Pubblicato da ilblogdibarbara 10, 2014

Ricevo e pubblico questo interessante resoconto di un viaggio in Israele, che mi è stato inviato da OMAR PROIETTI.

Sono tornato alcuni giorni fa, da una visita di carattere istituzionale (la delegazione di cui ho fatto parte è stata ospite del ministero degli esteri) nello stato ebraico. E’ difficile condensare in un articolo, le considerazioni e gli spunti che il viaggio in Israele mi ha offerto. Mi limiterò pertanto, a mettere nero su bianco senza pretese di organicità ed in maniera sintetica, alcune impressioni così come mi vengono in mente.

Ero già stato nello stato ebraico vent’anni or sono ed oggi come allora (pur con i cambiamenti che inevitabilmente ci sono stati e sui quali accennerò qualcosa più oltre), ho percepito chiaramente un Paese vitale, dinamico, economicamente in crescita, proteso verso il futuro, come testimoniano le realtà avanzate (su scala mondiale) che vi si possono trovare nel campo delle innovazioni industriali, tecnologiche e nel settore emergente delle start-up. Ne abbiamo appreso o intuito l’importanza visitandone alcune, come le start-up a Tel Aviv, il Technion di Haifa ed un importante polo industriale a Nazareth creato e diretto da un imprenditore arabo-israeliano. Ovviamente, parliamo di realtà che vent’anni or sono quando misi piede laggiù non c’erano ancora od erano solo in fase embrionale essendo Israele sino ad allora, conosciuto da questo punto di vista solo per le innovazioni applicate con successo in campo agricolo. Da sottolineare come dato non certamente estraneo a quanto appena detto, la crescita demografica registrata, che è di sicuro rilievo se si pensa che solo venti anni fa la popolazione dello Stato si aggirava sui 5 milioni mentre oggi siamo quasi a quota nove. Significativo ed evidente poi anche solo rispetto a non molti anni fa, lo sviluppo urbanistico ed infrastrutturale sia di Gerusalemme (Ovest in particolare) e sia della stessa Tel Aviv, città modernissime quanto tante altre città europee o nord-americane e da questo punto di vista, lo stesso skyline di grattacieli visibile a Tel Aviv, costituisce un indubbio biglietto da visita.
Una premessa è forse doverosa; è difficile, direi quasi impossibile per un comune cittadino europeo (di sicuro se italiano) che non sia mai stato in quel Paese e che non ha nel corso del tempo studiato o letto qualcosa su Israele, farsi un idea anche minimamente corretta di cosa sia in realtà lo stato ebraico e di come ci si vive. Non è certo un caso, se è difficile trovare un italiano che dopo aver visitato per la prima volta Israele, non ti dica poi di essere rimasto del tutto sorpreso e colpito da quello che ha visto e toccato con mano per così dire. L’informazione su Israele qui da noi, è quasi esclusivamente concentrata sui problemi gravi (che ci sono intendiamoci) che quel Paese deve affrontare in ordine ai suoi rapporti con i palestinesi e i paesi arabi che lo circondano (e lasciamo stare perché non è questa la sede, le strumentalizzazioni e le manipolazioni che abbondano nei nostri mezzi di comunicazione, relativamente a questa problematica). Da qui, il fiorire nell’immaginario collettivo dell’opinione pubblica riguardo ad Israele, di qualche pregiudizio e di non pochi luoghi comuni.
