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La Guerra dei Sei Giorni scoppiò, cinquant’anni fa, mentre ero sotto la doccia, al kibbutz Neot Mordechai proprio nell’angolo in alto al confine con la Siria. Coprendomi in corsa scappai verso il rifugio sotterraneo dove, secondo i piani, avevo il compito di tenere a bada un pollaio schiamazzante di quei bambini israeliani che ti saltano addosso, ridono sempre, non chiamano mamma ma vogliono sapere molto bene cosa succede. Il famoso discorso del presidente Levy Eshkol che balbettò alla radio la sua ansia della distruzione definitiva del popolo ebraico che pareva profilarsi all’orizzonte ci impaurì, ma non smettemmo di vivere normalmente.

Fiamma Nirenstein

Fiamma Nirenstein

La sera canti e balli, a pranzo il formaggio e i cetrioli, il sabato pollo; intanto imparavo con altri volontari il passo del leopardo. Faceva caldo. La minaccia di una prossima distruzione aveva portato Ytzchak Rabin, allora Capo di Stato Maggiore ad una crisi depressiva: fumava a catena e non mangiava più. Si rinchiuse, poi usci per combattere con Moshe Dayan ministro della Difesa. Ma non capivo ancora l’ebraico e il loro tono sicuro nelle radioline gracchianti non era sufficiente. Potevamo morire tutti, fino all’ultimo: la Guerra dei Sei Giorni è stata una guerra di pura sopravvivenza, tutti gli storici, da Michael Oreen a Daniel Gordis, l’hanno ricostruita come la fine preannunciata e il contrattacco vittorioso.

Moshe Dayan

Moshe Dayan

La vittimizzazione obbligatoria dei palestinesi ha poi cambiato l’esegesi falsificandola. Il genio della storia, la sofferenza accumulata e bisognosa di riscatto, o forse il Padreterno hanno creato la vittoria del popolo ebraico, e certo anche i suoi problemi contemporanei. Ma il popolo ebraico ce l’ha fatta coi faraoni, con Hitler, e alla fine anche con Nasser e tutti i leader arabi coalizzati. Gli ignoranti e gli odiatori di Israele immaginano una guerra di conquista, dato che poi Israele ne è uscita coi famosi «territori occupati» che in realtà sono «contestati» e appartenevano non ai palestinesi ma alla Giordania che attaccò Israele, invece si trattò di una guerra che salvò Israele dal genocidio. I prodromi sono nella rabbia dopo la sconfitta egiziana del 56, nella necessità di Gamal Nasser, un brillante dittatore che aveva scelto lo schieramento sovietico terzomondista, di proporsi con una guerra definitiva contro l’odiato nemico sionista, come il leader assoluto del movimento panarabista che doveva consegnare all’Egitto il dominio dell’intero Medio Oriente. La scintilla fu una errata informazione dei servizi sovietici secondo cui Israele ammassava truppe sul confine siriano. Qui comincia l’escalation incontenibile di Nasser.

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Entra nella penisola del Sinai con i mezzi corrazzati, dichiara che è tempo di «prepararsi per la battaglia definitiva per la Palestina»: e muove le truppe. 15mila uomini, 100 carri armati e l’artiglieria sovietica sono pronti nel Sinai. Il 16 maggio chiede alle forze dell’Onu di togliersi di mezzo, e U Thant scappa lasciando spazio, alla mossa definitiva, quella che anche gli americani avevano dichiarato motivo di guerra: la chiusura dello stretto di Tiran. Abba Eban, ministro degli esteri israeliano, cerca aiuto presso i francesi, gli inglesi, gli americani: tutti hanno paura dei russi.

L’accerchiamento risulta sempre più evidente. Mahmoud Zuabi, ministro dell’Informazione siriano dichiara alla radio «la nostra terra combatterà finchè la Palestina verrà liberata e la presenza sionista conclusa»; Radio Cairo dice il 16 che «l’esistenza di Israele è durata troppo a lungo. Diamo il benvenuto alla battaglia lungamente attesa… in cui distruggeremo Israele».

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E qualche giorno dopo: «L’unico metodo che applicheremo è una guerra di totale di sterminio contro i sionisti…». Le promesse di sterminio fioccano: egiziane, siriane, irachene, giordane e saudite: gli alleati arabi il 25 maggio muovono le truppe sui confini israeliani. Il fondatore dell’Olp Ahmed Shukairi dice: «Valuto che nessun ebreo sopravviverà». Rabin da ordine di scavare tombe di massa per i caduti prossimi venturi, si preparano piani di evacuazioni dei bambini sulle navi, mentre la cantante più famosa del mondo arabo Umm Khultun, rende popolare il ritornello «sgozza, sgozza».Ma ecco che viene concepito con la forza della disperazione il piano strategico che salverà Israele. Eshkol stabilisce il primo governo di unità nazionale; si riunisce in una galleria sotterranea a Tel Aviv. Domenica 4 giugno in un incontro di sette ore Dayan fa una proposta: gli egiziani hanno 100mila uomini e 900 carri armati in Sinai, la Siria ha 75mila uomini ammassati sul confine e 400 tank, i giordani ne hanno 300 e 32mila uomini. Israele ha 246mila soldati, e 300 aerei da combattimento contro i 700 arabi. Occorre un’invenzione strategica.

