ilIlan-halimi

 

 

 

Il 13 Febbraio 2006 venne ritrovato il corpo senza vita di Ilan Halimi,  il ragazzo francese ebreo sequestrato e torturato per tre settimane e poi lasciato agonizzante sui binari del treno da un gruppo di arabi, capeggiato dal fondamentalista islamico Youssouf Fofana. In occasione di questo triste anniversario riteniamo opportuno riproporre oggi un articolo di qualche settimana fa a firma Giulio Meotti che ripercorre gli avvenimenti di quei terribili giorni ponendo -giustamente a nostro parere- l’attenzione sul sempre più crescente antisemitismo in Francia e in Europa.

Ebreo per 24 giorni

di Giulio Meotti

Quel povero corpo alla fine venne bruciato, come si faceva durante l’Inquisizione. Perché di Ilan Halimi doveva rimanere soltanto il nome. Poi anche quello, gli assassini lo sapevano, se lo sarebbe mangiato l’ipocrisia francese. Perché, come ha ricordato Francis Szpiner, avvocato della famiglia del ragazzo ebreo ucciso, “E’ il silenzio che ha ucciso Ilan Halimi, e la giustizia ha contribuito a perpetuare questa cospirazione del silenzio, giacché l’opinione pubblica non ha saputo di che cosa era morto”.

Accadde anche nel 1990, quando nel cimitero di Carpentras, vicino ad Avignone, il corpo di un ottuagenario ebreo venne estratto dalla bara e posto nudo, faccia a terra, su una tomba vicina, con a fianco un ombrello (che rimandava idealmente a un impalamento). I media e i politici francesi rubricarono il tutto come un semplice “atto vandalico”. Fu l’inizio di una spaventosa ondata di antisemitismo che si riverbera nei nostri giorni.

Oggi in Francia le finestre degli edifici ebraici sono oscurate con speciali tende per proteggere chi è all’interno da lanci di pietre e bottiglie; i clienti dei ristoranti kasher, molto alla moda a Parigi, devono mangiare dietro a finestre a prova di proiettile; teppisti attaccano sinagoghe, centri d’incontro, scuole ebraiche e monumenti ai martiri ebrei della Shoah. Secondo il recente rapporto del servizio di sicurezza della Comunità ebraica, la Francia ha avuto un aumento del 58 per cento di episodi antisemiti nel 2012 rispetto all’anno precedente.

Nel 2012 sono stati registrati ben 614 atti antisemiti, pari a circa 1,6 al giorno. In passato, la manifestazione più grave di antisemitismo era la profanazione di un cimitero, o le svastiche disegnate sui muri. Oggi il 25 per cento degli attacchi contro le persone è effettuato con le armi. Sette anni fa, alla periferia della Ville Lumière, un ragazzo ebreo di nome Ilan Halimi venne rapito e tenuto prigioniero per ventiquattro giorni perché ebreo, torturato perché ebreo, infine ucciso perché ebreo. Un povero tronco umano da radere e smembrare, da gettare per strada, come si fa con i resti della cena con il cane.

Adesso un celebre regista francese, Alexandre Arcady, amico del ministro dell’Interno Manuel Valls, ha girato un film sull’affaire Halimi. Per la prima volta le porte del 36 Quai des Orfèvres, sede della polizia parigina, si sono aperte al set di un film. Questo film. Il regista ha ottenuto l’autorizzazione rifiutata in passato a personaggi come Bertrand Tavernier e Henri-Georges Clouzot. Per la prima volta sono stati filmati gli interni e il cortile dell’austero edificio, che si affaccia sulla Senna, costruito tra il 1875 e il 1880. Nel cast ci sono Zabou Breitman e Pascal Elbé, nei panni della madre e del padre della vittima, mentre il ruolo di Ilan è interpretato dall’attore iraniano Syrus Shahidi. Il titolo del film, “24 Jours”, deriva dal libro testimonianza che Ruth Halimi, madre di Ilan, ha scritto dopo l’assassinio del figlio (in Italia è stato pubblicato dalle edizioni Belforte e definito da Pierluigi Battista “un documento sconvolgente”). Ruth era stata contattata da molti registi per ottenere l’adattamento di quel diario, ma ha scelto Arcady perché il suo progetto è quello che più avrebbe mostrato empatia verso la vittima.

Dopo la strage alla scuola ebraica di Tolosa, dove un islamista uccise tre bambini e un rabbino, in molti hanno descritto il caso Halimi come “lo spartiacque per capire il nuovo antisemitismo francese”. Tale, infatti, è l’interesse che anche altri due registi, Richard Berry e Thomas Langmann, stanno lavorando a pellicole diverse sul caso del ragazzo ebreo martirizzato. Berry si è ispirato al libro di Morgan Sportès sul caso Halimi e il suo film avrà un approccio meno sentimentale, più clinico, algido. “Volevo fare questo film perché in Francia si è posto l’accento sugli assassini e non sulla vittima”, ha detto Arcady alla stampa francese. Ilan di “ebraico” non aveva nulla: non portava i simboli religiosi, né militava per le cause ebraiche. Era un ragazzo francese, che di israelita aveva soltanto il nome. Sufficiente a farne una preda. La Francia ha scoperto il sorriso contagioso di Ilan soltanto dopo la sua morte efferata. Un sorriso che nulla sembra dire dell’odio e della ferocia con cui per tre settimane è stato tenuto nelle mani di una gang di islamisti della banlieue parigina. Ruth ripete che l’uccisione di suo figlio è “senza precedenti dalla Shoah”. E infatti lo studioso Adrien Barrot ha dedicato al caso un saggio che evoca il libro di Primo Levi: “Se questo è un ebreo”.

