Testata:La Stampa – Corriere della Sera – L’Unità Autore: Aldo Baquis – Davide Frattini – Francesca Paci – Umberto De Giovannangeli Titolo: «Netanyahu crolla: ‘Coalizione ampia’ – Sorpresa in Israele. Arretra la destra. Exploit dei centristi – Fra i coloni dei territori: per noi nessuno è abbastanza falco – La star tv e l’imprenditore ultrà, premiati i volti nuovi della politica – Pace impossi»  //*IC*

Riportiamo dalla STAMPA di oggi, 23/01/2013, a pag. 1-31, l’editoriale di Maurizio Molinari dal titolo “Il rischio delle maggioranze precarie “,  a pag. 4, la cronaca di Aldo Baquis dal titolo ” Netanyahu crolla: ‘Coalizione ampia’ “, a pag. 5, gli articoli di Francesca Paci titolati ” Fra i coloni dei territori: per noi nessuno è abbastanza falco ” e ” La star tv e l’imprenditore ultrà, premiati i volti nuovi della politica “, preceduti dal nostro commento. Dal CORRIERE della SERA, a pag. 12, la cronaca di Davide Frattini dal titolo ” Sorpresa in Israele. Arretra la destra. Exploit dei centristi “. Dall’UNITA’, a pag. 13, l’intervista di Umberto De Giovannangeli a Sari Nusseibeh dal titolo ” Pace impossibile se si rimuove il nodo palestinese “, preceduta dal nostro commento.

Il Manifesto di questa mattina si è distinto per la titolazione ‘creativa’. Secondo la redazione del quotidiano comunista, infatti, ‘Netanyahu perde le elezioni’. Così, almeno, recita il titolo della cronaca di Emma Mancini. Il Likud è stato il partito più votato. Il fatto che abbia ottenuto meno voti del previsto, non significa che Netanyahu abbia ‘perso’, ma solo che dovrà pensare a una coalizione più ampia.

La Repubblica continua con la sua linea ostile a Netanyahu. Nelle due pagine dedicate alle elezioni, i titoli recitano “Sorpresa nelle urne, Netanyahu perde voti ma annuncia: ho vinto”, “Il bello della tv e l’idolo dei coloni. Lapid e Bennett aghi della bilancia “, “Intervista a Eran Riklis – ‘Ci svegliamo da un lungo letargo è ora di pensare ai problemi veri’ “. Netanyahu ha vinto le elezioni in quanto il suo partito è stato quello che ha ricevuto più voti, quindi non è ben chiaro da dove derivi lo stupore di Repubblica. Lapid sarebbe semplicemente il ‘bello della tv’ ? Gli israeliani, insomma, hanno votato male. Hanno scelto o il tremendo Netanyahu, o l’idolo dei coloni Bennett (peggio ancora?) o solo una bella faccia vista in tv ? Come l’Unità, Repubblica punta sulla questione palestinese. Per quale motivo tutto ciò che riguarda Israele deve anche c’entrare con i palestinesi ?

Anche La STAMPA titola in maniera scorretta contraddicendo il pezzo di Aldo Baquis “Netanyahu crolla: ‘Coalizione ampia’  “, Netanyahu non è crollato. Ha avuto meno seggi, cosa per altro prevista, ma sarai lui il premier designato a formare il governo. Ecco i pezzi:

La STAMPA – Maurizio Molinari : “Il rischio delle maggioranze precarie”

