peggiore266Testata: Corriere della Sera
Data: 20 agosto 2013
Autore: Angelo Panebianco
Titolo: «Un’assenza ingombrante»

A sinistra: Barack Obama, il peggior presidente di tutti i tempi.

Riportiamo dal CORRIERE della SERA di oggi, a pag. 1-33, l’editoriale di Angelo Panebianco dal titolo ” Un’assenza ingombrante “.

Un plauso più che meritato all’editoriale di Angelo Panebianco, ci auguriamo che la linea iniziata oggi dal Corriere della Sera sia valutata con attenzione dagli altri quotidiani italiani. Al Corriere della Sera, oltre al plauso, l’augurio che continui su questa linea.


Angelo Panebianco

Il disastro egiziano è tale che persino gli osservatori europei più simpatetici nei confronti di Barack Obama, oggi prendono atto della inconsistenza della sua politica estera. C’è un rapporto fra i fallimenti internazionali di Obama e la popolarità di cui ha goduto a lungo in Europa. Era infatti piaciuto a tanti europei, soprattutto, perché lo immaginavano come il possibile liquidatore dell’«impero americano».
Gli storici del futuro, plausibilmente, si divideranno all’infinito nella valutazione dei meriti e dei demeriti della politica estera del presidente dell’11 Settembre, di George Bush Jr. Ma difficilmente negheranno che l’azione internazionale di Obama sia stata un fallimento. Ha eliminato Bin Laden? Ha fatto un uso massiccio dei droni per colpire terroristi islamici? Sì, ma senza la guida di una visione politica, quale che essa sia, l’uso degli strumenti militari non porta lontano. La guerra, diceva Clausewitz, ha una grammatica ma non una logica. La logica della guerra è politica. Ed è la politica che è mancata nell’azione militare e in quella diplomatica dell’Amministrazione.
Tutto ciò era già scritto negli atti e nelle parole di Obama fin dalla sua prima campagna presidenziale. Se si vuole dare un quarto di nobiltà alla sua visione politica bisogna ricondurla al jeffersonismo (da uno dei Padri fondatori dell’America, Thomas Jefferson). È una corrente per la quale l’America, terra benedetta da Dio, deve coltivare le proprie virtù in patria, impegnandosi il meno possibile all’esterno e influenzando gli altri soprattutto con la forza dell’esempio, delle proprie libertà e virtù repubblicane. A differenza dei wilsoniani, sia democratici che repubblicani (da Wilson a Roosevelt, da Kennedy a Reagan, a Bush Jr.), i jeffersoniani non credono che affare dell’America sia rendere il mondo safe for democracy, sicuro per la democrazia. Sono indifferenti alla natura dei regimi politici con cui trattano. È sufficiente che i governanti di tali regimi siano disposti a cooperare con l’America. Il tanto lodato discorso del Cairo (2009), quello con cui il neopresidente definiva, in chiave anti-Bush, i futuri rapporti con il mondo islamico, è stato il vero manifesto politico della sua Amministrazione. In quel discorso si trovano non solo le radici dei recenti errori americani in Medio Oriente, ma anche le ragioni di un più generale fallimento. Se ci si dichiara pronti a cooperare con chiunque quale che siano le sue scelte e ideologie, fatto salvo un generico appello al rispetto dei diritti umani, ci si trova poi disarmati quando quelle scelte e ideologie producono esiti sgraditi o nefasti.
In nome della indifferenza ai regimi politici altrui, Obama ha per lungo tempo snobbato le democrazie europee, ha creduto possibile instaurare salde relazioni di cooperazione con la Cina e con la Russia, ha raffreddato i rapporti con Israele, ha posto termine affrettatamente alla presenza americana in Iraq, ha annunciato, altrettanto affrettatamente, il ritiro dall’Afghanistan, ha abbandonato a se stessi i giovani in rivolta nell’Iran del 2009. E ha infine cavalcato, senza uno straccio di disegno politico, ma ponendosi al rimorchio dell’opinione pubblica, le cosiddette rivoluzioni arabe. Basta da solo lo stato attuale dei rapporti con la Russia di Putin per dimostrare quanto velleitaria e inconsistente sia stata la sua politica estera. Obama, è vero, si è trovato sulle spalle la più grave crisi economica dopo il ’29. E ha dovuto fare i conti con un indebolimento senza precedenti dell’America. Ma la sua politica internazionale ha aggravato quell’indebolimento, non lo ha contenuto o ritardato.
Un’assenza di visione politico-strategica spiega, ad esempio, il via libera che Obama diede alla disastrosa guerra di Libia voluta dal presidente Sarkozy per compensare la «perdita» francese della Tunisia. Una guerra che non ha portato ai libici la «libertà dal tiranno» ma ha creato l’ennesimo Stato fallito, in preda a bande armate, facendo anche saltare l’unica diga che bloccava la diffusione dell’estremismo islamico a sud del Sahara.
Sulle indecisioni americane nella guerra civile siriana non c’è da spendere parole. Sono servite a segnalare alle potenze regionali alleate (Turchia, Arabia Saudita, Israele) che l’America è inaffidabile e ondivaga e che ciascuno deve fare per sé. In Egitto, poi, l’incapacità diplomatica americana ha raggiunto i massimi livelli. Morsi era un presidente democraticamente eletto ma, data la natura illiberale del suo movimento, egli doveva essere tallonato, blandito con le carote e minacciato col bastone. Per la situazione del Sinai e per i rischi che correvano le libertà degli egiziani. L’America avrebbe dovuto esercitare forti pressioni per spingere Morsi, come chiedeva l’esercito prima del golpe, ad aprire le porte del governo alle altre componenti della società. Ha invece scelto di appoggiarlo e basta. Col risultato di essere oggi invisa a tutti gli egiziani, laici e fondamentalisti. Un’efficace politica estera è una equilibrata miscela di principi e convenienze. Obama ha snobbato i principi e ha perso anche sul piano delle convenienze.
Piaceva tanto agli europei, dopo gli anni del terribile Bush, il liquidatore dell’impero americano. Ma era solo una prova dell’insipienza politica europea. Puoi anche volere sbarazzarti degli ingombranti americani. Ma a patto che l’alternativa di cui disponi non sia il nulla.

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