[b]di Susanna Nirenstein[/b]
[i]Fonte: La Repubblica citata da www.informazionecorretta.com[/i]

[i][b]Esce l'autobiografia dello scrittore israeliano Aharon Appelfeld[/b][/i]

Ogni frase, ogni descrizione, nasce come un lampo dalle brume del silenzio che per anni ha accompagnato [b]Aharon Appelfeld[/b] mentre tentava di ricordare le esperienze degli anni esplosivi che lo hanno formato: eppure ecco [b]Storia di una vita[/b] (uscito per la prima volta [b]nel 2001 con la Giuntina e ora ripubblicato da Guanda[/b] – pagg. 199, euro 14), l´autobiografia speciale di un uomo che dopo poche pagine dichiara le sue paradossali modalità di memoria: "[i]Il cuore ha dimenticato molto, soprattutto luoghi, date e nomi di persone, ma malgrado ciò sento quei giorni con tutto il mio corpo[/i]".

"[i]Ogni volta che piove, fa freddo o soffia un forte vento, torno nel ghetto, nel campo di concentramento, nei boschi dove ho trascorso molti giorni. A volte bastano l´odore del fieno che marcisce o il grido di un uccello per trascinarmi lontano e dentro di me. Dico dentro di me benché non abbia ancora trovato le parole per queste potenti macchie di memoria. Anche questa volta non toccherò quel fuoco. Non racconterò del campo di concentramento, ma della fuga, ciò che effettivamente feci nell´autunno del 1942, all´età di dieci anni. Non ricordo il mio ingresso nel bosco, ma ricordo il momento in cui mi trovai lì, di fronte a un albero carico di mele rosse. Rimasi talmente sbalordito che feci alcuni passi indietro. I passi all´indietro il mio corpo li ricorda meglio di me. Ogni volta che faccio un movimento sbagliato con la schiena o inciampo all´indietro, vedo l´albero con le mele rosse. Non tocco cibo da giorni ed ecco un albero, carico di mele. Posso allungare la mano e coglierle, ma me ne sto lì sbigottito, e più sto lì, più sono paralizzato[/i]".

Appelfeld è questo. Parla e scrive per descrizioni minute, per emozioni, per squarci o racconti esemplari, ed ha una vita straordinaria in parte sepolta dentro di sé, un nucleo silenzioso presente in buona parte della generazione alla deriva che è approdata ad Haifa sulle carrette del mare dell´Agenzia ebraica e ha fondato Israele. Non è un caso se sarà proprio Appelfeld ad inaugurare la Fiera del Libro di Torino in cui quest´anno sarà Israele il paese ospite d´onore: vogliamo proprio vedere chi avrà il coraggio di contestare un uomo che rappresenta così profondamente l´unico luogo che accolse in massa i sopravvissuti al buio del XIX secolo e restituì loro una casa, e con essa la lingua e l´identità.

Appelfeld è nato a Czernowitz nel 1932, in Bucovina, tra la Romania e l´Ucraina. Il tedesco è la sua lingua madre, l´ucraino la lingua parlata con le governanti, l´yiddish quella dei nonni, sebbene lui sia senz´altro cresciuto fino alla guerra in una famiglia assimilata.

Quando i tedeschi invasero la sua zona aveva 7 anni. I nonni (con tutti quei ricordi meravigliosi di pace, di idillio con la natura e con Dio che Aharon porta con sé) e la madre furono uccisi. Della morte della mamma, ha scritto Appelfeld, ricorda «[i]solo un grido[/i]».

Lui e suo padre furono portati nel ghetto (dove, ecco uno dei pochi flash di memoria, i matti e i bambini erano amici). Poi in una lunga marcia attraverso il fango assassino dell´Ucraina («a volte ho la sensazione che quella marcia continui da cinquant´anni, e di essere ancora lì a trascinarmi») e infine il campo di concentramento, dove Aharon fu diviso dal padre (lo rincontrerà nel ‘56 in Israele). Se già da piccolissimo aveva cominciato a osservare persone e oggetti con sospetto (in due soli ebrei in una classe di quaranta, «si viveva una miscela dolorosa e divertente di senso d´inferiorità e superiorità»), quando fuggì dal lager e si ritrovò solo e chiuso in se stesso. Imparò «in fretta che è meglio parlare poco e, se si è interrogati, rispondere brevemente», senza mai rivelare, è ovvio, di essere ebreo. «[i]Ai tempi della guerra feci del sospetto un´arte» racconta. «Prima di avvicinarmi a una casa, a una scuderia o a un pagliaio, stavo chino ad ascoltare, a volte per molte ore. Dai rumori scoprivo se c´erano persone, e quante… Ho trascorso gran parte dei giorni della guerra steso per terra, ad ascoltare. Ho imparato, fra le altre cose, ad ascoltare gli uccelli: pronosticano meravigliosamente l´avvicinarsi non solo delle piogge, ma anche di gente cattiva e di animali feroci… Ho imparato a preferire il bosco ai campi aperti, le stalle alle case, gli invalidi ai sani, gli emarginati del villaggio ai proprietari apparentemente perbene. Col tempo feci conoscenza con mucche e cavalli. A volte penso che non siano stati gli uomini a salvarmi, ma gli animali capitati sulla mia strada… quando mi addormentavo al loro fianco, il sonno era tranquillo e profondo, come nel letto dei miei genitori[/i]».