Maurizio Molinari            i nomi dei vari partiti israeliani

Le elezioni per la XIX Knesset scongelano la politica israeliana, rendono possibili più maggioranze, fanno emergere nuovi leader e aggiungono l’incognita di quale sarà il nuovo governo di Gerusalemme in un Medio Oriente già in profonda trasformazione.
Il premier uscente, Benjamin Netanyahu, cercava una forte affermazione del suo Likud e per raggiungerla aveva puntato sulla fusione con l’alleato «Israel Beyteinu» di Avigdor Lieberman ma l’alta affluenza alle urne ha generato tutt’altro scenario: deve accontentarsi di una maggioranza relativa di seggi assai modesta che lo obbliga a intraprendere difficili negoziati per raggiungere l’obiettivo dei 61 seggi che implicano la maggioranza. Ad evidenziare tale difficoltà è il testa a testa notturno fra il blocco della destra e quello composto da sinistra e partiti arabi per decidere chi avrà, nel complesso, più seggi.
Se Netanyahu deve fare i conti con un risultato ben al di sotto delle attese, i tre nuovi leader della Knesset sono personaggi ancora poco noti in Occidente dei quali sentiremo parlare molto nelle prossime settimane, le cui posizioni innovano le tradizionali identità di destra, centro e sinistra in Israele. A destra, l’imprenditore dell’hi-tech e veterano delle truppe speciali Naftali Bennett, figlio di immigrati californiani, è divenuto con il suo «Ha Bayt HaYehudì» interprete di una destra giovane, religiosa e anche laica favorevole all’estensione degli insediamenti in Giudea e Samaria, senza remore nel dirsi contraria alla soluzione del conflitto israelopalestinese con la creazione dei due Stati. Al centro l’ex giornalista Yair Lapid, che nell’esercito fece il meccanico, è stato capace con l’«Yesh Atid» di dare voce all’animo laico di una nazione che si oppone alla crescente influenza dei partiti ortodossi creando dal nulla il secondo partito. A sinistra Shelly Yachimovich, la giovane e combattiva leader dei laburisti, è stata protagonista di una campagna elettorale all’insegna della richiesta di un Welfare State più robusto in una nazione dove il pil cresce al ritmo del 2,5 per cento l’anno, lasciando in secondo piano il tradizionale impegno del partito a favore della pace con i palestinesi. Sulla carta tutto può avvenire: Netanyahu può guidare un governo delle destre oppure di coalizione così come può scivolare sulle delicate trattative che iniziano.
Di certo sarà obbligato a fare concessioni, prendendo atto che lo Stato Ebraico, a oltre 64 anni dalla fondazione, è una democrazia talmente vivace da continuare a rimettere in discussione e reinventare le proprie forze politiche. Ed è interessante notare il parallelo fra quanto avviene in Israele e nella maggioranza dei Paesi arabi che la circondano: tanto l’una che gli altri sono in profonda trasformazione, anche se in un caso grazie alle elezioni e negli altri passando per guerre civili e colpi di Stato.
La conseguenza per il presidente americano Barack Obama, intenzionato a sfruttare il secondo mandato per arrivare alla composizione del contenzioso israelo-palestinese, è di avere un’incognita in più sulla mappa del Medio Oriente. Per la Casa Bianca l’aspetto positivo di tale scenario è l’indebolimento di un premier come Netanyahu nel quale non nutre fiducia ma ce n’è anche uno negativo perché i governi israeliani retti da maggioranze precarie hanno più difficoltà a compiere sacrifici negoziali. Non si può tuttavia escludere che proprio lo scongelamento degli equilibri politici a Gerusalemme spinga Obama ad accelerare la visita in Israele. Per comprendere da vicino quali opportunità si aprono.