L’uccisione di Halimi è stato un assassinio rituale inferto nel nome della mezzaluna islamica. Ma la Francia lo avrebbe scoperto soltanto durante il processo a Youssouf Fofana, il capo “dei barbari”, la gang che ha rapito e ucciso l’ebreo. Fofana è entrato in aula con il sorriso, ha alzato un pugno verso l’alto e gridato: “Allah vincerà”. Alla domanda sulla sua data di nascita, il terrorista ha risposto: “Il 13 febbraio 2006 a Sainte-Geneviève-des-Bois”. E’ il giorno in cui il corpo di Ilan è stato ritrovato, nudo e straziato a morte. Quando gli viene chiesto il nome, Fofana risponde: “Africana barbara armata rivolta salafita”. E invia una lettera di insulti alla giudice, accompagnata da una foto di un kamikaze palestinese che si era fatto esplodere in una discoteca di Tel Aviv: “A nome dei musulmani e degli africani vittime dei terroristi sionisti, i barbuti in kippah, Inshallah, ci sarà un commando che mi verrà a liberare”.

Per Fofana si mobilita la gauche. Il terrorista viene difeso da Emanuel Ludot, lo stesso avvocato che aveva coordinato il collegio di difesa di Saddam Hussein, e da Isabelle Coutant-Peyre, moglie e persona di assoluta fiducia del terrorista sanguinario Carlos, noto anche come “lo Sciacallo”,quello che fra molte altre imprese aveva guidato da lontano il commando palestinese che sequestrò e ammazzò gli atleti israeliani alle Olimpiadi di Monaco. I due legali di Fofana cercano di trasformare il loro assistito in una “vittima del sistema mediatico”, in un “capro espiatorio”, addirittura. Per Coutant-Peyre l’uomo è stato vittima di “una campagna di marketing politico e religioso”. Secondo Ludot e Peyre i genitori di Halimi erano sostenuti da una “certa lobby”. La nota lobby.

Nell’aprile del 2007, l’assassino di Ilan Halimi scrive una lettera a uno dei suoi avvocati, due pagine in cui si presenta come “mujaheddin forever” e definisce così gli ebrei: “Cellula terroristica mondiale che divide i popoli, predatori di ricchezza, soprattutto di materie prime. Pericolo per l’umanità. Si considerano come una razza superiore. Assassini di musulmani su scala planetaria. Indottrinatori, manipolatori, nemici da combattere per il bene dell’umanità. Allah Akbar…”. Lo zio di Ilan ha raccontato in tribunale che durante le telefonate ai familiari del ragazzo i rapitori facevano sentire loro le sue urla mentre gli bruciavano la pelle e nel frattempo “leggevano ad alta voce versi del Corano”. Durante una delle telefonate trasmisero anche un nastro: “Sono Ilan, Ilan Halimi. Sono figlio di Didier Halimi e di Ruth Halimi. Sono ebreo. E sono tenuto in ostaggio”. Come Daniel Pearl. I rapitori sapevano che la madre era una centralinista. E che Ilan, per campare alla meglio, lavorava in un negozio di cellulari. Non cercavano i soldi, ma il piacere perverso di offendere la carne di un ebreo.

Il film di Arcady vuole denunciare il modo in cui le autorità francesi hanno trattato il caso Halimi, “negando l’intento religioso del sequestro e l’identità islamica di tutti i rapitori”, una polizia che fece poco, molto poco, per scardinare la rete di famiglie che proteggeva la gang. All’inizio si gettarono sulla pista amorosa, poi sulla droga, infine sul riscatto, senza mai contemplare l’antisemitismo di matrice islamica. Era un’onta troppo grave per la République. Arcady scopre nella realizzazione del film che Fofana durante il sequestro telefonò settecento volte alla famiglia di Ilan. Una ossessione che sarebbe culminata nella macellazione del ragazzo. “Per tre settimane decine e decine di individui hanno condotto la loro piccola vita tranquilla di periferia parigina mentre Ilan veniva massacrato nella porta a fianco”, racconta la madre.

