di Ariel Shimona Edith Besozzi
2 Mar 2015

Ester viene fatto derivare dalla parola ebraica hastèr, che significa nascondere. Quando divenne regina essa nascose le proprie origini. Oggi ci viene spesso detto che per vivere in diaspora è meglio nascondere la propria identità ebraica. Ci viene consigliato dai capi delle nazioni nelle quali viviamo e siamo nati e spesso noi stessi cerchiamo di trovare soluzioni che in una certa misura “attutiscano” l’immediatezza della percezione da parte degli altri del nostro essere ebree ed ebrei. Ce lo dicono, ce lo ripetono e cercano di dimostracelo a tutti i costi, e noi stessi sappiamo che camminare per le vie di Parigi, di Copenaghen, ma anche di Milano e Roma con la kippà e con gli tzitzìt suscita reazioni aggressive, che possono anche tradursi in violenza fisica, in omicidio. A questo, si aggiunge da sempre la necessità di presidiare con la sicurezza i luoghi ebraici (sinagoghe, scuole… ora forse anche negozi kosher), ci viene detto che una volta usciti dobbiamo “disperderci in fretta”, mescolarci agli altri, divenire invisibili. Ci viene detto che questo è per proteggerci, che, in qualche modo, meno siamo identificabili, meglio è. A parte l’assurdo di questa richiesta che denuncia l’incapacità da parte di questi stati di rendere la nostra vita serena come quella degli altri, ciò che mi colpisce è il fatto che ci si debba nascondere per lo più attraverso una spoliazione.

Ci viene detto di non mettere la kippà a meno che non sia nascosta sotto un cappello. Non sembra, ma anche in questo caso avviene una spoliazione perché i nostri uomini, i nostri bambini vengono spogliati della possibilità di portare la kippà. Portare gli tzitzit è ancora più difficile e viene considerato, oltre che pericoloso perché permette di individuarci, in un certo senso anche una ostentazione un poco eccessiva… Diverse volte mi è stato chiesto perché gli uomini non tengono le frange dentro i pantaloni, perché si ostinano a mostrarle.
Coprendomi, rispetto me stessa
Per una donna le cose sono di poco differenti. Alcune delle persone con le quali lavoro mi hanno mostrato tutta la loro insofferenza chiedendomi che bisogno ci fosse di coprirmi il capo oppure perché in estate non lascio almeno le braccia nude. Qual è poi la necessità di indossare gonne così lunghe? La frase più frequente è “ma non ti sembra di esagerare?”. Ho provato, soprattutto con alcune, a parlare, ma di fronte all’insistente richiesta di spiegare il perché, non mossa dal desiderio di comprendere ma da quello di giudicare, ho taciuto. Non penso di dover spiegare per quale motivo non mi scopro, per quale motivo rispetto il mio corpo ed attraverso questo, rispetto il legame particolare ed unico con mio marito. La parashà di Terumà ci ha appena ricordato che “il Mishkàn fu costruito a somiglianza del corpo umano per insegnarci che ogni ebreo che santifica se stesso può divenire una dimora della Presenza Divina”.
La richiesta comunque è sempre quella: non tanto di nascondere quanto di spogliarsi, spogliarsi anche della catenina con il maghen david; poi, se proprio si insiste a volerla portare, almeno non la si metta fuori. Anche l’ingresso delle nostre case deve spogliarsi, la mezuzà le rende riconoscibili, individuabili e quindi attaccabili e allora dovremmo spogliarcene. Anche l’attacco al negozio kosher rappresenta una richiesta di spoliazione, la richiesta di rinunciare a mangiare kosher.
Un pezzo dopo l’altro, la confusione tra capacità di vivere insieme e la necessità di non essere più se stessi diventa il pretesto perché noi rinunciamo, ci spogliamo completamente della nostra identità, della nostra storia, della nostra tradizione, della nostra fede.
Dal singolo allo Stato
Come ci viene chiesto di spogliarci quali singoli, così ci viene chiesto di spogliarci come Stato. Viene chiesto ad Israele di spogliarsi di parti essenziali della propria terra o, ancora meglio, della sua totalità. Ci viene chiesto quindi di fare di Israele una nazione senza terra, come a noi viene chiesto di non rendere evidente la nostra identità. Alcuni di questi elementi, di cui ci viene chiesto di spogliarci, sono mitzvòt, come possiamo non adempiervi?
Quello che mi domando è che cosa ammala la società nella quale viviamo e abbiamo sempre vissuto, da portarla a spogliarsi e spogliare l’altro di ogni cosa? Questo bisogno di non distinguere che si traduce spesso nell’incapacità di prendere poi una posizione, di assumersi una responsabilità? Quale difficoltà si cela sotto questo bisogno di non riconoscere, di non conoscere, di non sapere?
Siamo abituati ad interrogarci, interroghiamo i nostri testi ed i nostri cuori in continuazione, in una profonda ed intensa relazione, quella con D-o, che ci restituisce il senso senza mai lasciarci soli. Per questo forse siamo stati capaci di non lasciarci spogliare nel corso dei secoli senza mai per questo cadere in un atteggiamento di rigidità o di dogmatismo. Il senso di responsabilità verso D-o, verso il nostro popolo, verso noi stessi è vivo e capace di vivere nonostante questa richiesta di spogliazione, di rinuncia abbia attraversato il tempo e si ostini a cercare di non farci esistere più. Abbiamo imparato che rinunciare non ci ha salvato dalle persecuzioni, tutt’altro. Piuttosto i giorni, la vita mi insegnano che essere, senza paura, senza ostentazione ma con fermezza restituisce molti amici. Sapere chi siamo rende l’altro privo di pregiudizi, che magari è sinceramente curioso, capace di riconoscerci e di rispettarci. Non occorre spogliarsi anche perché chi ci chiede di farlo non ci rispetterebbe e non ci accoglierebbe comunque, non lo ha mai fatto. Restiamo fedeli a noi stessi, nella gioia profonda di questo mese di Adar.

arielshimonaedith.wix.com
da “Latte e Miele” speciale Purim
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