Israele può vantare molti record. In trent’anni, il suo prodotto interno lordo è aumentato del 900 per cento; la pressione fiscale è scesa dal 45 al 32 per cento; gli aiuti americani erano il dieci per cento del pil, mentre oggi solo l’un per cento; le esportazioni sono aumentate dell’860 per cento; trent’anni fa Israele non aveva fonti indipendenti di energia, mentre oggi il 38 per cento proviene dalle proprie risorse; e se non c’era acqua desalinizzata trent’anni fa, oggi oltre il 40 per cento dell’acqua consumata proviene da impianti di desalinizzazione.

Un recente studio condotto dall’Economist ha cercato di indovinare dove sarebbe meglio vivere nel 2030. Israele è al ventesimo posto, prima di Regno Unito, Francia, Italia, e Giappone. I tassi di mortalità in Israele sono i secondi più bassi dell’Ocse. E per il Wall Street Journal, Israele è il secondo paese più colto del mondo, dietro il Canada e prima del Giappone. Da anni, gli israeliani sono più felici di quanto non siano la maggior parte delle persone nel mondo occidentale.

Per la maggior parte degli indicatori sulla qualità della vita, Israele è conforme ai paesi sviluppati: la maternità infantile è bassa e l’aspettativa di vita di 82 anni è la più alta in Asia occidentale. Con gli indicatori di salute tra i primi dieci paesi al mondo, la popolazione presenta alti livelli di istruzione e di reddito in crescente aumento. Ma c’è un record che rende unico questo paese, ed è perfino surreale per lo stato ebraico, uno stato-guarnigione che finisce sui nostri notiziari della sera soltanto per i morti del terrorismo e per le guerre terribili, le maschere antigas, i bunker a prova di missile, gli accoltellamenti, i kamikaze. Quel record è il tasso di fertilità.

Il “campo della pace” in Israele e i suoi sostenitori internazionali hanno utilizzato a lungo questo argomento grezzo ma potente: gli arabi fanno più figli degli ebrei e se non si crea uno stato palestinese indipendente, una bomba a orologeria demografica trasformerà Israele in un apartheid sullo stile dei sudafricani bianchi. Tale prospettiva certamente sembrava reale quando il processo di pace di Oslo ha avuto inizio nel 1990. La fertilità tra gli ebrei israeliani si attestava a una media di 2,6 figli per donna, rispetto a 4,7 tra i musulmani in Israele e a Gerusalemme Est e sei tra i palestinesi a Gaza e Cisgiordania. Yasser Arafat dichiarava orgoglioso che il ventre della donna palestinese è l’arma più potente del suo popolo. La paura demografica ha motivato l’allora primo ministro Ehud Olmert a offrire ai palestinesi metà di Gerusalemme e la quasi totalità della Cisgiordania in cambio di un accordo di pace (fallito) nel 2007. Tutte le concessioni israeliane sono state motivate dalla paura della fecondità araba.

Eppure, come racconta ora il Wall Street Journal, “negli ultimi dieci anni si è verificata una rivoluzione demografica con conseguenze politiche di lunga durata”. In meno di vent’anni, il numero annuo di nascite fra gli ebrei israeliani è salito del 65 per cento, passando dalle 80.400 nascite del 1995 alle 132 mila del 2013. Il tasso di natalità degli ebrei in Israele ha avuto un incredibile balzo in avanti, mentre il tasso di natalità fra gli arabi è molto diminuito. Il tasso di fertilità ebraica in Israele è stato di 3,11 figli per donna nel 2014, l’ultimo anno completo per cui sono disponibili i dati, mentre tra i cittadini arabi di Israele e di Gerusalemme est era solo una tacca più alta a 3,17, secondo le statistiche ufficiali di Israele. I tassi di fertilità palestinesi sono scesi a 3,7 in Cisgiordania da 5,6 nel 1997 e a 4,5 da 6 nella Striscia di Gaza. La scolarizzazione, la pianificazione familiare e l’occidentalizzazione hanno fatto scendere il tasso demografico degli arabi, mentre lo stesso è cresciuto per gli ebrei israeliani.

Nei quindici anni dal 1994 al 2009, il numero delle nascite arabe in Israele è rimasto stabile intorno a 39 mila, mentre le nascite di ebrei sono passate da 80 a 120 mila. L’Europa meridionale, dalla Spagna all’Italia, è votata al suicidio demografico con tassi di 1,4 figli per donna. Stesso scenario per l’Europa dell’est, che sta vivendo l’unica perdita di popolazione dalla fine della Seconda guerra mondiale. La Germania è scossa da una guerra silenziosa, una vera e propria “carestia delle nascite”. Vanno un po’ meglio, con tassi di fertilità attorno a 1,8, Francia e Inghilterra, grazie soltanto al contributo delle comunità islamiche. Vanno male gli Stati Uniti, dove escono libri come “What to Expect When No One’s Expecting?” di Johnatan Last, in cui sono spiegate cause e conseguenze dal calo della fertilità americana, un tasso che è attorno all’1,9 soltanto perché i figli della crescente comunità ispanica alzano la media.

Poi c’è Israele, questo piccolo paese, enclave occidentale conficcata nel cuore del mondo islamico, che è da anni e di gran lunga il paese più demograficamente prolifico tra le economie avanzate del mondo. Gli ebrei israeliani hanno oggi più figli, in media, persino dei prolifici egiziani o libanesi. “Questa è l’unicità di Israele, che non troverete in nessun’altra società in tutto il mondo”, ha detto Arnon Soffer, professore presso l’Università di Haifa e uno dei maggiori demografi del paese. Sorprendentemente, questo baby boom sta avendo luogo soprattutto tra gli ebrei laici o moderatamente religiosi.

