Prima la linea sovietica e l’antifascismo impongono il sostegno al nascente Stato ebraico, poi il Pci è diventato tifoso dei paesi arabi.

È un tema minore ma c’è anche questo nella sfida delle primarie: la sinistra e Israele. La sinistra e gli ebrei. Un rapporto tormentato che ha attraversato tutto il Novecento, arrivando con i suoi rivoli a questa sfida, e alle (molto) diverse posizioni che, nel giro di pochi giorni – per via della crisi di Gaza – hanno dovuto prendere Pierluigi Bersani, Matteo Renzi e Nichi Vendola.

Nel Pd, come al solito, abbondano ambiguità e «discussioni». Linee diverse, frutto di questa storia. La storia, prima di tutto, del Pci. I comunisti italiani non sono sempre stati anti-israeliani. Tutt’altro. Il Pci era dalla parte di Israele quando lo Stato ebraico nacque. Quando nel ’46 dalla Liguria partì la nave «Enzo Sereni» piena di israeliti diretti in Palestina, c’era un gruppo di ex partigiani rossi a vigilare sull’imbarco. Determinante in quella fase fu la linea sovietica filo-israeliana, oltre alla militanza nella sinistra italiana di tanti ebrei (antifascisti o addirittura sopravvissuti all’Olocausto). Un nome per tutti, quello di Umberto Terracini, che fu presidente della Assemblea costituente.

Determinante fu la suggestione esercitata dall’esperimento socialista dei kibbutz, cuore del sionismo. E filo-israeliano era anche il Psi, oltre ai partiti laici (repubblicani e radicali su tutti). Pietro Nenni lo rimase (ma Bettino Craxi era filoarabo). Tutta questa storia è stata ricostruita dallo storico Matteo Di Figlia. Il Pci subì una svolta, influenzata nei dall’ossessione antisemita di Stalin negli anni immediatamente successivi alla guerra (pochi anni dopo il riconoscimento dello Stato israeliano, cui pure per ragioni geopolitiche l’Urss aveva contribuito come pochi altri). Un solco profondissimo e definitivo si aprì poi con la «Guerra dei sei giorni». Una fase di drammatiche spaccature – le ha evidenziate Paolo Mieli sul “Corriere” – basti pensare al discorso con cui Bruno Zevi, grande architetto azionista e poi radicale, al ghetto di Roma additò il voltafaccia sovietico e gli imbarazzi del Pci. O alla vicenda del direttore del quotidiano filocomunista «Paese Sera», Fausto Coen, costretto a dimettersi perché filo-israeliano. Questa ferita, approfondita dal massacro di Sabra e Chatila, si rimarginò faticosamente, e in parte, solo grazie all’opera di Piero Fassino (assecondata da Achille Occhetto) e della «Sinistra per Israele», in qualche modo inaugurata sulla «Voce repubblicana» invece che sull’Unità.

È proprio presentando pochi giorni fa il libro di Di Figlia – insieme fra gli altri al presidente della Comunità ebraica di Roma, Riccardo Pacifici – che il segretario del Pd, Pierluigi Bersani ha ripercorso questa storia, pronunciando anche una sorta di piccola «autocritica» – un classico nella storia comunista. Bersani ha riconosciuto che la «tendenza antisemita» sovietica fu «elemento di involuzione nella pratica della sinistra in Europa e in Italia», anche se ha portato come attenuante la tendenza filo-araba di tutta la politica italiana, dettata da ragioni geopolitiche (energetiche soprattutto). E ha riconosciuto il «meccanismo psicologico» che ha indotto a guardare più al «popolo umiliato» (i palestinesi) rispetto al «popolo insicuro» (Israele), definendolo un «antico istinto che va corretto e sorvegliato». Dopo aver ripercorso questo passaggio, accennando alla politica terzomondista della sinistra massimalista, Bersani ha spiegato, con qualche imbarazzo e – come nel suo stile – con pragmatismo, qual è la posizione sua (e quale sarebbe quella del suo eventuale governo): «Nessuno nega sicurezza, confini, diritto all’autodifesa» ha scandito richiamando però anche la «proporzionalità» di questa autodifesa. «E nessuno negherebbe diritto ad avere uno Stato, senza pensare di usare la forza» – ha aggiunto riferendosi ai palestinesi. Ma il grande sponsor di Bersani è quel Massimo D’Alema che incredibilmente da ministro degli Esteri passeggiò sottobraccio con un deputato hezbollah a Beirut.

Una posizione controversa, dunque, quella del Pd, piena di dubbi, di piccoli passi avanti e grandi contraddizioni. E la svolta al segretario l’ha suggerita proprio Pacifici: non più «Due popoli due Stati» ma «Due Stati due democrazie». Lo stesso Pacifici che pochi giorni fa ha smascherato la linea unilaterale e «faziosa» di Vendola: «Le sue dichiarazioni – ha detto – ripropongono lo schema di una sinistra che riporta le lancette indietro di almeno 20 anni».

Fuori dalle ambiguità e non ripiegata su tic e riflessi del passato è sembrata invece la linea di Matteo Renzi, che ha telefonato, parlando da «Amico di Israele», alla maratona oratoria «Per la verità, per Israele» organizzata dalla deputata Fiamma Nirenstein (Pdl) con «Roma Summit». E in tv ha detto chiaramente cosa pensa: «La sinistra italiana deve abituarsi a ridire che Israele ha il diritto di esistere, perché troppo spesso c’è stato un atteggiamento della sinistra anti-israeliano inconcepibile e insopportabile». Ricordando che «Israele è un paese che è circondato da realtà che vogliono la sua distruzione, a partire dall’Iran». Una linea da approfondire ma molto chiara e legata alla tradizione della sinistra migliore: liberaldemocratica e moderna.

Da:IlGiornale
 

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