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[b]Il Giornale

un articolo di Paolo Bianchi – lunedì 03 settembre 2007
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Si è spento ieri nella sua casa alle pendici della collina di Fiesole (Firenze) Alberto Nirenstein. Combattente delle Brigate Ebraiche nella seconda guerra mondiale, in Nord Africa e in Italia (sbarcò a Salerno),

aveva lasciato Varsavia nel 1936 ed era stato sionista e fra i primi coloni dello stato di Israele, rispondendo alla chiamata di Ben Gurion. Era nato nel 1915. La data esatta è imprecisata, causa la distruzione dei documenti anagrafici dopo l’invasione nazista e la Shoah. Il suo paese d’origine, Baranow, tra Lublino e Varsavia, fu raso al suolo durante la guerra e mai più rifondato. Proprio alla ricostruzione delle vicende dell’Olocausto Nirenstein (il cui cognome originario, Nirenstajn, venne poi italianizzato) aveva dedicato gran parte della vita, tornando a Varsavia nel 1950 alla ricerca di documenti e testimonianze.
Scrisse tra l'altro il primo libro sullo sterminio, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek (Einaudi, 1960). A Varsavia, il giovane studioso ritrovò i diari che un gruppo di intellettuali avevano nascosto in dieci casse, dopo aver descritto accuratamente le cronache dell’istituzione del ghetto e del massacro che ne seguì. Tradusse tutti i documenti redatti in ebraico e in yiddish. Ma una volta terminato il lavoro, gli venne impedito l’espatrio. Come ricorda una delle sue tre figlie, Fiamma, nota giornalista ed editorialista del Giornale, «fu rilasciato solo alla morte di Stalin, nel 1953. Prima, neppure mia madre, Wanda Lattes, riuscì a ottenere che la burocrazia sovietica gli permettesse il rimpatrio, pur essendosi rivolta direttamente a Palmiro Togliatti».
Alberto Nirenstein era un uomo schivo. Non cercava la notorietà. Forse anche per questo, spiega ancora la figlia «l’Italia non gli ha mai riconosciuto il ruolo di testimone diretto né di studioso della Shoah, relativamente alle vicende polacche». Aveva studiato anche le vicende di Cracovia. Sostenne: «È giusto parlare di Schindler, ma sarebbe anche giusto parlare di quei ragazzi e ragazze di 18, 20 anni, poco meno di un centinaio che attaccavano le Ss, ancora prima della rivolta del ghetto di Varsavia. Giovani anarchico-romantici, molto idealisti, che sapevano di avere poche possibilità di scampare. Furono quasi tutti catturati dopo un attacco a un grande caffè di Cracovia. Prima di morire una ragazza è riuscita a scrivere, rinchiusa nella cella, un diario che si chiama Il diario di Justina . È quasi più commovente del Diario di Anna Frank».
Lo scrittore rimase sempre apolide, scegliendo di vivere nel nostro paese per motivi familiari, ma mantenendosi attivo nel movimento La Giovane Guardia e collaboratore del giornale israeliano Al Namishmar, (La Guardia). Lui, laico che frequentava la sinagoga nelle festività, aveva incontrato papa Giovanni Paolo I e gli aveva parlato della questione ebraica in Polonia, in termini franchi e diretti, ricevendone manifestazioni di simpatia, anche personale. Alcune sue toccanti rievocazioni sono nei racconti del volume Come le cinque dita di una mano (Rizzoli, 1998) scritto insieme alla sua famiglia. Un’altra figlia, Susanna, è giornalista e una terza, Simona, musicista. Nirenstein ha avuto una vita dura e romanzesca, costellata di prove spaventose, ma animata da una fame inesauribile di verità. Eppure, come recita il titolo di un altro suo libro, È successo solo cinquant’anni fa (La Nuova Italia, 1993). Cinquanta o cento, non fa differenza.

