Testata: Informazione Corretta
Data: 02 maggio 2013
Autore: Ugo Volli

Oggi, 2 maggio, dopo la festività del 1 maggio, in Italia non escono i quotidiani. IC pubblica il commento di Ugo Volli.

“Piccoli scambi” e grandi ritardi
Commento di Ugo Volli

Cari amici,
vi ricordate quella vecchia battuta, forse di Musil sull’impero austroungarico, sempre in ritardo di un’industria, di un reggimento, di un’idea? Qualcosa del genere si può dire anche per il mondo arabo e in particolare per la sua espressione politica, la Lega Araba.
Lasciamo andare i reggimenti, che ormai sono impegnati a combattere fra loro, e le industrie che non sono mai state,  il lato forte degli arabi,  e occupiamoci delle idee. Non dei grandi principi guida, dove il distacco non si misura in anni ma in secoli, ormai ben più di un millennio dal modello di società cui esplicitamente si ispirano salafiti, fratelli musulmani, sciiti e tutti gli altri, in gara fra loro per chi è più medievale e misogino.
Parliamo delle idee più piccole e concrete, come quelle intorno alla sistemazione del conflitto con Israele. Non intendo del jihad per l’espulsione dei sionisti dalla “sacra terra araba” che evidentemente non si può sistemare senza adottare una “soluzione finale” nei confronti del popolo ebraico che io personalmente considero, come dire, un po’ antipatica, e che grazie al cielo gli arabi sono così “indietro di un reggimento” da non tentare più di realizzare, almeno con mezzi militari tradizionali.
No, parliamo delle idee su come arrivare a una convivenza senza guerra nei territori della Giudea e della Samaria, liberati da Israele nel ’67, ma su buona parte dei quali abitano popolazioni arabe che aspirano all’autodeterminazione. Per capire come sono andate le cose, bisogna fare un passo indietro, fino al momento della vittoria militare di Israele.
Dopo aver sconfitto gli eserciti di Siria, Egitto e Giordania fra il 5 e il 10 giugno del ’67 e conquistato tutto il Sinai, il Golan, la Giudea e la Samaria (http://it.wikipedia.org/wiki/Guerra_dei_sei_giorni), il governo militare israeliano si mostrò molto prudente e disponibile, lasciò per esempio il controllo del Monte del Tempio agli arabi e si disse disponibile a una sistemazione.
Risale ad allora la famosa frase di Moshé Dayan: “aspettiamo una telefonata…” Ma, come disse  Chaim Herzog che sarebbe diventato presidente israeliano
“la nostra convinzione che la guerra era finita e la pace avrebbe prevalso lungo i confini fu rapidamente smentita. Tre settimane dopo la conclusione delle ostilità, si verificò il primo grande incidente  lungo il Canale di Suez“.
Dopo varie altre scaramucce, al posto della telefonata, venne la risoluzione di Khartum della Lega Araba (fine agosto), quella famosa dei “tre no”: “no alla pace con Israele, no a trattative con Israele, no al riconoscimento di Israele” (http://www.sixdaywar.org/content/docs.asp#khartoum)
E’ una posizione che durò per decenni e per certi versi dura ancora.
Nel frattempo ci fu un’altra guerra, un’altra vittoria e solo dopo quella, finalmente “una telefonata” dall’Egitto che portò al trattato di Camp David del 1978.
Poi ci vollero altri quindici anni e molto sangue per concludere gli accordi di Oslo (1993), dove di nuovo Israele si illuse di avere di fronte un partner per la pace e dovette misurare ben presto con sangue e lutti la propria delusione.
Nel frattempo però, la Lega Araba era sempre ferma a Khartum e ai tre no. Per scostarsene un po’ attese fino al 2002, quando l’Arabia Saudita, probabilmente per tirarsi fuori dal proprio coinvolgimento negli attentati dell’11 settembre propose la cosiddetta “iniziativa araba (http://jcpa.org/wp-content/uploads/2011/11/Arab-Peace-Initiative.pdf ): in cambio della rinuncia di Israele a tutti i territori liberati trentacinque anni prima, e alla pace con i palestinesi, incluso il “ritorno dei profughi”, cioè il suicidio demografico di Israele, i paesi arabi avrebbero “normalizzato” i rapporti con lo stato ebraico. Che cosa questa “normalizzazione” possa voler dire, si può vedere dal caso dell’Egitto, i cui rapporti con Israele, a parte il mantenimento di un’ambasciata spesso minacciata e assalita e un contratto per la fornitura di gas su un condotto continuamente interrotto da attentati, non sono stati così diversi da quelli di un nemico in servizio permanente effettivo, come la Siria prima dei disordini attuali.
