“L’Italia non subisce attentati di matrice islamista da più di 30 anni” è una frase usata spesso per sottolineare i meriti del Belpaese nella gestione della sicurezza e dei rapporti con il mondo islamico, in tempi in cui tutta l’Europa è nel mirino del terrorismo islamico e attentati recenti si sono verificati in Francia, Germania, Regno Unito, Danimarca, Belgio, Svezia, Spagna.

Il riferimento è al 27 dicembre 1985, data della seconda strage di Fiumicino costata la vita a 13 persone: quel giorno, un commando di terroristi palestinesi ha assaltato il check in della compagnia israeliana El-Al lanciando bombe a mano e sparando raffiche di mitra. Una carneficina.

Poco più di tre anni prima, il 9 ottobre 1982, un altro attentato di matrice palestinese aveva sconvolto Roma: l’assalto alla sinagoga. A condurlo è stato un commando di cinque terroristi che facevano capo al Consiglio rivoluzionario di Al Fatah, emanazione radicale ed estremista di Al Fatah, lo stesso partito che oggi esprime la maggioranza in Cisgiordania ed è considerato dall’occidente “l’ala moderata” del mondo palestinese, tanto da meritarsi cospicui finanziamenti anche dall’Ue. Al Fatah esprime l’attuale presidente dell’Autorità Nazionale Palestine, Maḥmūd ʿAbbās detto Abu Mazen.

Il Consiglio Rivoluzionario di Al Fatah è invece stato fondato nel 1974 da Ṣabrī Khalīl al-Bannā, meglio conosciuto come Abū Niḍāl, espulso da Al Fatah perché considerato “cospiratore” nei confronti dell’allora leader Arafat.

Alle 11.55 del 9 ottobre 1982 il commando di cinque uomini si posiziona davanti alla sinagoga di Roma e apre il fuoco con dei mitra. Lanciano anche tre bombe a mano. Una scheggia colpisce un bambino di appena due anni, Stefano Gaj Taché, che resta ucciso. Il fratello, Gadiel di quattro anni, è colpito alla testa e all’addome ma sopravvive. Altre 36 persone rimangono ferite.

L’incubo dura cinque lunghissimo minuti, dopo i quali i terroristi, vestiti elegantemente, scappano salendo a bordo di una Volkswagen rossa e di una Austin rossa. Erano ben armati e organizzati. E avevano anche scelto il giorno giusto: nella sinagoga di Roma sono presenti circa 300 persone, perché si festeggia contemporaneamente lo shabbat, il bar mitzvah (raggiungimento della maturità, 13 anni e un giorno per i maschi e 12 anni e un giorno per le femmine) di alcuni adolescenti della comunità romana e la chiusura della festa di Sukkot, una delle festività ebraiche più importanti.

Una strage sfiorata. L’omicidio di Stefano Gaj Taché, recentemente ricordata anche nel discorso di insediamento del presidente della repubblica Sergio Mattarella, è uno dei capitoli più bui della storia italiana, perché ancora oggi rappresenta il più grave atto di matrice antisemita in Italia dopo il secondo dopoguerra. Oltre al penultimo attentato di matrice islamista con morti.

A quei tempi, il rapporto tra l’Italia e il terrorismo palestinese era ambiguo. Roma è stata accusata più volte di tenere un atteggiamento duplice, “levantino”, poco chiaro. Si diceva che l’Italia avesse una moglie americana e un’amante araba, soprattutto in riferimento ai rapporti con la Libia di Gheddafi.

E poi c’era il Lodo Moro, quello strano patto di non belligeranza tra Italia e mondo palestinese, che i palestinesi però non hanno mai davvero rispettato. L’attentato alla sinagoga, come la seconda strage di Fiumicino, sono lì a dimostrarlo.

Stefano Gaj Taché è morto a soli due anni perché gli ebrei italiani sono stati di fatto venduti in nome di un patto. E a usare questo termine, “venduti”, è stato l’ex presidente della repubblica Francesco Cossiga. In un’intervista al quotidiano israeliano Yediot Aharonot, datata 3 ottobre 2008, Cossiga ha infatti ammesso che gli ebrei fossero esclusi dal cosiddetto “accordo Moro”, che prende il nome dall’ex presidente del consiglio Aldo Moro (ucciso nel 1979 dalle Brigate Rosse) che l’ha ideato.

“In cambio di una “mano libera” in Italia, i palestinesi hanno assicurato la sicurezza del nostro Stato e di obiettivi italiani al di fuori del Paese da attentati terroristici, fin tanto che tali obiettivi non collaborassero con il sionismo e con lo Stato d’Israele” disse Cossiga.

Il risultato è stato l’attentato alla sinagoga e la morte del piccolo Stefano.

L’Italia dovrebbe ricordarsene, ogni volta che si vanta di non subire più attentati di matrice islamista, forse in ossequio ad un altro accordo.

Riccaro Ghezzi, L’Informale, 9/10/2016

 

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