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Esco da Gerusalemme per andare verso Yam HaMelah, il Mare del Sale, rapidamente mi circonda il deserto, pochi chilometri per scivolare nella depressione.
La strada pare tagliare la terra, a tratti ai lati se ne vede la stratificazione, la densità. Boschi di palme da dattero, verdi rigogliose, circondate dal deserto.
La mente non è in grado di tradurre ciò che il corpo impara immediatamente: sono sotto il mare e vedo il mare sotto di me. I colori si trasformano, il blu del cielo è caldo, ha una consistenza più morbida. Il silenzio è liquido, oleoso. La roccia e la polvere del deserto possono essere rosa, sabbia, acqua marina, fiore che si trasforma in pietra trasparente.

“Mosè salì dalle pianure di Moàv fin sul monte Nevò, sulla sommità della vetta, di fronte a Gerico. E l’Eterno gli mostrò tutto il paese”
Mi trovo dentro la terra che Mosè abbracciò con lo sguardo, la Terra alla quale condusse il popolo che attraversò il Giordano di fronte a Gerico. Nel percorrere quei luoghi posso soltanto ascoltare il silenzio, immaginare ciò che avvenne. Le Paraschot che chiudono il ciclo annuale di letture della Torà mi riportano le parole di Mosè, sento tutta la tenerezza e la forza, l’ostinazione e la dolcezza della profonda relazione che, attraverso lui, conduce Israele a sé stessa completamente.
Mi immergo nelle acque del Mar Salato e mi abbandono, sono sdraiata dentro l’utero della terra, questo luogo raccoglie in se un’intensità potente, simile a quella di generare che è in ogni donna. Israele nasce alla vita dopo una lunga gestazione (quaranta anni le sue quaranta settimane), Mosè è madre e padre del nostro popolo. Ciò che mi commuove profondamente è la capacità di Mosè, come quella delle madri, di dare i propri figli al mondo, privarsi del legame viscerale e da quel momento dare a loro, a noi la possibilità di esistere, decidere, essere.
Uscire dalla schiavitù è difficile, è un cammino che siamo chiamati a ripercorrere, riscegliere e conoscere continuamente nella nostra vita. La Torà ci dona lo strumento ma ci racconta anche i nostri limiti, le nostre debolezze. I patriarchi e le matriarche ci consegnano le loro vicende personali e noi possiamo imparare dalle loro esperienze. Con l’aiuto della nostra tradizione i Rabbini hanno proseguito e proseguono attraverso la pratica e lo studio questo dono continuo, dialogo ininterrotto.
Nel farmi incontro al silenzio mi fermo a Qumram, molte domande, sensazioni strane si affollano in me ancora una volta, ogni volta che torno. Mi rendo conto che ebbero il grandissimo merito di trascrivere, nascondere e proteggere la Torà e di farcela ritrovare a distanza di quasi 2000 anni, restituendoci la perfezione del testo. Per il resto ciò che sento, visitando il luogo che abitarono, nel quale i rotoli furono ritrovati, è una grande distanza, il desiderio esplicito di percorrere un’altra strada di essere altro da loro. L’unico luogo d’Israele in cui sento che la mia storia si distacca da quella storia.
Quelli che decisero di stare a Qumran, vollero provare a ritrovare il contatto profondo con l’Eterno attraverso l’unico profeta “che incontrò l’Eterno faccia a faccia” (Devarim 34, 10) cercarono forse, stando di fronte al monte Nevò di ritrovare il punto di passaggio dalla schiavitù alla libertà?
Scordarono o seppero che l’ebraismo è vita, e che allo studio è sempre stata affiancata la pratica, la condivisione, la generazione della vita, rimasero schiavi di un idea, per questo non sopravvissero?
Guardando la ricostruzione della loro vita ho l’impressione di un dogmatismo antitetico alla tradizione ebraica. Scelsero la distanza.
Il Mar Salato è un momento, un luogo cui ogni tanto può essere utile tornare per provare a recuperare attraverso la sapienza del corpo la forza della nostra storia di schiave e schiavi divenuti liberi.
Quando visitai questo luogo la prima volta furono le acque del Mar Salato a restituirmi la vita, per questo motivo non mi riesce di chiamarlo mar morto.
Resto ora sospesa con lo sguardo colmo dell’amore di Mosè e trovo la forza di riprendere il cammino ed incontrare i gesti ed i luoghi della condivisione.
Mi assolvo dalla solitudine.

 

One Response to Yam HaMelah, “mare del sale”

  1. […] POST SCRIPTUM. Nel resoconto di questo viaggio non parlerò di Yam HaMelach – il mar Morto, oggi ribattezzato, non a torto, Sea of Life: ne potete trovare in abbondanza foto e racconti qui, alla voce “secondo viaggio” e, soprattutto, molto meglio di quanto mai potrei raccontarlo io, in questo straordinario concentrato di emozioni. […]

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