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Alle 7,30 di mattina del 4 giugno, mentre i piloti egiziani stanno facendo colazione, i soldati israeliani guardano attoniti dozzine di aerei che prendono il volo: duecento fighters volano a quota bassisssima, solo 15 metri, per non venire intercettati dai radar. Solo dodici restano a guardia del paese, un rischio incredibile. L’uso della radio è vietato, l’ordine è: tacere anche in caso di estremo allarme, gettarsi in acqua se il rischio è definitivo. I giordani videro sul radar lo stormo che voleva verso l’Egitto, ma non avvertirono gli egiziani perchè Nasser faceva cambiare continuamente i codici. Tutti gli aerei egiziani furono distrutti a terra, senza alzarsi in volo. Gli israeliani ne perdettero 17 e 5 piloti, e alle 10,35 a tre ore dall’inizio dell’operazione Rabin annunciò: «L’aviazione egiziana ha cessato di esistere».

Il ritardo di Nasser nell’annunciare la sconfitta causò l’errore del re Hussein che volle entrare in guerra nonostante gli israeliani lo avessero pregato di non farlo, e l’insistenza siriana durò fino alla presa del Golan da parte di Israele. Io ero là, attonita, vidi la notte la battaglia sulle pendici della montagna, le luci su quando si vinceva, giù quando arretravamo.

La riunificazione di Gerusalemme, la città dell’anima ebraica, anche se costò molto sangue a Israele, fu la grande conclusione. Dopo molte incertezze ma spinti dalla indispensabilità di una scelta storica senza la quale il popolo ebraico non sarebbe mai più stato sè stesso e tutti gli ebrei a Gerusalemme sarebbero stati trucidati, i soldati di Motta Gur arrivarono a toccare le pietre sognate nei secoli e nei millenni del Muro del Tempio, increduli che questa gloria toccasse a loro: il rabbino militare Shlomo Goren con la Bibbia dovette passare lo shofar a a un giovane vicino a lui, troppo commosso per riuscire a suonare. Israele acquistò tre volte la estensione originale del suo territorio con la striscia di Gaza, il Sinai,  il’West Bank, unificò Gerusalemme che era stata divisa dai giordani dal 1948, e il Golan.

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Tutto quello che ha potuto lasciare secondo accordi appena rassicuranti, ha lasciato: il Sinai; quello che aveva catturato nell’Aravà dalla Giordania; Gaza che si è subito trasformata in una piattaforma di lancio di missili contro Israele; e con gli accordi degli anni 90 sgomberò di tutti i soldati la maggior parte dell’West Bank, così che ora il 98 per cento dei palestinesi è in zona amministrata dai palestinesi.

Lasciare per sempre senza controllo alcuno e senza pretendere la demilitarizzazione, è una condanna a morte per migliaia di israeliani, che sono già stati investiti dal terrorismo non dalla guerra del 67, ma dagli anni 30.

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Il rifiuto fondamentalista nei confronti di una Stato ebraico impedisce la pace: molte volte Rabin (che proprio nel suo ultimo discorso alla Knesset spiegò che era indispensaule mantenere la valle del Giordano nella sua accezione più ampia e non dividere Gerusalemme), Ehud Barak, Ehud Olmert, e anche Netanyahu quando ha diviso Hevron hanno accettato sottrazioni territoriali, ma la verità è che ad ogni svolta decisiva si vede che come subito dopo la guerra i Palestinesi non mirano ai territori, ma alla distruzione dello Stato d’Israele, e rifiutano ogni proposta.

La speranza di discutere civilmente a un tavolo e arrivare a un accordo non deve far velo all’evidenza: per ora non c’è stata una vera richiesta di spartizione da parte del mondo arabo, ma solo un rifiuto. La guerra fu un miracolo di audacia e di inventività contro la morte certa: la sua denigrazione, la reinvenzione di una «narrativa» che la rendesse la volontaria matrigna del destino di vittime dei palestinesi, era da aspettarsi. É un’epoca che non sa vedere il valore, e che ripristina l’antisemitismo sotto forza di delegittimazione dell’ebreo collettivo, Israele.

Fiamma Nirenstein,  Il Giornale, 03/06/2017

 

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