La STAMPA – Aldo Baquis : ” Netanyahu crolla: ‘Coalizione ampia’ “

Bibi Netanyahu

Al termine di una giornata drammatica, Benjamin Netanyahu è riuscito a strappare una vittoria risicata alla guida della lista Likud-Beitenu. Ma il vero vincitore delle elezioni legislative israeliane risulta essere Yair Lapid, il leader dell’esordiente partito centrista Yesh Atid (C’è un futuro).
Secondo gli exit-poll di tre reti televisive, Netanyahu disporrà alla Knesset di appena 31 seggi su 120. Per lui costruire una maggioranza stabile di almeno 61 deputati sarà un vero incubo, vista la grande frammentazione del Parlamento. «È chiaro che gli israeliani hanno voluto me come premier, con un governo di coalizione che sia la più ampia possibile», ha commentato i risultati degli exit poll.
A scombinare le carte è stata l’alta percentuale di voto, la più elevata degli ultimi 15 anni. In questa partecipazione di massa alcuni analisti vedono già l’onda lunga delle proteste degli «indignati» che si sono riversati nelle strade di Israele nell’estate del 2011, invocando maggiore giustizia sociale. Il partito laburista, che ha incluso fra i candidati esponenti di quella protesta, è balzato da 8 seggi nella Knesset precedente, eletta nel 2009, a 17 deputati.
Lo stesso Lapid (che negli exit poll riceve 19 seggi) incarna il desiderio di cambiamento della classe media: in particolare la richiesta che gli strati religiosi ortodossi diano un maggiore contributo alla Nazione: sia nel servizio militare, sia nell’ingresso nel mondo del lavoro. Hanno avuto peso anche le rivendicazioni sociali, dal problema della carenza di abitazioni alla scuola.
Nelle ultime ore di voto, il Likud si è visto costretto ad indire una riunione di emergenza nel timore che i partiti di centro sinistra riuscissero ad aggiudicarsi 61 seggi alla Knesset. «Sono state ore drammatiche», ha affermato la leader laburista Shelly Yachimovic. «Lasciate tutto, andate a votare, il Likud sta per perdere il governo», ha scritto Netanyahu sulla propria pagina Facebook.
Con l’inizio dello spoglio delle urne, Netanyahu sembrava tecnicamente ancora in grado di comporre un nuovo governo, con il possibile appoggio di Lapid. Se così fosse, molte previsioni della vigilia dovrebbero essere riviste: invece che spostarsi più a destra, l’asse politico del nuovo governo potrebbe essere maggiormente centrista e maggiormente laico. Una sorpresa generale: in primo luogo per lo stesso Netanyahu che – alleandosi con Israel Beitenu di Avigdor Lieberman alcuni mesi fa – sperava di conquistare almeno un terzo della Knesset e che adesso si trova invece costretto a mendicare aiuti anche a formazioni minori. Incalzato da Bait Yehudi, la nuova destra di Naftali Bennett che vince 12 seggi.
Kadima, il partito centrista che aveva vinto le elezioni precedenti con 28 seggi, non entra nemmeno in Parlamento. La sua fondatrice, Tzipi Livni, con la sua nuova lista NaTnua guadagna 7 seggi. Restano praticamente immutati il partito religioso Shas (11 seggi), i comunisti di Hadash (3) e la lista araba Balad (2).

CORRIERE della SERA – Davide Frattini : ” Sorpresa in Israele. Arretra la destra. Exploit dei centristi “

 

GERUSALEMME — A metà pomeriggio Benjamin Netanyahu comincia a sudare e scrive un messaggio a penna che diffonde via Facebook (in foto): «Mollate tutto e uscite a votare adesso». L’affluenza delle prime ore è la più alta dal 1999, quando Bibi aveva perso contro il laburista Ehud Barak. Non un buon presagio per il primo ministro. Che alla fine si ritrova — almeno secondo le proiezioni — con un partito rimpicciolito, malgrado l’alleanza elettorale del Likud con l’ultranazionalista Avigdor Lieberman: insieme avrebbero perso 11 seggi, restano sopra i 30. «Abbiamo vinto, ringrazio gli elettori» si affretta a esultare e ripete che «la prima sfida è impedire l’atomica iraniana». Le ironie su Internet («non ha un diploma e vuole diventare ministro dell’Educazione») non intaccano la popolarità televisiva di Yair Lapid. Come il padre Tommy prima di lui, è la sorpresa di queste elezioni, conquisterebbe il secondo posto e può essere il sostegno che serve a Netanyahu per formare una coalizione meno oltranzista da presentare al mondo e soprattutto al presidente americano Barack Obama. Il premier gli ha già telefonato: «Io e te possiamo fare grandi cose per Israele, c’è bisogno di un governo il più largo possibile». Con pochi slogan non ideologici il suo Yesh Atid (C’è un futuro) ha convinto la classe media, il 20 per cento di giovani e donne indecisi fino all’ultimo: quelli che fanno il servizio militare e vogliono che lo facciano tutti (compresi gli ultraortodossi), quelli che pensano di essere i soli a pagare le tasse e non si preoccupano troppo di che cosa succeda in Cisgiordania. «Netanyahu colpiva gli avversari alla sua destra, mentre Lapid gli portava via i voti al centro», scrive su twitter Aluf Benn, direttore del quotidiano Haaretz. «Queste elezioni sono ancora influenzate dalle proteste sociali di due anni fa», commenta Amir Mizroch, direttore dell’edizione inglese del giornale Yisrael Hayom. Durante la campagna elettorale Shelly Yachimovich, l’ex giornalista tv diventata leader dei laburisti, ha parlato poco dei palestinesi e molto dei prezzi delle case. Avrebbe guadagnato il terzo posto e Meretz, ancora più a sinistra, avrebbe raddoppiato i seggi. Tzipi Livni non ottiene con il Movimento il risultato sperato, ma Kadima — che aveva fondato assieme ad Ariel Sharon e poi abbandonato — stenta a superare la soglia per entrare in parlamento. Naftali Bennett vota al mattino presto nel sobborgo benestante di Raanana, esce dal seggio e intona Hatikva, l’inno nazionale (da giovane ha scritto le parole militaresche per quello della sua unità speciale, il Maglan). Milionario hi-tech che indossa la kippah all’uncinetto dei sionisti religiosi e dei coloni, paragona la chiusura dei seggi alla Neilah, la preghiera che conclude lo Yom Kippur e «ti fa capire se hai davanti un anno buono o cattivo». Le proiezioni promettono al suo Focolare Ebraico meno di quel che si aspettava: 12 seggi. Se la forza di Netanyahu — quella sbandierata dal suo slogan elettorale — sembra venire ridimensionata, resta l’impronta politica che sta lasciando sul Paese da quando è stato nominato per la prima volta alla guida del Likud nel 1993. Dalla sua squadra sono usciti in questi vent’anni (dopo aver litigato con lui e la moglie Sara) tre fedeli assistenti che hanno fondato partiti significativi. Lieberman (suo capo di gabinetto durante il primo mandato) ha creato Yisrael Beitenu fino a diventare ministro degli Esteri di nuovo sotto Bibi, Naftali Bennett e Ayelet Shaked si sono spostati a destra, dopo aver aiutato Netanyahu a far riemergere il Likud. Rappresentano i commilitoni più probabili del suo terzo giro da premier. Le trattative sono già cominciate ma tocca al presidente Shimon Peres decidere chi riceverà l’incarico.

