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[b]da Il Giornale del 24 luglio 2007, pag. 1
un articolo di R.A. Segre
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Venerdì scorso, in un articolo intitolato «Israele la pace si fa coi nemici», Arrigo Levi ha discusso sulla Stampa la tesi (sostenuta dal ministro D'Alema e respinta da Israele, Europa e Usa)

che Israele dovrà trattare anche con un avversario come Hamas. Levi insiste giustamente sulla prudenza che deve accompagnare un dialogo del genere. Infatti gli osannati accordi di Oslo, non solo non possono più rappresentare un precedente ma dimostrano che i popoli non possono accettare accordi condotti in fretta da negoziatori su schemi elaborati da diplomatici, giornalisti e intellettuali pieni di impaziente autostima e arrogante superiorità culturale. I risultati sono stati tragici. Riproporli sarebbe – come diceva Taillerand – «più che un crimine, un errore».
Ora il primo errore da evitare è quello di credere che il negoziato possa portare all'intesa assieme alla creazione di istituzioni statali responsabili. La pace fra Israele e l'Egitto e la Giordania, la coesistenza non pacifica ma non bellica con la Siria sono state rese possibili non dall'esistenza di avversari democratici ma da quella di Stati nemici. La statalità è ciò che mancava all'Olp di Arafat, che manca al protostato islamico di Hamas a Gaza e al protostato di Al Fatah in Cisgiordania checché si possa dire della democrazia dell'uno e della moderazione dell'altro. Di per sé, infatti, il processo elettorale democratico non accompagnato da garanzie di libertà non comporta il diritto al riconoscimento. Non averlo compreso fu l'errore dei progettisti degli accordi di Oslo, errore che non si dovrebbe ripetere.
Ma il dialogo con Hamas solleva una questione più complicata, solo in parte legata al fatto che una legittima occupazione militare causata da una guerra si è trasformata per povertà di visione storica e per discutibili considerazioni strategiche e diritti storici in colonizzazione.
La questione è questa: l'identità palestinese non è il frutto del nazionalismo arabo o dello statalismo islamico anche se entrambi vi hanno contribuito. L'identità palestinese nata e cresciuta nello scontro con Israele è il frutto di un «sionismo arabo», figlio di un incontro appassionato e violento di due nazionalismi, ciascuno così convinto del proprio buon diritto da evitare sino ad oggi di riconoscere le responsabilità del risultato tragico di questo violento incontro. Indipendentemente dalla strumentalizzazione che arabi e israeliani hanno fatto dei palestinesi lo scopo della contestata sovranità palestinese è stato – fuori del campo propagandistico e dell'elaborazione di «etichette» statali – l'ottenimento della giustizia e la difesa dell'onore. Non la creazione di uno Stato responsabile.
L'onore è quel valore che si ottiene togliendolo all'altro, mentre la ricerca della giustizia fuori dallo Stato sovrano è garanzia di rivoluzione e guerra permanente. Per questo tanto la carta costituzionale dell'Olp quanto quella di Hamas stabilisce che lo scopo primo è la distruzione di quello israeliano (un freudiano direbbe un parricidio del «genitore» israeliano ma anche, considerando l'opera distruttiva dei palestinesi in molti Paesi arabi, dei «genitori» arabi). Levi conclude: lasciamo lavorare Blair, il nuovo inviato del «quartetto» delle grandi potenze nella questione palestinese. Giusto ma a condizione che comprenda che il precedente irlandese è attraente ma controproducente. Perché per affermarsi al sionismo non è occorsa solo la volontà di indipendenza ebraica (molto debole fra gli ebrei, prima e dopo la Shoah). È occorsa la protezione coloniale britannica. Quando questa fu brutalmente tolta da Londra allo Yishuv ebraico di Palestina (contro la volontà non dimentichiamolo della stragrande maggioranza degli ebrei che avrebbero preferito trasformarsi in Dominion britannico) le istituzioni del proto Stato ebraico erano ormai troppo sviluppate e solide per essere sommerse dall'attacco arabo. Ma erano occorsi venti anni di umile lavoro costruttivo (una mucca dopo l'altra, un ettaro dopo l'altro era il motto della corrente sionista di maggioranza) e di sei anni di dura lotta armata che mai per scopo ebbe l'odio e la distruzione del nemico.

 

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