, hanno un tenore di vita più decoroso grazie al turismo, all’espansione negli Anni Novanta di resort come Sharm elSheikh, Dahab, Nuweiba, Taba. Anche se la fetta maggiore del boom la mettono in saccoccia gli investitori venuti dalla valle del Nilo, quelli che i beduini chiamano i «masrin» (gli egiziani), perché loro orgogliosamente rifiutano di chiamarsi tali.

A parte la costruzione di alberghi di lusso per i turisti, il governo investe poco o nulla nel resto della Penisola. Un solo cementificio e nessuna miniera. I sindaci, o meglio i «podestà», dal momento che non vengono eletti, sono in prevalenza ex ufficiali dell’esercito, per non parlare dei governatori, nominati dal capo dello Stato.

Un ex colonnello sindaco ci confida in privato la sua ricetta per cambiare la mentalità dei suoi cittadini beduini: «Bisognava spedire i più giovani nei collegi militari». Dei posti di lavoro nel turismo ai locali non vanno nemmeno le briciole, e lo stesso vale per gli impieghi più umili, come il bidello o l’usciere. I concorsi sono riservati a quelli che vengono dal Wadi, cioè dalla valle del Nilo. In compenso la pressione demografica è formidabile. Oltre quattro figli per ogni donna sposata.

Di fronte a uno Stato latitante, molti beduini intraprendono la strada del crimine: traffico di uomini, di armi, di droga. Alcuni si mettono al servizio dei terroristi. Aiutati dalla loro perfetta conoscenza del terreno, degli anfratti inaccessibili nelle montagne, riescono a avere la meglio sui «piedi piatti» venuti dal Cairo. Un imprenditore sequestrato nei pressi di Santa Caterina racconta di aver visto bande armate appostate sulle cime delle colline con bazooka e kalashnikov.

Per quietare le tribù l’Egitto di Mubarak pagava una sorta di obolo agli anziani sheikh, in cambio i capiclan controllavano le «pecore nere» per conto del potere. Ma gli sheikh sono sempre più screditati agli occhi dei giovani, specie di quelli che hanno studiato un po’ o hanno avuto contatti con il mondo esterno. Nelle zone di non facile accesso alle aree turistiche, come nel centro della penisola e nel Nord, ci sono soltanto due strade per uscire dalla miseria: il crimine organizzato (traffico di droga e di armi e contrabbando) o l’integralismo islamico. La vicinanza di Gaza ha aiutato la nascita delle prime organizzazioni jihadiste a El-Arish. I giovani indottrinati dai salafiti dell’enclave hanno messo a segno gli attentati nei resort affollati di stranieri nel Sud della penisola, e in seguito hanno compiuto lanci di razzi contro Eilat e Aqaba, dal versante egiziano.

Spesso sono stati aiutati dallo scarso addestramento degli agenti che presidiano i check-point. Come i sedici falciati domenica scorsa dai killer mentre consumavano l’Iftar, il pasto tradizionale con cui si rompe il digiuno alla sera, nel mese del Ramadan.

La strada del contrabbando passa per i tunnel sotterranei sotto la città di Rafah, cresciuti dopo l’assedio di Gaza da alcune decine a 1200. Un’industria fiorente che ha fatto nascere una nuova classe ad El-Arish e nei dintorni, e così pure a Gaza dove il governo di Hamas riscuote una sorta di dazio sulla merce clandestina.

Infuriato per la strage dei suoi soldati, il governo del Cairo ha ora spedito i bulldozer per radere al suolo tutte le 1200 gallerie. Per farlo dovrebbero abbattere metà di Rafah: i tunnel sbucano sotto le case lungo un fronte di ben sette chilometri. Poco distante, a Shiekh Zuwaid,i camion sostano in attesa di scaricare di notte il loro carico. «Farina, mucche, benzina, automobili, fucili, missili, medicine, droga», racconta un palestinese.

Le guardie di frontiera si girano dall’altra parte in cambio di bustarelle. Le autorità del governatorato fanno finta di nulla: «Tutto in ordine» scriveva l’ex governatore Mabrouk (licenziato mercoledì), mentre i militari danno la colpa del caos nel Sinai al trattato di Camp David con Israele, che impone la smilitarizzazione della penisola. In realtà la colpa è dell’anarchia e del caos in cui è piombato l’Egitto dopo la rivoluzione, e della lotta intestina fra le fazioni adesso al potere. E nel Sud del Sinai, come se non bastassero i sequestri lampo dei turisti, scarseggia pure la benzina.

 

lastampa.it

 

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