La STAMPA – Francesca Paci : ” Fra i coloni dei territori: per noi nessuno è abbastanza falco “

    Uno dei bambini sgozzati a Itamar.

I due articoli di Francesca Paci più che cronache delle elezioni sembrano bollettini dettati da un attivista anti israeliano. E’ sufficiente leggere le prime righe per comprendere l’antipatia che Paci nutre per i politici israeliani più votati. Paci è andata a Itamar, resa tristemente famosa dal massacro della famiglia Fogel per mano di due terroristi palestinesi. Nemmeno la bambina di pochi mesi era stata risparmiata. Tutti sgozzati. Paci descrive l’accaduto con queste parole asettiche : “Itamar, la trentennale colonia arroccata su un’altura a 5 km da Nablus nota per il massacro del marzo 2011, quando due palestinesi del vicino villaggio di Awarta uccisero i coniugi Fogel e i loro tre bambini“. A leggere gli articoli di Paci, sembra che tutto l’elettorato israeliano sia composto di coloni oltranzisti (‘ultrà’, stando alla titolazione di uno dei due articoli), di estrema destra, legati agli ultraortodossi, fanno un sacco di figli, sognano la Grande Israele. Non è così. Gli ultraortodossi sono una minoranza, come i coloni oltranzisti. La questione palestinese non ha suscitato l’interesse che i giornali italiani speravano. Questo perché è impossibile portare avanti i negoziati. Per quale motivo un politico dovrebbere mettere in secondo piano questioni riguardanti l’andamento dello Stato che vorrebbe guidare rispetto ai negoziati fermi con un’entità che ancora non è Stato ? Ecco l’articolo:

Negli insediamenti ebraici che indifferenti al diritto internazionale dominano le colline della Cisgiordania può capitare di rimanere al buio per problemi elettrici, può talvolta mancare l’acqua, possono tardare i rifornimenti alimentari e perfino i giornali: ma troverete sempre un seggio aperto il giorno del voto.
«Diversamente dall’illusione di uno Stato palestinese, la politica non è affatto morta, certamente non da queste parti» osserva Amir Josman, 26 anni, 2 figli, studente di pedagogia e volontario alla stazione elettorale di Itamar, la trentennale colonia arroccata su un’altura a 5 km da Nablus nota per il massacro del marzo 2011, quando due palestinesi del vicino villaggio di Awarta uccisero i coniugi Fogel e i loro tre bambini. Amir è arrivato subito dopo, uno dei tantissimi simpatizzanti che hanno sposato la causa di Itamar raddoppiandone la popolazione, oggi oltre quota mille.
Tradizionalmente i coloni votano a destra, ma negli ultimi anni alcune scelte tattiche del Likud (dal ritiro di Sharon da Gaza a quello di Netanyahu da Hebron) hanno deluso gli irriducibili. Solo che loro, invece di astenersi alla maniera dei liberal delusi, si spostano ancora più a destra. Così qui, nella parte meridionale della Cisgiordania che loro chiamano Giudea e Samaria, hanno fatto breccia il Focolare Ebraico di Neftali Bennett e gli oltranzisti di Otzma Israel (una costola del rabbino fuorilegge Kahane).
«Bennett ha capito che tra le priorità d’Israele non c’è più la nascita di uno Stato palestinese e si è concentrato sulle disparità economiche e l’educazione» spiega Avi Ronzki, barbone bianco e occhi guizzanti, ex capo rabbino dell’esercito e ascoltatissimo guru di Itamar, dove nel primo pomeriggio avevano votato già quasi l’80% dei 450 elettori. Rivendica la paternità di Focolare Ebraico raccontando di quando otto mesi fa discusse del partito con Bennett e Ayelet Shaked proprio qui, tra i giardinetti popolati di mamme giovanissime con le gonne hippy, il fazzoletto in testa e decine di bambini. «Se Bennet si piazza bene potremmo puntare al ministero dell’educazione» ammette, e su un foglio di carta butta giù la coalizione ideale: Bibi, Focolare Ebraico e Lapid. Molto meglio l’outsider Lapid, balzato a sorpresa tra i favoritissimi, degli ultraortodossi haredim renitenti alla leva, perché, da queste parti, il servizio militare è sacro, «memlachti», un atto di fede nello Stato.
Lungo la strada 505 che attraversa uliveti e villaggi palestinesi non si vedono manifesti elettorali, gli unici sono agli incroci con le indicazioni per le colonie, Ale Zahv, Pedu’el, Tapuach, nomi biblici, evocazioni divine, mito della terra.
«Ho votato per la prima volta, sono emozionatissima» afferma la studentessa di psicologia Raia Melamed. Ha 18 anni, 15 fratelli, il sogno di mettere al mondo non meno di sei figli. I suoi genitori sono arrivati a Tapuach con la roulotte nei primi Anni 80, pionieri. Lei registra i nomi al seggio elettorale allestito nella biblioteca (un’affluenza vicina al 90%) e parla del Paese che vorrebbe: «Netanyahu non mi piace ma alla fine ho scelto il Likud perché ha in lista candidati che promettono di difendere la religione, i valori tradizionali, la terra dove vivo». Chissà se pensa a Moshe Feiglin, noto per la proposta di consentire i riti ebraici sulla spianata delle moschee. Il suo collega Zoher, 29 anni, lunghi peot che spuntano dalla kippah, dice di aver preferito Otzma Israel e sorride sottraendosi alla stretta di mano.
«Chi ha forti motivazioni ideologiche difficilmente diserta le urne, per questo nelle colonie l’affluenza è sempre stata consistente» ragiona l’analista dell’Israel Project Marcus Sheff. E per questo, lascia intendere, le elezioni 2013 potrebbero a sorpresa rovesciare tutte le previsioni. L’inattesa massiccia partecipazione di ieri infatti, sta già mettendo in difficoltà il premier uscente Netanyahu che contava sull’amareggiato Aventino dei liberal per cavalcare il vento di destra.
«Qualsiasi siano i risultati non fatevi illusioni, Israele ha archiviato i negoziati con i palestinesi e non se ne parlerà più per parecchio tempo». Il 25enne Yossi è pronto a scommetterci e così, giura, tutti i suoi compagni di Kedumin, l’apripista degli insediamenti nel Sud della Cisgiordania che oltre a numerose sparatorie con i palestinesi vanta la storica visita di Begin nel 1977. È un visionario Yossi, ma politico. Sulla collina dirimpetto a Kedumin il ventiseienne Amos, bello e abbigliato da squatter come la moglie Rachel, guarda oltre dalla tenda senza acqua e senza elettricià in cui vive da 4 anni: «Non votiamo, nessuno è abbastanza di destra per noi».

