di Daniel Pipes
The Dorchester Review
Primavera/Estate 2012
it.danielpipes.org

Pezzo in lingua originale inglese: Israel at Peace
Chi si preoccupa della sicurezza e del benessere dello Stato ebraico continua a porsi domande del tipo: “Israele è condannato?” e Israele sopravvivrà? Anche un libro è stato intitolato L’ultimo grande Stato d’Israele. Questa malinconia deriva da un’unica raffica di pericoli che lo Stato ebraico si trova a dover affrontare. Questi pericoli includono le armi di distruzione di massa, le armi convenzionali e il terrorismo; l’embargo economico, la sfida demografica e la delegittimazione politica. Nessun paese al momento – e forse nemmeno in tutta la sua storia – deve fronteggiare una simile gamma d’insidie dalla violenza di massa (le bombe nucleari iraniane) al sabotaggio intellettuale (relativo ai docenti d’inglese).

Per inciso, minacciare la stessa esistenza di un paese è una caratteristica tipica della politica moderna del Medio Oriente che raramente si ravvisa nel mondo: altri esempi includono il Kuwait (che, di fatto, è stato inghiottito dall’Iraq per sei mesi nel 1990-199), il Bahrein (sotto la minaccia intermittente degli imperialisti iraniani), la Giordania (vista come una illegittima creazione imperiale britannica), il Libano (guardato con bramosia dai siriani) e Cipro (invasa dall’esercito turco nel 1974 e di recente minacciata di nuovo).

Israele sopravvivrà


Uno dei numerosi libri che s’interrogano sulla vitalità a lungo termine di Israele.
Torniamo a Israele: sono ottimista che riuscirà a sopravvivere. Sono svariate le ragioni che mi portano a questa conclusione.

Innanzitutto, Israele è forte. Il Paese è caratterizzato dal valore militare, dalle capacità nel settore dell’alta tecnologia, da una forte economia, da un fiorente settore dell’energia, da una robusta crescita demografica e da una creatività culturale. Col passare del tempo, esso diventa sempre più potente dei suoi nemici.

In secondo luogo, gli israeliani mostrano una disponibilità al compromesso che è senza precedenti. Il fatto di aver dovuto restituire all’Egitto per ben tre volte la Penisola del Sinai (nel 1949, 1957 e nel 1982) non ha equivalenti nella storia della guerra e della diplomazia. Quasi tutti i territori che gli israeliani conquistarono nel 1967, ad eccezione della storica Gerusalemme, sono stati oggetto di discussioni già dalla settimana successiva alla loro presa di possesso. Nella storia della guerra e dei negoziati, nessun vincitore ha mostrato una sollecitudine paragonabile a quella d’Israele a fare “concessioni dolorose” per raggiungere un accordo; quale altro leader ha dichiarato, come ha fatto Ehud Olmert prima e durante il suo premierato, che “Siamo stanchi di combattere, stanchi di essere coraggiosi, stanchi di vincere, stanchi di sconfiggere i nostri nemici” e che “la pace si ottiene con le concessioni”?

In terzo luogo, nessuno stato di ostilità va avanti all’infinito. Le circostanze cambiano, nuovi nemici appaiono, i vecchi rancori si dissipano, la forza di volontà svanisce. Anche i conflitti più lunghi e duraturi finiscono per risolversi. La Francia e la Gran Bretagna si sono combattute per oltre sette secoli prima di siglare una “Intesa amichevole” nel 1904, alleandosi di fronte a un nemico tedesco emergente e continuando a essere da allora delle alleate fedeli (anche se irascibili). Anche il conflitto arabo-israeliano, nato un secolo fa, non continuerà in eterno.

Ci si deve chiedere per quanto tempo ancora i palestinesi e i loro sostenitori possono perseguire il loro obiettivo di eliminare Israele. Se la generazione di rifugiati del 1948 è morta, i loro figli, nipoti, pronipoti e la loro progenie continueranno a sognare un futuro a Jaffa o a Haifa piuttosto che restare a vivere là dove ora sono? Per quanto tempo essi potranno dedicare la loro vita a un irredentismo sempre più distante?
Uno dei numerosi libri che s’interrogano sulla vitalità a lungo termine di Israele.
In quarto luogo, i palestinesi capiranno che la cieca dedizione alle ideologie estremiste e rigide condurrà a un vicolo cieco. Questo processo è già cominciato. Ad esempio, le interviste ai vecchi leader palestinesi estremisti – Nayef Hawatmeh, Ahmed Jibril, Leila Khaled e Mohammed Oudeh – mostrano come lo scorrere del tempo abbia cambiato le loro prospettive, portandoli a riconoscere gli errori fondamentali. Hawatmeh, leader del Fronte democratico per la liberazione della Palestina, osserva che “dopo sessant’anni, ci battiamo per quello che avremmo potuto avere nel 1947. Abbiamo perso numerose opportunità storiche”. Oudeh, il pianificatore dell’attacco dei Giochi olimpici del 1972 in cui rimasero uccisi 11 atleti israeliani, dice che “forse, ma solo forse, avremmo dovuto mostrare una certa flessibilità. All’epoca, era ‘l’insieme della Palestina o niente’. Ma avremmo dovuto accettare uno Stato palestinese accanto a Israele”.