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([b]3 settembre, 2007) Corriere della Sera

ADDII La scomparsa di Alberto Nirenstein

l' Ebreo che volle farsi Apolide

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L' ultima volta che lo incontrai, qualche anno or sono, Alberto Nirenstein aveva ancora la memoria lucida di sempre, lo stesso tono ironico nella voce e nel tratto, la stessa curiosità inesauribile per uomini e cose, che era sempre pronta a sottoporre l' interlocutore, come se nulla fosse, anche alle domande più personali e dirette. Ma poi le spire della malattia avevano cominciato ad avvolgersi implacabili intorno alla sua mente fino a rinchiuderla e ottenebrarla del tutto. A liberarlo solo la morte, a suo modo benigna, ormai poteva riuscire. E la morte è arrivata ieri mattina, a Firenze. Tra pochi giorni avrebbe compiuto 92 anni. L' ebraismo di Alberto Nirenstein – che tuttavia, anche quando l' ebraismo è diventato così alla moda, egli ha vissuto sempre con una certa qual sprezzatura snobistica, all' insegna di un understatement ostentato e divertito – il suo ebraismo, dicevo, ha racchiuso l' intera parabola del Novecento. E quasi a suggellare simbolicamente l' uno e l' altra egli ha voluto chiudere gli occhi con lo status di apolide. Allorché aveva chiesto la cittadinanza italiana, molti decenni fa, la nostra burocrazia aveva opposto le sue solite lungaggini e difficoltà; quando poi, in base a nuove leggi, il suo matrimonio con Wanda Lattes gliene avrebbe dato il diritto, aveva preferito lasciar perdere. Alberto era nato in Polonia, figlio di un piccolo bottegaio, in una cittadina dello shtetl, all' inizio di quella Grande Guerra che doveva aprire le cataratte delle sciagure europee. Della sua infanzia ricordava ancora lo stupore affascinato ma carico d' inquietudine con il quale lui e i suoi compagni spiavano le cerimonie religiose cattoliche, le processioni per le vie con le grandi statue ai loro occhi vagamente minacciose. Qualcosa di quell' antico stupore, poi mutatosi in interesse intellettuale, gli era rimasto nei tanti rapporti che in seguito gli sarebbe capitato di intrattenere con i cristiani, quando per l' appunto non si stancava di chiedere, di informare e di informarsi, di mettere a confronto le due grandi tradizioni. Alberto rimase sempre fedele all' ispirazione dell' ebraismo che ama definirsi laico, ma come può essere laico chi porta inciso per sempre nella carne e nell' anima l' ammonizione imperitura dello «Shemà Israel». Ad allontanarlo da quel fragile piccolo mondo antico dello shtetl e a gettarlo nella fornace del secolo erano stati gli studi ma soprattutto la politica. Tra gli anni Venti e Trenta, per tanti giovani ebrei come lui, specialmente dell' Est europeo, politica aveva voluto dire il sionismo e insieme il comunismo, riuniti in una sola fiammeggiante utopia dal l' Ha-shomer ha-Tsair, con il suo sogno di uno Stato socialista e binazionale, arabo-ebraico, in Palestina, dove poco prima della guerra anche Nirenstein emigrò. Di quella moderna e generosa gioventù sionista, del suo idealismo ardente, Alberto conservò fino alla fine alcuni tratti distintivi: il disprezzo per la ricchezza e per tutto ciò che fosse ostentazione ed esteriorità, il tratto rude e sbrigativo, l' ampiezza spregiudicata degli interessi culturali, l' attenzione umana e culturale per gli ultimi (lui che in Palestina aveva fatto il maestro anche dei bambini arabi), e infine l' amore per la fisicità, il piacere del corpo disinibito all' aria aperta, nell' acqua. L' incontro con l' Italia avvenne nel l943. Vi sbarcò come soldato della Brigata Ebraica dell' ottava Armata britannica, vi trovò moglie, e dopo il ' 45 vi restò per favorire l' immigrazione illegale in Israele degli ebrei in fuga dagli ex territori dell' Asse. Forse pensò che potesse essere una parentesi. Invece non fu così. Tornato temporaneamente in Polonia per ricostruire la resistenza dei suoi compagni dell' Ha-shomer, che fino all' ultimo erano caduti combattendo in pratica a mani nude nei ghetti contro i carnefici hitleriani (vicende che divennero poi l' oggetto del suo libro più noto, Ricorda cosa ti ha fatto Amalek, uscito da Einaudi nel ' 58 e seguito da numerosi altri sullo stesso tema), vi fu trattenuto dalla paranoide crudeltà dello stalinismo, virtualmente prigioniero per ben cinque anni. Si consumarono in questo modo il suo addio al comunismo e la decisione di stabilirsi definitivamente a Firenze, anche se la sinistra da un lato, con i suoi travagli e le sue lotte intestine, e dall' altro il sionismo e il destino d' Israele (della cui stampa di orientamento radicale fu per tanto tempo corrispondente dal nostro Paese) rimasero fino alla fine le uniche e vere grandi passioni di Alberto Nirenstein. Ma pur partecipando egli in parecchie occasioni alla vita culturale specie di Firenze, il suo carattere schivo e insieme la feroce struttura di clan della nostra intellettualità, il suo sostanziale provincialismo, hanno sempre impedito che potesse essere ascoltata davvero la voce di questo intellettuale cosmopolita, di questo ebreo solitario, a cui l' Italia è riuscita ad essere rifugio, ma ha il rimorso di non aver saputo essere patria.