Negli ultimi dieci anni, i tassi di fecondità sono diminuiti nella comunità ultraortodossa. A differenza di venti anni fa, quando gli ebrei laici nell’area metropolitana di Tel Aviv potevano avere uno o al massimo due bambini, oggi il loro numero è cresciuto fino a tre o quattro.

Se i tassi demografici rimarranno inalterati, Israele avrà una popolazione più grande della Polonia nel 2085. Ancora più notevole è che Israele avrà in assoluto più giovani rispetto all’Italia o alla Spagna e un numero pari a quelli della Germania alla fine del secolo, se il tasso di incremento della fertilità rimarrà invariato. Un secolo e mezzo dopo l’Olocausto, cioè, lo stato ebraico avrà più uomini in età di vestire una divisa, e sarà in grado di mettere in campo un esercito di terra più grande di quello della Germania. Il 28 per cento degli israeliani ha meno di 15 anni, e il 10 per cento ne ha più di 65, a fronte di proporzioni europee del 16 per cento per entrambi.

“La parola ‘miracolo’ in ebraico non possiede alcuna connotazione di soprannaturale” ha scritto il famoso rabbino J. B. Soloveitchik. “Miracolo descrive solo un evento straordinario che provoca stupore”. Definizione che andrebbe usata per spiegare questa unicità di Israele, l’unico paese industrializzato, moderno e occidentale che ha tassi demografici che l’Europa non conosce più da mezzo secolo. Solo gli Stati Uniti, ma di gran lunga sotto, sono tra le nazioni industriali del mondo con un tasso di fertilità intorno al livello di sostituzione di due; Europa e Asia orientale sono diretti verso un apocalittico calo della popolazione con un tasso di fertilità di appena 1,5 figli per donna.

Le donne israeliane, al contrario, hanno tre figli in media; le donne ebree non ortodosse hanno una media di 2,6 figli. Che la fertilità eccezionale di Israele nasca dalla religione, piuttosto che dall’etnicità, è facilmente spiegato dall’enorme contrasto tra tassi di natalità ebrei ortodossi e laici negli Stati Uniti. Da nessuna parte il divario di fertilità tra religiosi e non religiosi è più estremo che tra gli ebrei americani. Come gruppo, gli ebrei americani mostrano la fertilità più bassa di qualsiasi gruppo etnico del paese. Alan Dershowitz, il giurista ebreo di Harvard, ha non a caso intitolato un suo libro “The Vanishing American Jew”. L’ebreo americano in via di estinzione.

Due terzi degli ebrei americani non appartiene a una sinagoga, un quarto non crede in Dio e un terzo ha un albero di Natale in casa durante le feste. Anche l’ex rabbino capo del Regno Unito, Jonathan Sacks, ci ha scritto un libro, dal titolo emblematico: “Avremo ancora nipotini ebrei?”. Gli ebrei potrebbero sparire, assimilati dai non ebrei. La domanda posta da Sacks è terrificante: “Riuscirà l’assimilazione a ottenere ciò che a Hitler non riuscì?”. Invece della Shoah, la dissoluzione. Anche il premio Pulitzer Charles Krauthammer, l’editorialista ebreo più rispettato e influente d’America, ha commentato i dati. “Come fa una comunità a decimarsi nelle condizioni benigne degli Stati Uniti? Facile: bassa fertilità e matrimoni misti. In tre generazioni, la popolazione sarà dimezzata. Negli Stati Uniti oggi gli ebrei si sposano più con i cristiani che con altri ebrei”.

Qualcosa di simile era successo in Unione sovietica, dove gli ebrei, aggrediti da decenni di ateismo di stato comunista, avevano un tasso di fertilità di appena 0,8 figli per donna. Sarebbero scomparsi nel giro di poche generazioni. Oggi l’aumento della fertilità per gli ebrei di Israele si deve non soltanto agli “yuppie di Tel Aviv”, ma anche proprio agli immigrati dall’ex Unione sovietica. In Russia gli ebrei avevano uno dei tassi di natalità più bassi al mondo, ma quando gli ex ebrei sovietici sono arrivati in Israele, i loro figli hanno subito assunto le abitudini demografiche israeliane. Rispetto a Israele, crollano anche le nascite nel suo arcinemico: la Repubblica islamica dell’Iran. I dati di 49 paesi a maggioranza musulmana ci dicono che dagli anni Ottanta ai primi dieci anni del Duemila, la natalità è calata del 41 per cento. L’Iran è sceso del 70 per cento, uno dei declini più rapidi che si sia mai visto nella storia. Mai le donne iraniane avevano partorito due figli per coppia, la media era sempre stata di cinque. Alla fine del secolo, la popolazione iraniana sarà diminuita del cinquanta per cento.

A fronte della passione israeliana per i bambini, legata al trauma della Shoah, al permanente stato di guerra, alla tradizione religiosa di un piccolo popolo da sempre sotto assedio e che vuole diventare più numeroso, più forte. Un popolo, gli israeliani, che sembra amare la vita e odiare la morte più di qualsiasi altro al mondo. Compresi non soltanto i mortiferi vicini di casa, ma anche i libertini occidentali.

Giulio Meotti, Il Foglio, 31/07/2016

 

 

 

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