Il ragazzo, infatti, era tenuto in ostaggio in un appartamento di tre stanze, al terzo piano di un orrendo palazzone in via Prokofiev, a Bagneux, nel dipartimento di Hauts-de-Seine. Un edificio di undici piani abitato da centinaia di persone che, ogni giorno, prendono l’ascensore o salgono le scale e che, in questo modo, avevano senz’altro avvertito le urla e i lamenti di Ilan. Ma nessuno ha sentito niente. Nessuno ha notato niente. Nemmeno l’andirivieni di tutti quei giovani. Ilan è tenuto legato e imbavagliato dal giorno del suo rapimento, nutrito con una cannuccia. Gli danno quel tanto che basta per non farlo svenire, come i sacchetti di proteine acquistati in farmacia, un panino o dei dolci. Ogni tanto lo fanno fumare per stordirlo. Lo schiaffeggiano, lo picchiano sulla testa, sulla schiena, sulle gambe, sulla bocca, lo colpiscono con il dorso della mano o con il manico di una scopa. Di questa scopa si serviranno per simulare una scena di sodomia e fotografare Ilan in una posizione degradante. Andranno oltre. Gli tagliuzzeranno il viso con un taglierino su richiesta del capo che desidera mandare alla famiglia una foto “horror”. L’autopsia rivelerà un’incisione tra i sei e i sette centimetri sulla guancia sinistra. Fuori ci sono zero gradi, l’appartamento non è riscaldato e Ilan è stato completamente spogliato. Gli hanno tolto il golf, la maglietta, le scarpe, i calzini, i pantaloni, i boxer. Gli aguzzini mandano una foto alla famiglia con alcuni palloni colorati insieme a un “buon compleanno”. I boia di Ilan si divertono. “Festeggiano la loro vittoria”, scrive Ruth. “La vittoria d’aver catturato un ebreo, di averlo a disposizione e di massacrarlo allegramente”. Decine di persone sapevano delle torture inflitte per tre settimane a quel ragazzo ebreo che sognava di vivere in Israele. Una traduttrice e scrittrice americana che vive a Parigi, Nidra Poller, ha scritto sul Wall Street Journal che “ciò che più disturba in questa storia è il coinvolgimento di parenti e vicini, al di là del circolo della gang, a cui fu detto dell’ostaggio ebreo e che si precipitarono a partecipare alla tortura”.

Divenne tutto più chiaro quando l’allora ministro dell’Interno, Nicolas Sarkozy, annunciò che a casa del rapitore erano stati trovati scritti di Hamas e del Palestine Charitable Committee. La dissimulazione raggiunse il suo culmine quando la magistratura francese, Ilan ancora vivo, ritirò le copie del magazine Choc che aveva pubblicato la fotografia di Halimi in ostaggio, giudicandola “offensiva”. Si vede Ilan imbavagliato, una pistola alla tempia e la copia di un giornale. La stessa posa della famigerata fotografia di Daniel Pearl, il corrispondente del Wall Street Journal decapitato da Khalid Sheikh Mohammed. Il giornalista francese Guy Millière scrive che “le grida di Ilan venivano sentite dai vicini perché erano particolarmente atroci: gli assassini sfregiarono la carne del giovane uomo, gli spezzarono le dita, lo bruciarono con l’acido e alla fine gli diedero fuoco”. Il giorno in cui Ilan è stato giustiziato, racconta Fabrice, uno dei suoi carcerieri, “gli ho tagliato i capelli, Zigo e Nabil (altri due carcerieri, ndr) hanno detto che non erano abbastanza corti e l’hanno rasato con un rasoio a due lame”. Gli hanno tagliato persino i peli del corpo. Per non lasciare alcuna traccia del suo passaggio sulla terra. Ilan viene avvolto in un telo comprato al supermercato all’angolo, come si fa con i cadaveri. Fofana arriva nel profondo della notte. Quando Ilan lo guarda in faccia, l’islamista lo colpisce alla carotide con un coltello, poi un altro affondo. Poi un taglio alla base del collo, e al fianco. Torna con una tanica di benzina e gli dà fuoco. Finisce così la vita di un ragazzo ebreo di ventitré anni nel primo paese nella storia ad aver dato agli ebrei diritti civili. Ma quella era un’altra Francia. A un anno dalla sua morte, Ruth Halimi ha preso le spoglie del figlio e le ha tradotte in Israele, a Gerusalemme, dove oggi riposano. “Sentivo che era mio dovere di madre offrire a mio figlio un riposo che giudicavo impossibile qui. Perché è qui, su questa terra, che Ilan è stato affamato, picchiato, ferito, bruciato. Come riposare in pace in una terra dove si è tanto sofferto? Questa domanda, alla quale né le mie figlie, né il mio ex marito hanno saputo rispondere, ci ha convinti che Gerusalemme doveva essere la sua ultima dimora”. Questa Rachele moderna giustifica così la scelta: “Qualcuno avrebbe potuto sputare sulla sua tomba”. La Francia, per la madre coraggio, non meritava neppure il riposo del figlio. C’è una fotografia di Ilan Halimi, ha i capelli corti, una t-shirt, è felice, sorride alla vita, la abbraccia, la insegue. Quel sorriso mite e gentile di ebreo deve tormentare per sempre la cattiva coscienza dell’Europa. Il suo martirio nella banlieue è stata una nuova, piccola Vichy della compiacenza e dell’indifferenza.

(Fonte: Il Foglio, 18 Gennaio 2014, pag. 2)

Nella foto in alto: Ilan Halimi, vittima dell’odio antisemita

 

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