Uno dei quali ad esempio, impedisce di comprendere come in diverse realtà e zone del Paese, la convivenza tra arabi (e non solo quelli con passaporto israeliano) ed ebrei, si svolge in un contesto di ordinaria tranquillità e di mutua collaborazione. Certo, c’è una parte sia pure minoritaria del mondo arabo-israeliano che guarda con una certa ostilità ad Israele e talvolta essa diviene manifesta, con risvolti anche preoccupanti. Un atteggiamento questo del resto, che fa il paio con una certa intolleranza anche religiosa e tipica oggi -purtroppo- di alcuni segmenti del mondo musulmano. Emblematico da questo punto di vista, il cartellone (in lingua inglese si badi bene) che è affisso oggi in una delle facciate della moschea islamica a Nazareth (città israeliana) e proprio a ridosso della Basilica dell’Annunciazione, contenente frasi ed espressioni chiaramente minacciose ed intimidatorie, rivolte ai cristiani. Diverso è il discorso che riguarda le altre minoranze presenti nello stato ebraico, vale a dire i beduini presenti nel Neghev ed i drusi (che pure sono arabi ma con una loro identità specifica che custodiscono con un certo orgoglio come abbiamo avuto modo di constatare visitando il loro villaggio di Isfiya sul monte Carmelo ed ascoltando durante il pranzo che ci è stato offerto, il discorso di un loro rappresentante). Entrambe queste comunità, hanno conosciuto tra luci ed ombre un significativo percorso di integrazione ed assimilazione nello stato d’Israele ed i loro membri svolgono servizio nell’esercito (i beduini su base volontaria) dove, in particolare i drusi, si distinguono per la loro affidabilità ed abilità, nonché per il loro relativamente alto numero di effettivi presenti anche nelle forze di sicurezza e di polizia. Non è forse superfluo precisare, che mentre gli arabi-cristiani hanno la facoltà (su base volontaria quindi) di arruolarsi nell’esercito, gli arabi-israeliani di fede musulmana sono esentati dal servizio militare (anche se si sono avute specifiche eccezioni) sostituito da un servizio civile volontario che è retribuito e che consente poi a chi lo svolge, di godere di alcuni vantaggi. Come molti sanno invece, il servizio militare in Israele (obbligatorio) ha la durata di tre anni per gli uomini e due per le donne.
La “città vecchia” di Gerusalemme, è un caleidoscopio di comunità e quartieri racchiuso in uno spazio ristretto e dove l’elemento legato alla religiosità è preminente e palpabile essendo un luogo sacro alle tre religioni monoteiste. E’ di sicuro per motivi assai ovvi che tralascio quindi di puntualizzare, uno dei luoghi più interessanti ed emozionanti del mondo. Senza dubbio suggestiva è la visita alla parte sotterranea del muro occidentale (il cosiddetto “muro del pianto”), sopravvissuto ma solo per volontà dell’imperatore, alla distruzione del secondo tempio ebraico perpetrata dai romani nel 70 d. c. La parte visibile e cioè esterna di questo muro quella a tutti nota, è solo una piccola porzione di esso, lunga appena 150 metri. Interessante -e forse poco conosciuta anche da noi mi sembra-, la descrizione delle tensioni a volte sfociate anche in episodi violenti, che hanno invece storicamente caratterizzato i rapporti tra le confessioni cristiane in ordine alla Basilica del Santo Sepolcro. La “gestione” di tale luogo sacro alla cristianità, è tuttora regolata meticolosamente e minuziosamente, da un accordo noto con il termine “status quo” raggiunto addirittura nel 1857 e che contempla peraltro anche una precisa scansione temporale per ciò che concerne la celebrazione delle liturgie. Non tutti sanno poi, che non essendosi le diverse confessioni cristiane accordate su chi di loro dovesse detenere le chiavi del portone della Basilica, la soluzione che escogitarono e che è tuttora operante, fu quella di affidarle a due famiglie musulmane che tale compito se lo tramandano di generazione in generazione. Ecco quindi che ogni sera, un musulmano viene a prendere la chiave salendo con una scala all’altezza di una finestra (posta dove si trova la decima tappa della via dolorosa se non ricordo male), per poi riportarla la mattina successiva.