[b]Galli Della Loggia Ernesto
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[b]Con Alberto Nirenstein è andato via un pezzo di storia
di Leonardo Tirabassi
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Ho conosciuto Alberto Nirenstein agli inizi degli anni settanta, io adolescente sessantottino presuntoso nella mia assoluta ignoranza e lui già con il peso della storia più terribile del Novecento sulle proprie spalle.

L’occasione fu una manifestazione di sostegno all’OLP dove Alberto si presentò con il tipico zuccotto ebraico sulla testa. Fino allora ero venuto a conoscenza della sua storia attraverso i racconti delle figlie, ma mai l’avevo visto. Mi stupì subito il coraggio sereno su un bel volto polacco che poi sarà anche di Wojtyla . Nessuno di quel pubblico schierato a fianco di una sola parte nel conflitto, a quei tempi, arabo israeliano osò dire niente. Una vita vera spesa a fianco degli oppressi si contrapponeva alle nostre sicurezze ideologiche senza nessun riferimento con la realtà. Quel semplice gesto di testimonianza era più forte di qualsiasi discorso.

Alberto ha conservato sempre fino agli ultimi giorni della sua malattia, fino alla morte quel rapporto diretto con la vita, quell’attaccamento alle cose essenziali che senza dubbio gli derivava dalla durezza della propria esperienza. Quelle esperienze esistenziali e politiche, dalla tragedia della Shoà al tradimento della sinistra comunista fino alla scoperta dell’impossibilità di un Israele socialista accanto ad uno Stato arabo avevano reso essenziale il suo discorso mai diventando né cinico né apatico, deluso. Anzi, la vita lo aveva diretto verso una ricerca continua della verità. Ecco allora la descrizione terribile del funzionamento dei ghetti polacchi sotto il nazismo dove mostrò anche le tragiche connivenze degli ebrei.

Alberto era l’incarnazione di quarant’anni di storia europea, tutti i suoi drammi, contraddizioni e tradimenti. Convinto socialista, dopo aver visto l’olocausto, era dovuto passare anche per l’incubo stalinista che lo aveva preso prigioniero dopo la guerra, separandolo dalla sua famiglia italiana. Nato in Polonia, in un piccolo villaggio ebraico da una famiglia di commercianti – si può ritrovare la descrizione di quegli anni nel libro corale “Come le cinque dita di una mano” – aveva subito aderito alle idee sioniste che si ispiravano ad un socialismo laico per un Israele binazionale. Nel 1936 era partito per l’allora Palestina e fu la sua personale salvezza. Il suo natio shetl fu completamente distrutto dalla furia nazista e i suoi abitanti, compresa la sua famiglia, sterminata. Partecipò alla seconda guerra mondiale nelle file della Brigata ebraica. Combattè in Italia e a Firenze conobbe una giovane partigiana, Wanda Lattes che poi diventerà sua moglie.

Negli anni cinquanta, ritornato per un periodo in Polonia, la follia stalinista lo tenne prigioniero per ben cinque anni. Tornato a Firenze, ha dedicato tutta la sua vita a comprendere e a far capire la tragedia del Novecento.

[b]03 Settembre 2007 L’Occidentale
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