Riportiamo dal GIORNALE di oggi, 08/02/2013, a pag. 15, l’articolo di Fiamma Nirenstein dal titolo ” Dall’Iran alla Siria: disastro Obama “. Dal FOGLIO, a pag. 3, l’articolo dal titolo ” Khamenei rifiuta (di nuovo) la mano tesa dell’America all’Iran “. //*IC*


Ecco i pezzi:

Il GIORNALE – Fiamma Nirenstein : ” Dall’Iran alla Siria: disastro Obama “


Fiamma Nirenstein          

La grande confusione del cielo ameri­cano si riverbera sul mondo. Suona come uno sberleffo il duro rifiuto che ieri il supremo leader iraniano Khamenei ha opposto al vicepresidente Joe Biden di aprire negoziati diretti: «Il pubblico ingenuo ama l’idea di negoziare con l’America… ma i negoziati non risolveranno niente, e se qualcuno vuole che il potere americano di nuovi domini l’Iran, il popolo insorgerà e lo batterà». Se spostiamo lo sguardo, una grande eccitazione domina il Medio Oriente all’annuncio che Obama visiterà Israele a marzo. Notizia certamente importante dato che non l’ha mai fatto, ma che difficilmente porterà a una ripresa dei negoziati. Ieri Abu Mazen ringraziava pubblicamen­te Ahmadinejad per il supporto fornito ai palestinesi: l’Iran minaccia Israele, il presidente palestinese lo ringrazia.
L’incitamento è la grande questione che Obama incontrerà oltre il solito tema dei territori e non lo smonterà facilmente. Infatti già si sa che non parte con proposte di pace, ma tratterà di Iran e di Siria. Non molto per chi chiede sempre di tornare al tavolo dei negoziati, e nemmeno stavolta ha la forza di convincere le parti. Il segno che Obama ha impresso alla sua politica estera è stato quello della conciliazione, ma l’altro mandato iniziò con una visita al Cairo poi trasformatosi in un paradosso storico. L’intera sua strategia si è scontrata con una crescente spirale di violenza, di cui la Siria è il picco. Ora, l’insolita apertura che a Monaco è stata tributata a Ali Akbar Salehi, ministro degli esteri iraniano, da Guido Westerwelle, ministro degli esteri tedesco e da altri suoi colleghi europei (compreso Giulio Terzi di Santagata) riuniti sabato scorso nella città tedesca, sono un riflesso dei segnali pacifisti che vengono dagli USA. Ma le decisioni sono incerte, spesso doppie, appesantite dal non-detto, dal senso di colpa verso i 65mila cittadini siriani uccisi senza che Obama si decidesse a muoversi, dalla speranza che l’Iran levi le castagne dal fuoco in cambio di un qualche appeasement . Il presidente americano durante una intervista a NewRepublic ha risposto al giornalista che gli chiedeva perchè non fosse intervenuto: «Come devo valutare le decine di migliaia degli uccisi siriani a fronte delle decine di migliaia degli uccisi in Congo?».Ma il grande tema dell’interesse americano, gli ha ricordato il Wall Street Journal , suggerisce che è ovvio agire innanzitutto contro l’asse Iran-Siria-hezbollah. Lo mazzuola poi per l’abbandono degli innocenti, e quindi dei valori americani, in realtà il tema più pesante per un presidente che fa dell’etica la sua bandiera. Hillary Clinton e il generale Petraeus avevano deciso di rifornire di armi e di istruttori i ribelli siriani. Pare anche che Leon Panetta fosse d’accordo, e che poi la Casa Bianca abbia bloccato tutto. Adesso, mentre Panetta, in uscita dal governo, dichiara che l’Iran destabilizza il Medio Oriente con forniture di missili antiaerei da spalla (scoperti in Yemen a gennaio) e porta a termine il piano di un’esercitazione antiraniana congiunta con gli Emirati, ecco che Joe Biden fa segnali all’Iran e poi riceve il «no»di Khamenei. Obama nel secondo mandato seguirà comunque il tracciato del discorso d’inaugurazione; per merito suo«si è chiusa l’era della guerra senza fine». Il guaio è che la guerra è in corso, anzi, lo sono svariate guerre, e gli Usa, rispetto al passato, non sono più benvoluti nel mondo.