La visita ad una base militare dell’IDF (l’esercito israeliano) e al nuovo edificio del valico di Erez che insieme a quello di Kerem Shalom posto a qualche chilometro di distanza, regola il flusso di persone automezzi e merci da e per la striscia di Gaza (flusso drasticamente ridotto da quando Hamas prese il potere nella striscia) entrambi a ridosso del muro di separazione, ci ha permesso di avere un punto di osservazione privilegiato su quello che è uno dei confini “caldi” di Israele, ma la situazione di tensione che si respira in quel lembo di terra e che diventa drammatica quando si accende il conflitto, la si avverte più concretamente visitando Sderot, la cittadina posta vicino ai confini meridionali dello Stato e notoriamente la più bersagliata dai razzi sparati da Gaza. Colpisce l’occhio del visitatore, la presenza relativamente numerosa di piccoli bunker di sicurezza disseminati lungo le arterie stradali cittadine, generalmente accanto alle fermate degli autobus, così come alcuni edifici di sicurezza assai più grandi, tipo il “Save a Child hearth”, quello nel quale vengono ospitati molti bambini quando suona l’allarme relativo ai razzi in arrivo e dotato di giochi e giocattoli per il loro intrattenimento. Anche qui, una visita allo “Sderot media center” struttura protetta che attraverso un moderno sistema informatico e di sorveglianza audio-visiva monitorizza la situazione durante le emergenze e quella successiva, al magazzino della polizia dove sono conservati i resti dei razzi caduti nell’area, ci ha offerto una panoramica si può dire completa, della situazione che si vive in città quando si accendono le ostilità con Gaza. Ora, è pur vero che i razzi in questione (i cosiddetti Qassam) sono di produzione artigianale, hanno una potenza esplosiva limitata e soprattutto (per fortuna) una precisione balistica alquanto approssimativa. In tutti questi anni, poche sono state le vittime civili e relativamente basso il numero di feriti nella stessa Sderot. E peraltro, c’è da dire che nelle ultime due situazioni di conflitto con Hamas, il sistema difensivo Iron Dome (Cupola di ferro) ha intercettato e distrutto la totalità o quasi dei razzi che si dirigevano verso i centri abitati. Ciò detto, non si può non tenere presente, quanto possa essere pesante e logorante per un intera popolazione, trovarsi sotto una pioggia di razzi e quali traumi psicologici una tale situazione può causare a tante persone, si pensi in particolare ai bambini. Sderot si trova in quella parte di terra israeliana considerata economicamente -dati alla mano- meno prospera e sviluppata specie in confronto al centro e al nord del Paese e la cosa balza in evidenza agli occhi di un attento osservatore, anche solo notando lo stato delle infrastrutture, il patrimonio edilizio ed abitativo e le stesse vie di comunicazione. Un ultima annotazione, fondamentale per capire le esigenze di sicurezza che hanno gli israeliani e per cercare di immedesimarsi con il loro stato d’animo da questo punto di vista, riguarda le ristrettissime dimensioni territoriali dello Stato. Per avere un idea della sua grandezza, basti osservare che lo spazio che occupa Israele (al netto della Cisgiordania o Giudea-Samaria) è inferiore a quello della Sicilia o del Piemonte. Un fazzoletto di terra cioè, circondato da nazioni e popolazioni ostili che vorrebbero annientarlo. Tornati a Tel Aviv stanchi morti, ci “immergiamo” in una sorta di piccola visita guidata nella “movida” notturna della città visitando alcuni locali. Un detto israeliano recita che “a Gerusalemme si prega, ad Haifa si lavora e a Tel Aviv ci si diverte”. In realtà, Tel Aviv che nella bella stagione sfrutta da ogni punto di vista il suo bellissimo lungomare, è una città animata e dedita al divertimento notturno e non, al pari di qualsiasi altra grande città europea. Interessante notare come la municipalità abbia fatto di Jaffa (così si