Nel mondo di menzogne e corruzione in cui vive e prospera da anni il biscazziere di Ramallah, Abu Mazen, una speciale menzione merita Saeb Erekat. Erekat gestisce da tempo due parti in commedia (il numero minimo consentito sul palcoscenico delle molteplici identità palestinesi), quello di negoziatore e di megafono per la propaganda dell’Autorità Palestinese. Bisogna qui fare un piccolo inciso. L’ufficio propaganda palestinese con sede a Ramallah e filiali in tutto il mondo è un prodotto di varie sedimentazioni. Una prima sedimentazione è natia, si tratta del buon suolo arabo-musulmano che nei secoli si è distinto per molte fantastiche narrazioni e metanarrazioni, la più vecchia delle quali sarebbe che le Scritture ebraiche (la Tanakh) sarebbero in realtà un testo musulmano da cui gli ebrei avrebbero espunto ogni riferimento a Maometto e alla religione originaria dell’umanità.

Questa prima sedimentazione è essenziale per capire la mentalità musulmana e poi quella araba, forgiatrici di “Mille e una Notte” e fabulazioni continue dentro le quali la storia con le sue consequenzialità, la sua inesorabile cronologia, si disarticola per diventare un gioco di incastri anacronistici, scambi di persona, vertici assurdi che avrebbero fatto impallidire il Barone di Munchausen.

In questo teatro onirico Abramo ha partecipato alla costruzione della Kaba, il figlio che doveva sacrificare non era Isacco ma Ismaele, Maria di Nazareth è la sorella di Aronne, Gesù è nato sotto una palma e la moschea di Al Aqsa non solo precede il Tempio di Salomone ma esiste dall’inizio della creazione. La seconda sedimentazione è made in Germany e ha impresso il sigillo della svastica. Recentemente è stato Netanyahu a ricordare, suscitando polemiche a non finire, il ruolo di affiliazione tra Amin al-Husseini e Adolf Hitler. Ruolo ben documentato e indiscutibile. La terza sedimentazione è sovietica. L’URSS, inizialmente sponsor di Israele, nel ’57 modifica di 180 gradi il proprio assetto mentale forgiando le parole d’ordine che sarebbero diventate immarcescibili per definire lo stato ebraico, “imperialista” e “colonialista”.

Yasser Arafat, il terrorista egiziano finto palestinese e Fratello Musulmano, che nei suoi tour mondiali girava travestito come un Che Guevara con la kefiah, ebbe come levatrici il Mufti nazista di Gerusalemme e ottimi burocrati sovietici. Buon sangue, come si suol dire, non mente. Saeb Ereket, (a lui torniamo dopo il lungo preambolo), è un prodotto di tutto ciò, si iscrive dentro una cornice ben precisa. E’ essenziale conoscere la cornice per collocare il fenomeno, così come è essenziale farlo per qualsiasi fatto della natura e della storia. Se manca il contesto di riferimento non sappiamo di cosa stiamo parlando. E oggi molti dei parlanti che si ascoltano non sanno di cosa parlano (parecchi lo sanno ma in malafede fingono di non saperlo), e si rivolgono a un pubblico che ne sa molto meno di loro.

Perché ne parliamo? Perché recentemente il negoziatore-propagandista ha prodotto un documento per i media dal titolo emblematico: “Punti chiave da ricordare quando si informa sulla Palestina occupata”. Il verbo “informare” per Ereket ha lo stesso significato che aveva per Joseph Goebbels.

Il documento è costituito da dieci punti. Non li elencheremo anche perché si riassumono nell’ormai consolidata narrativa dell’occupazione israeliana della terra “nativa” dei palestinesi, della lotta di resistenza dei nativi oppressi, dello stato di apartheid a cui sono costretti, della colonizzazione e di altre cose, tra cui l’invocazione della protezione internazionale per difendere i diritti conculcati al popolo autoctono.

Questo castello di menzogne alla cui demolizione basta una discreta conoscenza della storia e della realtà fattuale, è, come tutto ciò che produce l’Autorità Palestinese, il simbolo di un continuo gigantesco fallimento. Il fallimento della classe dirigente arabo-palestinese, plasticamente evidente nella sua radicale incapacità di fornire un’alternativa storica al proprio popolo, continuando a propagare la solita putrescente propaganda, frutto di una mentalità chiusa in una autoreferenzialità senza via di scampo.

Il dramma dei Saeb Erekat e degli Abu Mazen, di tutta l’Autorità Palestinese, ma anche di Hamas, Fatah e dei loro affiliati è quello di essere condannati a replicare all’infinito il proprio ruolo di sconfitti. Pietrificati nell’odio, nella frustrazione, nel vittimismo e incapaci di uscirne nell’unico modo ragionevole, accettare Israele, riconoscere confini negoziati, fare nascere un loro proprio stato. Ma questo non accadrà, e dunque continueranno a perpetuare se stessi dentro questo loop che hanno generato, mentre Israele proseguirà nel fingere di credere che una soluzione sia possibile, aumentando nel frattempo le proprie risorse per difendersi e crescendo in risorse tecnologiche. E’ questo l’implacabile divario tra una società evoluta, con le proprie radici valoriali e culturali ben radicate in occidente, una società sempre protesa verso il futuro e che il futuro ha realizzato a costo di enormi sacrifici, investendo risorse di uomini e idee, e una società autovittimizzata, rancorosa e involuta che nel corso dei decenni ha saputo produrre solo violenza e terrorismo.

Niram Ferretti,  L’Informale, 26/11/2015

 

 

 

 

 

 

 

One Response to Saeb Erekat e il mondo delle menzogne

  1. Claudio ha detto:

    Sicuramente vado un po’ fuori tema. Mi ricollego però all’espressione dell’articolo: “Pietrificati nell’odio, nella frustrazione, nel vittimismo e incapaci di uscirne …”

    Da un po’ di tempo faccio un ragionamento probabilmente troppo semplicistico, ma ho l’impressione che sia più vero di quello che possa apparire. (Tra l’altro recentemente ho sentito considerazioni analoghe da altre persone).
    Parlo dei Palestinesi, ma credo che il discorso possa valere per altri paesi di questa terra.
    Fatte le dovute distinzioni, eccezioni, ecc., a volte ho l’impressione che, se ai palestinesi non porti un paio di bretelle o una cintura, loro i pantaloni continuano a tenerli su con le mani, sempre che siano riusciti a procurarsi o fabbricarsi un paio di pantaloni.
    Allo stesso tempo i palestinesi vedono che gli israeliani “portano tutti le bretelle” e hanno le mani libere per altre attività.
    Questo per dire: a mio modestissimo parere e con le limitate conoscenze che ho della situazione locale, mi sembra che la popolazione dei territori palestinesi riveli alcune “qualità”, come: disorganizzazione, litigiosità, mancanza di imprenditorialità, inefficienza, fanatismo religioso musulmano, scarsa intraprendenza, ecc. ecc. che impediscono loro di vivere in una società moderna, ben organizzata e che permetta una vita serena. Poco più in là, vedono che c’è Israele con la sua modernità, efficienza e standard di vita a livello europeo. Il tutto creato in pochi decenni… e i palestinesi non sono riusciti a farlo in secoli.
    Allora forse, non è tanto un problema culturale-religioso-territoriale, ma è una questione di soldi e di benessere. Sarà mica invidia? O sbaglio?

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