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un reportage di Francesca Paci

Dalla STAMPA del 31 maggio 2007:

Jacov conosce Nuova Delhi come le sue tasche ma è la prima volta che vede Mumbai, la «maximum city» cantata dallo scrittore Suketu Metha.

Dopo ventuno ore di treno si aggira stordito tra le banchine di Victoria Station, lo zaino da dieci chili sulle spalle, le braghe «scianti scianti» ossia comode e cadenti, la chioma castana raccolta in una lunga coda che ricorda quella di Gregory David Roberts, l'autore di «Shantaram», il romanzo cult dell'epica indiana contemporanea. E' arrivato da Tel Aviv un mese fa con i capelli rasati alla marine: «Ho finito la leva ad agosto, ho lavorato qualche mese in un bar per guadagnare un po' di soldi e sono partito, resterò fino a luglio». Jacov si muove da solo ma girovagando tra il Punjab e l'Uttar Pradesh ha incontrato migliaia di connazionali coetanei. E' un trend generazionale: alla sua età l'80 per cento degli israeliani intraprende lo stesso viaggio di formazione alla volta dell'Oriente, sessantamila ogni anno solo in India. Se domandate quanti abitanti abbia lo Stato d'Israele a Samir, il lustrascarpe in sedia a rotelle più popolare di Marine Drive, risponde «almeno quanto Mumbai, almeno quattordici milioni di persone». A giudicare da quanti ne ha conosciuti dal 2000 ad oggi sulla spiaggia del mar arabico, Samir immagina che siano tantissimi, il doppio di quanti sono in realtà.
Dall'ordinato aeroporto Ben Gurion alle strade caotiche e affollate di Mumbai, Delhi, Jaipur, Bangalore. Andata e ritorno. I ragazzi cresciuti a Gerusalemme, Tel Aviv, Haifa, negli anni novanta, quando la speranza della pace con i palestinesi svaniva già come i sogni giovanili dei genitori, assolvono gli obblighi militari nei Territori Palestinesi, tre anni per i ragazzi e due per le ragazze, e poi si prendono un periodo sabbatico prima dell'università: in fuga dal Medioriente infuocato verso est, l'Oriente estremo, speziato, «scianti scianti», dove, almeno in teoria, il pensiero precede l'azione.
Secondo una ricerca del Dipartimento di Psicologia dell'Università di Bar-Ilan, appena pubblicata, un terzo degli israeliani «trova problemi nella ricerca di se stesso». Lo studio, che s'intitola «Esplorazione e confusione nell'accesso all'età adulta: l'assalto all'India come esempio», individua nei ventenni del nuovo millennio una tendenza a temporeggiare, a posticipare le decisioni fondamentali, ad abbandonarsi all'oblio sia pur temporaneo. Ogni due o tre giorni Jacov entra in un Internet point e controlla la posta, gli amici di Tel Aviv e quelli globali a zonzo come lui per l'India con cui l'ha messo in contatto la bacheca elettronica della Hanetayel, la catena israeliana di attrezzature da campeggio, punto di partenza obbligatorio per qualsiasi aspirante viaggiatore «on the road». Nonostante Internet però, il conflitto con cui ha convissuto fino ad agosto, seconda guerra del Libano compresa, giunge ovattato come un sussurro in sottofondo. Sderot e le due vittime dei missili Qassam, la risposta dell'esercito israeliano e i due morti di ieri a Gaza, la faida tra i miliziani di Hamas e Fatah. L'India, spiega Jacov, è la cura alla «sindrome dell'assedio» che permea la società israeliana: «Qui il mondo non è bianco o nero, ci sono mille contraddizioni e mille punti di vista. Tu non sei mai parte della storia e ti rilassi».
La migrazione verso i chioschetti di frittelle al curry e i «moon party» sulle spiagge di Goa sta modificando di riflesso la scena notturna israeliana. Dopo l'evasione esotica Jacov e gli altri tornano e riportando con sé odori, sapori, suoni. Basta partecipare a qualche rave party, le feste illegali organizzare nel deserto del Neghev e in alcuni kibbutz del Nord, o fare un giro per i locali di Tel Aviv consigliati dal settimanale trendy Ha-Ir, per ascoltare la musica dei gruppi indiani emergenti, i Raeth, i Bombay Bronk, i ritmi del Kala Ghoda Style. Discoteche decorate con candele e statuine del dio Ganesh e aperitivi accompagnati da stuzzichini tandoori.
Una parentesi color ocra nella routine di un Paese in guerra. Certo, qualcuno smarrisce la strada. L'Organizzazione nazionale contro la droga calcola che tra India, Cambogia, Thailandia, ci sono almeno duemila giovani israeliani «srutim», testualmente «con il cervello rigato», fatti di droghe leggere e pesanti. Persi. Ogni anno il governo ne recupera circa 600 e li affida al dottor Omri Farish, direttore dell'istituto Izun di Cesarea, uno dei maggiori centri di recupero del Paese. La maggior parte degli India-boy però torna, a casa e nei ranghi. Rilassati e capelloni come il Jacov, saggezza orientale, filosofia del sopravvivere quotidiano, una birra al Leopol, il ristorante di Mumbay immortalato da «Shantarama». Pronti per diventare adulti e vivere in Israele»

http://www.informazionecorretta.it/main.php?mediaId=6&sez=120&id=20705
www.lastampa.it

 

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