chiamava la località araba prima del sorgere della Tel Aviv moderna) la parte vecchia della città ricca di siti storici, un luogo di attrazione turistica presso il quale vengono scattate tra l’altro le classiche foto da cartolina o depliant turistico, che ritraggono il lungomare sabbioso della città con il suo contorno di hotel e grattacieli. Da noi molto più prosaicamente, la località è conosciuta per essere il luogo d’origine dei pompelmi che prendono il suo nome e che si possono trovare nei nostri supermercati. Vi si trova un vecchio mercato (il Carmel Market) e più in generale è ammirevole sia la preservazione e valorizzazione dei suoi punti storici e sia il suo decoro urbano. Jaffa, che è ora uno dei quartieri di Tel Aviv, è abitata in larga maggioranza da popolazione di origine araba e costituisce un altro esempio di convivenza nei termini sopra accennati. Esempio che su scala più vasta, è notoriamente costituito da Haifa, la terza città di Israele, importante polo industriale e tecnologico e sede del più grande porto del Paese, città dove la presenza dei cittadini arabi (e segnatamente anche degli arabi cristiani) è significativa e non meramente come solo dato numerico. La visita al santuario e agli stupendi giardini Bahai, è una tappa difficilmente eludibile quando ci si reca ad Haifa.
Haifa è la sede centrale di questa religione monoteista, nata in Iran intorno alla meta del diciannovesimo secolo e tuttora perseguitata in quel Paese (nonostante sia fortemente minoritaria) dal regime teocratico degli ayatollah. Conta qualche milione di fedeli sparsi per il mondo. Non è evidentemente questa la sede per parlarne, mi limito a riportare sperando di ben interpretare quanto ci è stato spiegato, che tale religione nel sottolineare l’unità spirituale di tutta l’umanità, vede in Dio la fonte di tutta la creazione, riconosce l’unità della religione nel senso che tutte le grandi religioni hanno la stessa origine spirituale provenendo dallo stesso Dio, riconosce come sacri oltre ai propri, tutti i testi delle altre religioni monoteiste e spiega il legame dell’uomo con Dio così come si è configurato nel corso del tempo, attraverso il concetto di relatività e progressività della religione, con ciò profetizzando il superamento stesso della religione Bahai in virtù di quello che sarà il divenire storico.
La visita al kibbutz Ramot-Menashe situato lungo la direttrice che da Nazareth porta a Tel Aviv, meriterebbe un discorso a parte per l’importanza fondamentale che i kibbutzim hanno avuto nella breve storia del Paese. Piccole e povere comunità dedite a lavorare la terra, hanno cominciato ad insediarsi laggiù a partire dagli anni 10 del secolo scorso, costituite dai primi ebrei che fecero ritorno (l’“Aliya” in ebraico) alla terra dei padri. Sono poi fiorite nei decenni successivi, in occasione dell’arrivo di moltissimi ebrei contestualmente alla fine della seconda guerra mondiale e alla nascita dello stato d’Israele nel 1948. Avendo molti dei primi pionieri un orientamento socialista basato sulle utopie di uguaglianza caratteristiche di quel pensiero a cavallo tra il diciannovesimo e il ventesimo secolo, la vita in molti kibbutz è stata a lungo basata su regole rigidamente egualitaristiche e sul concetto di proprietà comune. Per diverso tempo, le condizioni di vita dei propri membri sono state spesso difficili ed inoltre, queste comunità dovevano provvedere autonomamente alla propria auto-difesa essendo circondate da popolazione araba ostile e ciò, può ben portarci a dire che il sistema dei kibbutz ha costituito storicamente il primo presidio armato e di sicurezza degli ebrei in Palestina, garantendo poi un terreno più favorevole per l’insediamento successivo dei tantissimi immigrati arrivati dopo il secondo conflitto mondiale e dopo la terribile persecuzione subita con l’Olocausto e favorendo al contempo la stessa creazione dello Stato