Uno dei prigionieri del terrorista al minimarket: ci ha detto che il suo obiettivo era colpire l’asilo Rue des Rosiers, nel quartiere ebraico di Parigi

11/01/2015
CESARE MARTINETTI
PARIGI

Alla fine dell’ufficio, al momento del kiddush, la benedizione del vino dello shabbat, tutti si stringono intorno ad Elie e gli chiedono di raccontare. Sanno che ha da dire una cosa terribile, più ancora di tutto quello che è successo in questi giorni a Parigi: Amedy Coulibaly, il killer di Porte de Vincennes, voleva fare una strage di bambini alla «maternelle» ebraica di rue Gabriel a Chatillon-Montrouge. Solo il caso l’ha fermato.

E come fa questo Elie O., ebreo di origine marocchina, a saperlo? Perché lui era uno dei sedici ostaggi dell’epicerie «Hyper cacher» dove Coulibaly, venerdì, a partire dalle 13 si è infilato bardato come se dovesse andare alla guerra. Un kalashnikov in mano, un altro a tracolla, almeno una pistola, un bel po’ di esplosivo. È entrato sparando e tre delle sue quattro vittime sono morte subito, l’altra poco dopo. Nelle interminabili quattro ore di assedio, prima di morire fulminato dalle teste di cuoio della gendarmiere, Elie ha scambiato qualche parola con lui: «Diceva che il giorno prima, giovedì mattina, avrebbe voluto sparare sui bambini della scuola ebraica di Montrouge». Perché? «Per vendicare quelli palestinesi uccisi a Gaza».

La poliziotta uccisa
Ma c’è stato un imprevisto: un piccolo incidente con l’auto proprio quando stava parcheggiando davanti alla scuola. La giovanissima poliziotta municipale di guardia alla materna, si è avvicinata e lui le ha sparato. Uccisa a freddo. Aveva 20 anni, era stata assunta da venti giorni come stagista. E così il giorno dopo Coulibaly si è diretto alla Porte de Vincennes. Obbiettivo l’«Hyper cacher» perché «lì ci sono gli ebrei».

Tutto questo ce lo racconta Shlomo Malka, direttore della redazione de «l’Arche», la rivista del giudaismo francese, intellettuale, saggista, studioso del filosofo Emmanuel Levinas. Malka era ieri mattina alla sinagoga di avenue Versailles, nel sedicesimo arrondissement di Parigi, dove Elie ha fatto il suo racconto. Una delle non molte sinagoghe aperte: «Nemmeno dopo l’11 settembre, era forse dai tempi della guerra che non accadeva».

La tensione resta alta
Un’altra giornata di tensione, a Parigi. Allarme per le voci di colpi di pistola a mezzogiorno nella sinagoga del 19° arrondissement. Allarme per una bomba sul cours de Vincennes, quasi davanti all’«Hyper cacher» che anche da lontano appare un luogo carico dal peso della morte: le saracinesche bianche sconquassate e abbassate, un’area di terra di nessuno delimitata dalle transenne. Poliziotti ovunque. Una ventina di parabole e postazioni delle tv di tutto il mondo che stazionano davanti, come se dovesse risuccedere qualcosa.

E invece per fortuna non succede nulla, non c’era nessuna bomba, come non c’è stata nessuna sparatoria nel 19°. Un anziano abitante del quartiere – «non ebreo» – racconta che l’«Hyper cacher» era stato aperto da non molto, 3-4 anni, in questo angolo del 12° arrondissement detto di Saint-Mandé. Qui, ci dice il nostro abitante di questa zona apparentemente molto popolare, vivono da anni molti ebrei. «Ma non proprio qui, più in là, verso il bosco di Vincennes, dove le abitazioni costano care come nel centro di Parigi». E lei ci veniva a far la spesa nell’«Hyper cacher?». «No, perché non mettevano i cartellini con i prezzi sui prodotti. Ecco, io credo che non sia giusto questo, lo dice la legge, bisogna sapere quando si spende…».

Idee antisemite
Non vogliamo dare nessun valore statistico a questa chiacchierata casuale, ma in quattro parole questo pacifico francese che avrà settant’anni ha infilato due pregiudizi sugli ebrei: che sono ricchi e che truffano nel commercio. Shlomo Malka ci dice che nel numero appena uscito de «l’Arche» si trova un’indagine di Dominique Reynié, politologo di Sciences-Po, sulla società francese dove si legge che «le opinioni antisemite raggiungono un’alta intensità», sia pure in ambienti relativamente circoscritti e che i musulmani antisemiti hanno assorbito cliché dalla vecchia sottocultura francese, a cominciare dal fatto che gli ebrei sono ricchi e manipolano giornali e informazione.

Secondo Malka, questi tre killer che in tre giorni hanno ucciso 17 persone (e c’è anche qualche ferito grave) erano organizzati, non si sono mossi casualmente, a cominciare dal fatto che sono entrati in azione il giorno dell’uscita del romanzo «Soumission» di Michel Houellebecq, che viene ormai percepito come una traccia involontaria degli avvenimenti. «D’altra parte – dice Malka – vi si legge di una Parigi con i cadaveri per strada. Non è successo questo? E lunedì e martedì, resteranno chiuse molte scuole, anche la Maimonide di Boulogne-Billancourt, la più grande di Parigi. Sottomissione, appunto…».

Il viaggio di ritorno
Hanno paura gli ebrei di Parigi? «C’è molta inquietudine, non da adesso. Stamattina il “Figaro” titolava: è finita! Ecco, io ho paura che sia appena cominciata». Cresce il numero di quelli che fanno l’«aliyà» il viaggio di «ritorno» in Israele. «E anche questo c’è nel libro di Houellebecq, laddove una delle amanti del protagonista, Myriam, racconta che a lei piace vivere a Parigi, mangiare i formaggi, etc, ma i suoi genitori la obbligano a partire».

Oggi è la grande giornata della manifestazione. «Se escludono la Le Pen fanno un grande errore», dice Malka, non perché la pancia di quel partito sia cambiata, benché lei abbia tentato qualche approccio, ma perché «unità vuol dire unità». C’è stato chi ha proposto di diffondere lo slogan «je suis juif» accanto a quello «je suis Charlie Hebdo». Malka sorride amaro: «Sarebbe bello je suis Charlie juif… ma non si farà».

 

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