Ariel Shimona Edith
1 Maggio 2015

Oggi è il primo maggio, festa dei lavoratori, una festa che per una grande parte della popolazione rappresenta né più né meno che una giornata come le altre: molti di quelli che non lavorano negli altri giorni, non lavorano neppure oggi, molti di quanti lavorano, oggi lo faranno.
Probabilmente quando è stata istituita voleva rappresentare qualcosa di significativo, credo l’intento fosse mettere al centro il lavoratore, piuttosto che il lavoro. Credo sia questo il motivo per il quale nel giro di circa un secolo, un tempo direi piccolo rispetto all’esistenza di società organizzate nella storia umana, questa ricorrenza ha perso il proprio senso.
L’intento fu certamente nobile e positivo, si riteneva di dover mettere in luce le conquiste ottenute dai lavoratori e dalle lavoratrici in campo economico e sociale nella seconda metà dell’ottocento ed il movimento sindacale che nacque in quell’epoca e che si sviluppo successivamente fino ad oggi condusse indubbiamente battaglie di senso.

Allora per quale motivo oggi molte delle persone che lavorano sono costrette a lavorare nei giorni festivi? Perché da molti decenni ormai in molti paesi, compresa l’italia, non viene più neppure garantito il riposo settimanale in un giorno condiviso?
A mio avviso questo accade perché il presupposto di partenza è parziale, relativo, inconsistente: ciò che viene messa al centro non è la conquista della libertà, personale e collettiva, bensì la schiavitù.
Ciò che viene messo al centro non è la persona con la propria dimensione identitaria e collettiva d’essere umano parte di una società organizzata che all’interno di questa sviluppa se stesso e contribuisce allo sviluppo dell’insieme. Ciò che viene messo al centro è la definizione di sé attraverso un unica possibilità: il lavoro svolto.

In questo modo il lavoro perde la propria capacità creativa e di arricchimento personale e collettivo per trasformarsi in schiavitù. Non mi riferisco qui ad una schiavitù determinata dalla contrapposizione tra lavoro e capitale (esiste ma non è così importante a mio avviso) mi riferisco invece alla schiavitù che l’individuo determina su se stesso identificandosi con il proprio lavoro e non riuscendo quindi a dare il corretto valore al riposo, alla condivisione, allo spazio famigliare, all’incontro ed alla condivisione sociale, alla relazione con la parte più profonda ed importante di sé. Mi riferisco alla dimensione di schiavitù cui l’individuo, incapace appunto di relazionarsi con l’opportunità profonda e rigenerante del riposo nella sua accezione più piena, condanna l’altro da sé a produrre costantemente servizi, luoghi, attività che sente necessarie per potersi distrarre dalla propria schiavitù dal proprio essere solo in determinazione di ciò che fa.
Questo ha dato luogo alla diffusa “esigenza” di avere sempre a disposizione negozi aperti, attività commerciali e di servizi sempre disponibili…
Esiste, è vero anche una difficoltà a trovare un lavoro (particolarmente in italia) che determina una dinamica complessa ed articolata di ricatto per cui sembra necessario essere continuamente a disposizione del lavoro per poterselo tenere o per poterlo avere. Ma questo è un fenomeno molto più recente che paradossalmente è cresciuto nella misura in cui è cresciuta l’incapacità di riposare, di fare pausa tutti insieme almeno un giorno alla settimana.
Esiste una sorta di ingordigia, non sempre legata alla voglia di accumulare od aumentare la propria ricchezza, ma piuttosto all’incapacità di essere ed esistere a prescindere dalla propria azione trasformativa sul mondo.
Rispettare lo Shabbat è assai complesso in una società come la nostra proprio perché ci domanda di non fare alcuna azione trasformativa, ci domanda di dedicare noi stessi alla cura delle nostre relazioni: quella con il Signore (per chi è credente), quella con la nostra famiglia, quella con la nostra comunità, quella con noi stessi.

Chi critica, anche nella stessa Israele, l’ostinazione dei religiosi a volere che tutti rispettino lo Shabbat, non facendo circolare neppure i mezzi di trasporto, per esempio, non si rende conto di quanto questa istanza sia in sé liberante, per tutti, particolarmente per le persone non religiose. Sono infatti proprio le persone non religiose ad avere bisogno di “essere costretti” ad assaporare e conoscere il riposo, quello pieno, quello dello Shabbat.
A volte la libertà ha bisogno d’essere conosciuta per essere vissuta e quindi rivendicata. Per comprendere dobbiamo fare ed in questo caso fare posto allo Shabbat ci aiuta a comprendere.
Lo Shabbat è stato istituito molti secoli fa, in una società in cui vigeva la schiavitù, è stato detto, “dal più grande sindacalista” di tutti i tempi “per sei giorni lavorerai e compirai tutte le tue attività, ma il settimo giorno è Shabbat per l’Eterno, il tuo Signore. Non dovrai fare nessun lavoro, né tu, né tuo figlio, né tua figlia, il tuo servo o la tua serva, né il tuo bue, il tuo asino o ogni tuo animale, né lo straniero che si trova nella tua città, in modo che il tuo servo e la tua serva riposino come te.” Da questa indicazione, come da altre nasce una società in grado di lavorare ma anche di smettere di farlo, una società che impara a rispettare il bisogno di riposo di se stessa, della terra, degli animali, una società che nutre la vita, una società in grado di rivoluzionare davvero il mondo…

Vorrei invitare tutti, credenti e non a provare per una volta a fare Shabbat, a farlo davvero, a preparare ogni cosa prima, a stare per 25 ore con la vostra famiglia, senza dover andare a fare la spesa, cucinare, lavare, stirare, andare a fare compere, andare al cinema, guardare la tv, andare a teatro… limitando le proprie passeggiate alla città in cui si abita, senza portarsi dietro nulla… senza parlare o pensare a nulla che abbia a che fare con il lavoro, con i soldi…
Vestitevi con cura per stare con la vostra famiglia, apparecchiate la tavola invitate gli amici ed i parenti a condividere con voi questo tempo così speciale di condivisione totale. Un credente legge e studia Torah, per un non credente potrebbe essere comunque interessante farlo, è sempre possibile porsi in ascolto senza necessariamente essere religiosi, ascoltare o leggere il commento di un Rabbino, contemporaneo o meno, è stimolante a prescindere… Parlate tra voi di ciò che sta dentro, nel profondo, fate in modo che il mondo introno a voi si zittisca per contenere il canto che accoglie la Regina Shabbat.

Nell’antica Roma gli ebrei venivano accusati di pigrizia per la loro ostinazione a voler rispettare lo Shabbat. Ciò che però risulta evidente è che l’impero romano si è presto istinto, Israele, il popolo ebraico, che osserva lo Shabbat e che conserva il legame con la propria tradizione è vivo e cresce. Credo che, anche in questi tempi di crisi economica, come è stato nei secoli nei momenti di difficoltà e carestia, sia possibile ancora e ancora scegliere di rispettare lo Shabbat, scegliere di mettere al centro le relazioni, il rispetto per la vita. Credo che oggi, molto più che in passato sia necessario imparare a fare Shabbat, perché lo Shabbat possa essere per tutti: animali, terra, amici, persone che lavorano per noi, persone che lavorano con noi, persone che attraversano il luogo in cui abitiamo!

Ariel Shimona Edith Besozzi

arielshimonaedith.wix.com

 

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