ebraico. Il kibbutz è stato in altre parole, uno degli elementi fondamentali nello sviluppo di Israele. Ovviamente, per una serie di motivi alquanto comprensibili ma che qui sarebbe troppo lungo spiegare in parte comunque determinati dalla stessa modernizzazione e crescita economica del Paese, i kibbutzim hanno conosciuto negli ultimi quarant’anni un declino anche in termini di presenze che ha portato molti di loro a rivedere necessariamente le proprie caratteristiche sia di vita interna e sia produttive. Se per lungo tempo infatti i kibbutz si occupavano pressoché esclusivamente di attività agricole, negli ultimi decenni non pochi di loro si sono riconvertiti ad altri progetti produttivi mentre ce ne sono stati altri che si sono sostanzialmente trasformati in strutture ricettive ed alberghiere (alcune di lusso) aprendosi al turismo. In ogni caso ancora pochi anni fa (ultimo dato che ho disponibile), la produzione dei kibbutzim costituiva il 9% del prodotto industriale nazionale ed il 35-40% di quello agricolo. Il kibbutz di Ramot-Menashe al quale abbiamo reso visita, è piuttosto vecchio e porta i segni del tempo come un occhio attento non fa fatica a notare e fu fondato da reduci giunti dal porto di La Spezia, ebrei italiani e provenienti dal Sud America che decisero dopo le vicissitudini patite a causa del secondo conflitto mondiale, di emigrare in Israele.
La sosta al “Rabin Memorial” a Tel Aviv sorto nel punto dove il primo ministro fu ucciso il 4 Novembre del 1995 da un connazionale (cosa questa che si riteneva impensabile), un giovane estremista fanatico e squilibrato, evoca ricordi dolorosi ancora ben presenti nella coscienza degli israeliani. Come si usa sottolineare oggi in Israele, ognuno ha impresso nella propria memoria dove si trovava e cosa stesse facendo quella sera quando apprese la notizia. Un po’ come si è fatto negli Stati Uniti per tanti anni in relazione all’assassinio di Kennedy. Anche chi scrive, ricorda esattamente come apprese la notizia e come trascorse il resto della serata quel triste Sabato di 19 anni fa. Erano gli anni appena successivi agli accordi di Oslo, alla stretta di mano sul prato della Casa Bianca tra lo stesso Rabin e Arafat e una parte della società israeliana credeva fosse finalmente a portata di mano la possibilità di giungere non solo ad una pace durevole con i palestinesi e più in generale con il mondo arabo, ma anche all’avvio di una possibile era di rapporti costruttivi e di cooperazione. In realtà, come i fatti successivi si sono incaricati di dimostrare ancora fino ai nostri giorni, si trattava di aspettative frutto di analisi velleitarie quando non di vere e proprie illusioni. Non vi erano allora come non vi sono oggi purtroppo, interlocutori sia in campo palestinese che nel mondo arabo-islamico con le molto parziali e relative eccezioni della Giordania e dell’Egitto (e quest’ultimo solo se in mano a tipi come Mubarak o ai militari), con i quali Israele possa seriamente e costruttivamente aprire un dialogo vero e non di circostanza, finalizzato a definire un percorso virtuoso di pace e collaborazione. Questa è la triste ed amara realtà anche se ovviamente, nel corrente linguaggio della diplomazia non la si può certo sancire apertamente. Rabin, che non era di certo un ingenuo (al di là di certe interpretazioni strumentali ed interessate che specie qui in Europa sono state date post-mortem sulla sua figura) e che da soldato e generale aveva combattuto le sue guerre per difendere il Paese, era ben consapevole del peso della storia e delle enormi difficoltà che vi sarebbero state al fine di implementare e portare avanti il fragile percorso che prese il via nella capitale norvegese, ma aveva coraggiosamente deciso di non ignorare quel piccolo spiraglio che sembrava essersi aperto, decisione che pagò con la sua stessa vita.

OMAR PROIETTI

 

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