meghnagi266Testata: Shalom
Data: 14 settembre 2013
Pagina: 15
Autore: David Meghnagi

Dal  numero di settembre 2013 di SHALOM, riprendiamo il commento di David Meghnagi, dal titolo “Mantenendo viva la speranza, si conserva viva l’immagine del futuro”.

 


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David Meghnagi

“L’avversione contro la diaspora”, mi aveva ripetuto A.B.Yehoshua in una lunga intervista per un documentario su Gerusalemme realizzato con Claudia Hassan poco prima dello scoppio della seconda intifada, “è cessata”. L’avversione “è finita per la semplice ragione che il sionismo ha vinto, che abbiamo vinto e che Israele esiste”. C’è “uno Stato ebraico” e c’è una “nazione ebraica con una sua esistenza” Il mio conflitto con la Diaspora degli anni Sessanta e Settanta appartiene al passato, per la semplice ragione che sono ormai sicuro dell’esistenza di Israele, almeno così spero”. Ascoltandolo rimasi colpito, dalle sue parole conlusive: “almeno così spero”. Gli chiesi perché avesse detto almeno così spero”. Dopo un breve silenzio, mi sorrise. La reazione era rivelatrice di sentimenti e pensieri radicati nell’inconscio, che al di là di ogni divergenza ci accomunavano, che fanno da sfondo a un non detto più forte delle razionalizzazioni ideologiche e politiche. In contrasto con l’atteggiamento di svalutazione unilaterale della vita della diaspora, nel piccolo lapsus di Yehoshua erano racchiuse angosce che non appartengono unicamente alla diaspora. Sono le angosce di tutto il popolo ebraico. Il sorriso disarmante rivelava il timore inconscio che le realizzazioni del sionismo potessero rivelarsi un mero intervallo rispetto alla realtà dell’esilio, che la sfida non era stata definitivamente vinta. Soprattutto che Israele e la diaspora hanno bisogno entrambi l’uno dell’altro perché la sfida sia vinta. Tra i miti fondativi dello Stato di israele vi era l’idea di creare un ebreo “nuovo” “diverso” da quello diasporico. A dispetto delle apparenze, la percezione che gli israeliani hanno di sé nel profondo, non è diversa. Le paure degli israeliani descritte da Yehoshua nel racconto del palestinese che appicca il fuoco al bosco (Mul Haya’ar/Di Fronte al Bosco), sono anche le paure della diaspora. Gli incubi notturni di Hannah, il personaggio centrale del primo grande romanzo di Amos Oz (Michael Shelì/Michele Mio), sono anche gli incubi di Primo Levi con il suo doppio sogno e la l’angoscia latente che la libertà riconquistata possa essere solo una tregua e che la verità profonda possa essere un’altra. Basti pensare al riarmo nucleare iraniano e a quanto spaventosamente sta accadendo neil mondo arabo e islamico e a i pericoli che possono derivarne in futuro per la sicurezza e la vita degli israeliani. E’ normale che sia così. L’angoscia controllata e trasformata attraverso la scrittura è un segno di consapevolezza, di capacità di non chiudere gli occhi di fronte al pericolo per non trovarsi impreparati e isolati. Al di là dello sviluppo mirabile che il paese ha conosciuto ininterrottamente, della capacità unica di integrare realtà culturali diverse, della volontà di esistere e della forza militare, il sentimento della fragilità alberga nel profondo degli israeliani. Grazie al processo di mediazione, messo in atto dalle istituzioni educative e nazionali israeliane, l’angoscia è creativamente trasformata. Le spiagge di Tel Aviv sono un inno alla vita. Basta però scavare un po’ perché l’angoscia si faccia sentire tra le pieghe del discorso e del fatalismo. In queste condizioni c’è anzi da chiedersi come abbiano fatto gli israeliani a conservare il loro sistema parlamentare e le loro libere istituzioni. Per molto meno, le democrazie di più antica data sono state esposte al rischio di involuzioni autoritarie. L’esempio più commovente dell’angoscia latente e della sublimazione