La STAMPA – Francesca Paci : ” La star tv e l’imprenditore ultrà, premiati i volti nuovi della politica “

Yair Lapid                        Naftali Bennett

Chi ha dato scacco matto a King Bibi? Quando le prime proiezioni delle emittenti Channel 10 e Channel 1 diffondono la notizia bomba del piazzamento eccellente di Yair Lapid, l’outsider degli outsider, le 19esime elezioni israeliane accendono i lampeggianti. È quasi certo che il premier uscente Netanyahu ce la faccia a prendersi il suo terzo mandato ma può scordarsi scettro e corona.
In attesa dei dati definitivi (che si sapranno solo oggi) gli analisti ragionano del nuovo scenario disegnato dalle urne: contrariamente alla ventilata svolta reazionaria d’Israele, il blocco di destra e il blocco di sinistra sono praticamente testa a testa, con i primi in vantaggio d’una manciata di seggi.
Se a perdere è Bibi, chi lo scalza (altrasorpresa) non è il suo avversario di destra, l’enfant prodige Naftali Bennett, ma Yair Lapid, volto noto della tv votatosi alla politica pochi mesi fa con la fondazione del partito Yesh Atid. È lui che con piglio dissacrante rispetto alla politica tradizionale ha accantonato gli affari esteri e ha puntato tutto sulle diseguaglianze economiche, l’educazione, il welfare, con il risultato di scavalcare qualsiasi gerarchia e piazzarsi al secondo posto. «Muore dalla voglia di andare al governo ed entrerà nella coalizione» ripetono i politologi. Verosimile. Lui però ha fatto sapere di non voler diventare la foglia di fico di Netanyahu e di essere pronto all’accordo a condizione di non essere solo (vale a dire con Tzipi Livni o con i laburisti di Shelly Yachimovich).
Lapid, che ieri non esisteva, oggi può farsi sentire. Come lui, indubbiamente, avrà voce in capitolo alla Knesset Naftali Bennett, imprenditore di successo, militare stimatissimo, figlio ideologico del Likud nonché promessa solo parzialmente mantenuta di questa tornata elettorale. Sì, perché mentre l’ex anchorman di «Channel 2» partiva da zero, il fondatore di Focolare Ebraico ha messo insieme due partiti esistenti (con 4 seggi) e ha lanciato la scalata: i bookmakers lo davano intorno ai 15/18 seggi, ne ha ottenuti 12, bene.
Ipotizzare le prossime mosse di Netanyahu è impossibile. Di certo gli israeliani, andando a votare in massa contro ogni aspettativa, gli hanno inviato un messaggio netto: se il voto era un referendum su di lui, si goda il terzo mandato perché sarà l’ultimo. In fondo se il Likud-Beitenu passa da 42 a 31 seggi dopo aver sognato quota 48, significa che Bibi deve dividerli con l’ultranazionalista Lieberman e che da solo pesa grossomodo quanto il novellino Lapid.
Quanto agli altri, nessuno stappa veramente champagne. Un premio di consolazione va ai «rossi» di Meretz, che raddoppiano (da 3 a 6/7) e agli ortodossi dello Shas (da 10 a 12), mentre Kadima, il più grosso partito uscito dalle precedenti elezioni, esce di scena non raggiungendo neppure il 2%. I tre partiti arabi tengono la posizione, ma è un fortino. La partita ora riguarda la Knesset. Netanyahu non può consolarsi pensando a Oslo, è passato con una maggioranza risicata di 61 voti, e dovrà tendere la mano a qualcuno che forse si chiama Lapid. A dargli scacco matto sono stati gli israeliani.

L’UNITA’ – Umberto De Giovannangeli : ” Pace impossibile se si rimuove il nodo palestinese “

Sari Nusseibeh

Udg, nel corso dell’intervista, avrebbe potuto ricordare a Sari Nusseibeh che, se i negoziati sono fermi, deve ringraziare Abu Mazen e il suo rifiuto a sedere al tavolo delle trattative. Quando Netanyahu fece la moratoria di 10 mesi di blocco di costruzioni nei territori contesi, Abu Mazen non fece nulla per far ripartire i negoziati, se non aspettare che la moratoria scadesse. Ecco il pezzo:

«Comunque vadano queste elezioni, una cosa è certa. A uscire sconfitta è la speranza di rilanciare il processo di pace ». Le elezioni israeliane viste da una «colomba» palestinese: Sari Nusseibeh, rettore dell’Università Al Quds di Gerusalemme Est, il più autorevole intellettuale palestinese. «In questa campagna elettorale – dice Nusseibeh a l’Unità – la questione palestinese è stata rimossa, praticamente cancellata. Una rimozione collettiva senza precedenti. E questo getta altre ombre inquietanti sul futuro». Professor Nusseibeh, mentre parliamo Israele vota. Qual è la speranza di una “colomba” palestinese? «Mai come stavolta devo confessare di non avere speranze. E non tanto perché con ogni probabilità riavremo Netanyahu primo ministro d’Israele. No, l’assenza di speranza viene dalla “Grande rimozione” che ha coinvolto, tranne alcune eccezioni, l’intero panorama politico israeliano che, a sua volta, riflette gli orientamenti maggioritari nella società israeliana». La “Grande rimozione”. A cosa si riferisce, professor Nusseibeh? «Al tema della pace, al rapporto con un popolo, quello palestinese, che sembra essere scomparso, cancellato, dall’orizzonte israeliano. Le destre non hanno fatto altro che rincorrersi a chi si dimostrava più intransigente: Netanyahu ha promesso solennemente che con lui primo ministro nessun insediamento verrà mai smantellato. Per non parlare poi della “novità” di queste elezioni, quel Naftali Bennet (il leader di HabayitHayehudi, il Focolare ebraico, ndr) che ha dato una riverniciatura “tecno” all’ideologia più oltranzista della destra estrema. A questo sfoggio di muscolarità politica, ha fatto riscontro una sinistra che, con l’eccezione del Meretz e dei Partiti arabi, ha giocato di rimessa, pensando di poter riconquistare consensi – penso al Partito laburista – parlando di altro. Come se pace e questione sociale interna a Israele non avessero punti in comune. Mi lasci aggiungere che da questa campagna elettorale la speranza non è stata cancellata solo da questa parte, quella palestinese, del “Muro”. Anche tra gli israeliani mi sembra che a prevalere sia stato un sentimento opposto…». Qual è questo sentimento? «La paura. Quella di un Paese che sembra aver ormai interiorizzato la “sindrome dell’accerchiamento”. Quella di un Paese che si sente e si vive in trincea. È la paura del cambiamento. È la diffidenza verso l’altro da sé. La destra ha costruito la sua proposta politica su questo sentimento. Lo ha usato e alimentato, vendendo un’illusione: che la sicurezza d’Israele possa fondarsi sempre e solo sulla forza militare e sulla perpetuazione dello status quo con i palestinesi e il mondo arabo circostante. Ma così non è. Perché di una cosa sono sempre più convinto: il diritto alla sicurezza e alla piena integrazione nel Medio Oriente d’Israele e il diritto dei palestinesi a uno Stato indipendente, sono le due facce di una stessa medaglia: quella di una pace giusta, duratura, tra pari». Eppurelamaggioranzadegliisraelianisi diceancorafavorevoleadunasoluzione a“due Stati”. «Ma è un principio che non trova riscontro negli atti politici, nei comportamenti della leadership politica. E senza questo scatto, quel dirsi favorevoli ai due Stati, finisce per essere un’auto giustificazione morale: noi saremmo pure favorevoli, ma la colpa è dei palestinesi e de loro capi inaffidabili… A parlare di necessità di avviare un dialogo costruttivo con Abu Mazen è rimasto Shimon Peres. Una voce importante, certo, ma il presidente israeliano sembra predicare nel deserto. Vede, su ogni questione sul tappeto, su ogni contenzioso sono stati scritti centinaia di documenti, individuati punti di caduta sostenibili e praticabili. Ciò che manca è la volontà, il coraggio, la lungimiranza politica di attuarli». Quella imboccata è dunque una strada senza uscita per i due popoli? «La vita continua e per noi palestinesi ciò significa ripensare una strategia che faccia vivere, a livello internazionale come nei rapporti con l’opinione pubblica israeliana, il nostro diritto a esistere come Nazione. All’Onu abbiamo conquistato un risultato importante, ora si tratta di pensare a nuove forme di resistenza. Tra rassegnazione e militarizzazione esiste una terza via: quella della disobbedienza civile, della resistenza popolare non violenta».

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