Comunque l’iniziativa era già superata dai fatti, perché nelle trattative di Camp David e Taba, due anni prima, quelle delle massime concessioni israeliane, già si davano per scontati possibili scambi di territori.
Ora sono passati altri 11 anni ed è venuta fuori una “nuova iniziativa araba” o meglio il suo rinnovamento: il ministro degli esteri del Qatar, al-Thani, ha detto l’altro giorno che anche per la Lega Araba potevano andar bene le linee del ’67 (cioè in realtà quelle degli armistizi del ’49 che erano state superate proprio nel ’67, “with mutually agreed upon minor land swaps“, “con piccoli scambi di territorio, reciprocamente concordati”.
Be’ grazie… è un bel progresso passare da quarantasei anni di ritardo a quindici, ma sempre ritardo è. Inutile dire che il segretario di stato americano Kerry ha mostrato il debito entusiasmo e ha ripreso la sua diplomazia pendolare per convincere tutti della bontà di questa nuovissima proposta (http://www.jpost.com/Diplomacy-and-Politics/Kerry-meets-Arab-FMs-seeks-regional-support-for-peace-push-311525 ). E possiamo essere sicuri che nei prossimi mesi politici e giornali europei e americani non mancheranno di seguirlo su questa strada (per esempio: http://www.nytimes.com/2013/05/01/world/middleeast/kerry-welcomes-arab-plan-for-israeli-palestinian-talks.html?_r=0). In realtà vi sono forti dubbi che gli scambi siano fattibili, senza coinvolgere interessi vitali di Israele (http://www.weeklystandard.com/blogs/land-swaps-and-1967-lines_574942.html). Forse avrebbe senso farli attribuendo al futuro stato palestinese zone già prevalentemente abitate da arabi, come ha suggerito qualcuno, per esempio il “triangolo” a nord di Netanya, ma anche questo non è detto sia fattibile per ragioni militari e comunque non sarebbe gradito agli abitanti, che a parole fanno volentieri i palestinesi, ma preferiscono continuare a godere della libertà e della sicurezza sociale di Israele, piuttosto che diventare davvero “palestinesi” anche di passaporto.
E comunque le “linee del ’67” non sono richieste davvero dalle mozioni dell’Onu, come molti dicono, e non sono strategicamente accettabili per la sicurezza di Israele (http://articles.latimes.com/2011/jun/05/opinion/la-oe-gold-israel-borders-20110605 ).
Insomma, quella della Lega Araba non solo è roba vecchia, ma proprio non funziona (http://www.israelnationalnews.com/Articles/Article.aspx/13225#.UYDhxrWpUvA ). Che accadrà allora? Possiamo attenderci un’altro momento di forte pressione su Israele, controbilanciato solo dal fatto che Obama si rende conto oggi che la pace non la vogliono innanzitutto i palestinesi (http://israelmatzav.blogspot.it/2013/04/report-even-obama-knows-that-abbas.html) e dalla considerazione comune negli ambienti responsabili occidentali che l’esistenza e la determinazione di Israele in questo momento non sono un fattore di crisi, ma al contrario sono fondamentali per tenere sotto controllo l’asse della crisi che corre dall’Iran (col suo armamento atomico sempre più vicino) alla Siria (dove si può scegliere solo fra due mali, le milizie in stile Al Queida e gli stragisti governativi) al Libano (dove la guerra civile è lì lì per esplodere importata dalla Siria), fino all’Egitto e all’Africa del Nord.
In questo immenso e importantissimo teatro strategico, il solo alleato sicuro e stabile che resta all’Occidente è Israele.  Bisogna attendersi che l’Anp cerchi nuove trappole, nuovi modi di danneggiare Israele nella guerra diplomatica e legale che sta combattendo. E nuovi avventurismi da parte di Hamas e Hezbollah, che ricavano la loro “legittimità” dal terrorismo contro Israele, con la possibilità di ottenere appoggio anche da una delle parti siriane, in disaccordo su tutto, salvo sul fatto che gli ebrei sono il demonio da combattere.
Insomma, ci aspettano tempi difficili. Ma certo la proposta araba, indietro di un’idea e di quarantacinque anni non è una soluzione.
 

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