Hawatmeh e gli altri hanno promosso un programma nazionalista che il tempo ha reso obsoleto e che ora suscita poco interesse. La stessa cosa, senza dubbio, accadrà all’ideologia favorita di oggi; ma per quanto forti siano, le forze islamiste di Hamas, la Jihad islamica palestinese e Hezbollah perderanno un giorno la loro vitalità e i loro vecchi leader esprimeranno un analogo rimorso in merito alle occasioni perse.

Pertanto, sì, è vero, il conflitto avrà fine.

La pace davanti a noi

Inoltre, mi aspetto che ci sarà pace tra lo Stato ebraico e i suoi vicini. Ecco qualche previsione specifica:
La “pace” è un concetto sottile, che non è adatto per degli slogan.
Che tipo di pace? Come osserva Martin Sherman, la parola “pace” contiene in sé due significati distinti – uno riguarda le relazioni tra due ordinamenti politici democratici, l’altro tra uno o più entità politiche non-democratiche. Il primo significato si riferisce a ciò che Sherman definisce “una condizione di reciproca armonia tra Stati, mantenuta grazie al fatto che tutte le parti prediligono preservare uno status quo non-violento. (…) Non solo le differenze sono stabilite in modo non-violento, ma l’uso della forza è praticamente inconcepibile”. Gli Stati Uniti e il Canada sono un esempio di questa relazione.

Il secondo significato si riferisce a “un’assenza di guerra grazie alla deterrenza. In questo caso, solo la minaccia di costi esorbitanti dissuade una o entrambe le parti dalla violenza. (…) Non c’è nessuna interazione armoniosa tra le popolazioni dei vari Stati. La circolazione attraverso le frontiere tende a essere assai limitata, severamente disciplinata e spesso totalmente vietata”. Gli Stati Uniti e l’Unione Sovietica sono un esempio di questa relazione.

Israele è una vera e propria democrazia, ma non è così per nessuno dei suoi vicini, né questi vicini stanno per diventare democratici, nonostante gli sconvolgimenti dello scorso anno. Pertanto, la pace fra le due parti potrebbe avere a lungo una natura dissuasiva, essendo la pace armata di deterrenza con limitati contatti umani. Non è l’ideale, ma essa persisterà finché non avranno luogo dei profondi cambiamenti nei Paesi arabofoni e una pace democratica potrà alla fine entrare in vigore.

Come? Prima che fosse realmente firmato un trattato di pace tra l’Egitto e Israele, nel 1979, si ipotizzava che questo avrebbe condotto a una fine generale del conflitto perché l’Egitto è il nemico più forte di Israele. Questa valutazione si rivelò errata perché la firma di un autocrate militare (Anwar Sadat) convinse pochi altri. Per molto tempo, negli anni Ottanta, mi sono concentrato sul governo siriano, affermando che “Il conflitto andrà avanti finché la Siria non seguirà altri tre Paesi vicini di Israele e non si rassegnerà all’esistenza dello Stato ebraico; una volta che ciò accadrà, lo scontro terminerà rapidamente”. Anche questo si è dimostrato falso, perché Damasco trova poca fedeltà tra gli islamisti, i docenti d’inglese o i membri delle Nazioni Unite. Invece, i palestinesi della Cisgiordania e di Gaza sono la chiave. Quando essi si stancheranno del conflitto, quest’ultimo terminerà.

Quando? Il conflitto andrà avanti per quasi un’altra generazione e potrà essere risolto intorno al 2030. Questa stima si basa sulla valutazione che il conflitto era maturo per la pace vent’anni fa, all’indomani della guerra del Kuwait e del crollo sovietico, ma la pace non si raggiunse a causa di una combinazione d’ingenuità israeliana e falsità palestinese. Solamente ora, dopo una lunga e dolorosa deviazione, gli israeliani hanno cominciato a comprendere gli errori della diplomazia che hanno commesso negli accordi di Oslo e gli sforzi successivi. Da ora, potrebbero passare una ventina d’anni per tracciare l’opportuno cammino che conduca una svolta.
La stretta di mano di Oslo che non ha portato a nulla, il 13 settembre 1993: (da sinistra a destra) Yitzhak Rabin, Bill Clinton, Yasser Arafat.

Chi vincerà? Il processo di Oslo del 1993-2000 ha mostrato che il compromesso non è, di fatto, una soluzione. Come nella maggior parte dei conflitti, la fine delle ostilità richiede che una parte perda e l’altra vinca. La guerra terminerà quando gli arabi accetteranno lo Stato ebraico sovrano o quando gli israeliani rinunceranno al progetto sionista. Questo alla fine si ridurrà alla cruda questione di quale parte piegherà per prima la volontà dell’altra. Le alternative sono semplici e duplici; i tentativi di mitigazione non fanno che procrastinare una risoluzione.

Spero che vincerà Israele, perché una vittoria palestinese avrebbe un esito doppiamente indesiderabile: la distruzione di un Paese moderno liberale e che esso possa essere rimpiazzato da uno Stato islamista dominato da Hamas. Una vittoria israeliana, al contrario, distruggerebbe l’estremismo e libererebbe realmente i palestinesi dalla loro situazione attuale. Solo quando i palestinesi rinunceranno al loro sogno antisionista di distruzione che saranno in grado di investire i loro sforzi nella creazione di una politica, di un’economia, di una società e di una cultura che riscuotono interesse. È solo quando i palestinesi rinunceranno alla distruzione che potranno costruire.

Ognuno di noi deve fare la sua parte per assicurarsi che il conflitto termini con un esito positivo.

 

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