creativa della paura, è la capacità degli israeliani di svenarsi per i figli più piccoli, di non far mancare loro nulla in tutti i modi. I figli sono il loro futuro, ma allo stesso tempo qualcosa nell’inconscio dice ai genitori che essi potrebbero malauguratamente sopravvivere ai propri figli. Passata l’età del’innocenza, i figli indosseranno la divisa e non è detto che dopo interminabili tre anni di leva, faranno ritorno salvi a casa. Le madri lo sanno e tremano in segreto facendo di tutto perché i figli vivano con gioia le prime fasi della loro esistenza. Dopo secoli di peregrinazioni ed esili, la terra non è ancora purtroppo stabile sotto i piedi. Nel profondo la massa arranca e non vede l’agognata normalità sull’orizzonte. Il pericolo è dietro l’angolo. Se non è la guerra, ci sono gli attentati indiscriminati contro i civili. L’immagine dei corpi sventrati dagli attentati contro i civili, nonostante gli accordi di pace e dopo il loro fallimento definitivo, è qualcosa di già visto su più vasta scala. Gli israeliani non hanno un territorio profondo in cui ritrarsi, né un mare che li separi da un mondo ostile. Il mare che hanno alle spalle è l’unica via di fuga verso un mondo da cui i padri sono fuggiti. Gli israeliani sono pochi, concentrati in un piccolo territorio, per metà desertico. Sono una goccia nel mare arabo e islamico che dovrebbero farsi amico e non sanno più come. La prima vera sconfitta rischia di essere l’ultima. Sanno che possono rispondere al colpo, colpire per primi, come hanno fatto nella guerra del ’67, ma dopo ogni guerra il nemico rischia di diventare più numeroso e aggressivo. Le soluzioni militari spostano solo in avanti il problema, rimandando a conflitti ancor più sanguinosi. Quelle politiche sono purtroppo uscite sconfitte. Nella guerra del golfo i missili arrivavano da Bagdad. Oggi possono colpire dai confini. Per non parlare della minaccia nucleare iraniana che incombe come un incubo sull’intera regione. Cionostante ed è questo il vero miracolo di Israele, la maggioranza della popolazione non ha mai abbandonato la speranza in un futuro diverso. Nelle canzoni popolari i padri non hanno smesso di promettere alla figlia più piccola che sarebbe stata l’ultima guerra. Pur sapendo che purtroppo non è affatto così, la maggioranza degli israeliani non ha cessato di elevare il proprio canto, conservando viva l’immagine di un futuro diverso e migliore. Mantenendo viva la speranza, il dolore e la sofferenza diventano più tollerabili. Come nel canto d’apertura della preghiera di Rosh Hashanah la depressione fa posto all’ottimismo, le “maledizioni” lasciano il posto alle “benedizioni” e la vita trionfa sulla morte. Del resto paragonata al passato più recente, la rinascita è un miracolo vivente. Non c’è mai stato nella storia ebraica degli ultimi due mila anni un periodo migliore. La nazione è il crogiuolo vivente di figli e nipoti di sopravvissuti allo sterminio nazista e alle persecuzioni sovietiche, di comunità sfuggite ai pogrom arabi che hanno trasfigurato la loro storia di fuga in un esodo miracoloso. L’ebraico è rinato, le università sono fucine di Nobel. Pur con zone d’ombra dovute all’accresciuta distanza sociale ed economica, nonostante i pericoli che derivano dall’incomunicabilità fra cittadini ebrei e arabi, fra haredim e laici, movimento dei coloni e movimenti di Shalom ‘Akhshav e l’approfondimento delle distanze fra settori diversi della società: il paese ha conservato la sua unità interiore e la vita ha continuato a rinnovarsi. Il miracolo su cui poggia l’esistenza di Israele e della vita ebraica dopo la Shoah, ha qui il suo fondamento più grande: la capacità di immaginare, nonostante tutto e contro tutto, la possibilità di un futuro diverso e migliore per sé e per l’intero genere umano.

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