Il FOGLIO – ” Khamenei rifiuta (di nuovo) la mano tesa dell’America all’Iran “


Ayatollah Khamenei

Milano. Per la Guida suprema dell’Iran, Ali Khamenei, c’è soltanto un difetto peggiore della debolezza, ed è la debolezza offerta al nemico. Così, dopo mesi di speculazioni sull’esistenza di un dialogo tra emissari della Casa Bianca e l’astuto consigliere del rahbar Ali Akbar Velayati; dopo che la mano tesa del vicepresidente americano, Joe Biden, a Monaco sabato era stata accolta con una timida apertura dal ministro degli Esteri di Teheran Ali Akbar Salehi (“non ci sono linee rosse”), soprattutto dal presidente Mahmoud Ahmadinejad (“abbiamo constatato qualcosa di positivo nelle parole delle autorità americane”), ieri Khamenei ha chiarito che la posizione ufficiale iraniana verso Washington resta invariata e che coloro che accarezzano l’inutile ipotesi di colloqui bilaterali sono “ingenui”. L’America vuol parlare “mentre punta una pistola contro l’Iran”, ha sentenziato Khamenei. Mercoledì Washington ha ampliato lo spettro delle sue sanzioni economiche contro Teheran (l’intento è soprattutto quello di “imprigionare” i petrodollari iraniani all’estero), ma sulla risposta del leader supremo all’eterno dilemma americano pesa piuttosto la convinzione che riallacciare le relazioni con gli Stati Uniti sarebbe l’anticamera della fine del regime. Da Teheran un funzionario vicino all’entourage di Khamenei spiega al Foglio che “se è vero che la Guida suprema ha affidato al beit (il suo ufficio) trattative con gli americani è perché vuole essere certo che quelle stesse trattative non vadano da nessuna parte”. Non a caso Khamenei cita spesso l’ex rais libico Gheddafi e la rinuncia al suo arsenale nucleare come l’esempio di un cedimento strategico fatale. C’è però un aspetto interessante nel discorso di ieri di Khamenei ed è l’ammissione che nel regime c’è un partito che preme per la normalizzazione. Da Mehdi Bazargan ad Ahmadinejad passando per Ali Akbar Rafsanjani e Mohammed Khatami, da Teheran sono già partiti molti inconcludenti segnali di fumo verso Washington, ma era vietato parlarne. Nel 2002 l’Irna pubblicò un sondaggio secondo cui il 74 per cento degli iraniani era favorevole a ristabilire i rapporti con l’America e gli autori del rilevamento furono arrestati e accusati di spionaggio, undici anni dopo la questione americana è dibattuta quotidianamente sui maggiori organi di stampa del regime e l’anno scorso un parlamentare iraniano ha minacciato di mostrare una lista con i nomi di 400 funzionari che hanno la green card. In Iran il partito della normalizzazione è forte perché crede che la fine dell’ostilità con Washington sarebbe una panacea per l’economia e Khamenei deve tenerlo a bada, ma nulla otto anni fa, quando lo scelse, lasciava presagire che Ahmadinejad ne avrebbe fatto parte. L’ultimo capitolo del divorzio tra il leader supremo e il presidente è andato in scena domenica in Parlamento. Ahmadinejad ha attaccato lo speaker Ali Larijani e il suo clan, ma nella sua invettiva a colpi di intercettazioni e trascrizioni e video caricati su YouTube pareva piuttosto un pugile che, barcollante, tira colpi all’aria. L’ostinazione con cui Ahmadinejad si tiene stretti i suoi – dallo sterminatore di dissidenti Said Mortazavi, al consuocero Esfandiar Rahim Mashaei, suggeritore delle virate nazionaliste – è uno dei fattori che hanno accelerato la sua caduta, ma il destino del presidente era scritto già quattro anni fa quando la sua rielezione macchiata di sangue è divenuta un peso per Khamenei. Il leader supremo ha lasciato che trapelasse “che è ferito”, il presidente è stato apertamente sconfessato, e la politica che conta – dal nucleare, agli Stati Uniti alle relazioni regionali – si è spostata ancora più lontano dal compound presidenziale sulla via Pasteur.

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