Visse più di due anni nel bosco, buona parte del tempo da solo, una volta a servizio di una prostituta, un´altra di un gruppo di ladri di cavalli, di briganti, un´altra ancora con un contadino cieco che lo batteva. Ai margini dei campi. Sotto gli alberi. Nel freddo e nella fame. «[i]Avevo l´impressione che, se avessi trovato il giusto sentiero, mi avrebbe portato dai miei genitori… Col tempo mi inventai dei segni che avrebbero indicato il loro ritorno: se il tempo avesse soffiato forte, se avessi visto un cavallo bianco, se il tramonto fosse stato senza fuoco. Anche quei segni mi delusero, ma io non disperai[/i]».

Di quegli anni resistono alcune immagini «potenti come colpi di arma da fuoco». Poi torna la nera galleria della guerra.
Nel ‘44, a 12 anni, divenne garzone di cucina dell´esercito russo, e, alla fine del conflitto, con altri ragazzi si incamminò verso l´Italia dove stette a lungo, tra spiagge calde e ristoratrici, nei campi profughi, popolati di uomini modellati dall´arte di arrangiarsi: «[i]suonatori, prestigiatori, cantanti d´opera, attori, profeti di catastrofi, contrabbandieri e ladri, e anche artisti bambini di sei o sette anni che impresari corrotti adottavano e trascinavano da un posto all´altro. Ogni notte era uno spettacolo[/i]». Spettacoli strani a volte, come quello di Shiko che a sette anni recitava tutte le preghiere donando così alle persone «un pizzico della fede dimenticata ed un contatto coi cari perduti»: colpito da una febbre altissima, Shiko perse la memoria. L´impresario lo maltrattò. I profughi lo liberarono a forza dalle grinfie del suo Mangiafuoco e lo portarono su una nave diretta in Palestina.

In quei campi profughi c´era anche «gente meravigliosa», i maestri dell´Agenzia ebraica che insegnavano a quei bambini e ragazzini analfabeti a leggere e scrivere, a far di conto, a conoscere la Bibbia. «Fu allora, tra quelle serate e quel girovagare, che l´oblio costruì i suoi profondi sotterranei. Più tardi li trasportammo in Israele».
Certo l´ideologia della "costruzione" di quegli anni contribuì a dimenticare, ma l´ordine a perdere la memoria non veniva solo dai kibbutznik assetati di futuro. La lotta tra il ricordo e "amnesia" fu lunga ed è raccontata in modo struggente in Storia di una vita.

In Palestina, privo di ogni istruzione, Aharon iniziò a studiare l´ebraico e lo fece lentamente suo, tra silenzi, infiniti balbettamenti, enormi difficoltà. Frequentò corsi di agricoltura e si innamorò degli alberi. In lui, comunque, si consolidò via via il rifiuto a rinnegare il proprio passato: per «[i]costruire ed essere ricostruiti[/i]» scelse piuttosto uno strumento di fondo, l´ebraico, che voleva, doveva acquisire e assumere come lingua madre, senza rinnegare chi realmente era, come scrive, «un profugo, un immigrante, un uomo che porta in sé il bambino della guerra, che si esprime a fatica e si sforza di raccontare con meno parole possibile». Fu così che continuò anche a coltivare anche l´yiddish (con maestri di prim´ordine come Agnon, Buber, Scholem!) – un argomento, quello della nostalgia per l´yiddish su cui ha scritto anche uno splendido romanzo, Notte dopo notte (Giuntina).

Appelfeld infatti ama più raccontare del mondo in cui è nato (e di quello in cui vive), che del lager, delle forze malefiche che hanno distrutto la sua Europa: per quanto catalogato da sempre tra gli scrittori della Shoah, è lontanissimo da Wiesel, o Kertesc o Primo Levi. Come Kafka piuttosto, non ebbe una percezione forte della sua ebraicità nella famiglia in cui nacque, e questo è un leit motiv di tutta la sua poetica, perché Appelfeld riconosce in questo un peccato originale dell´ebraismo europeo del Novecento, incapace, proprio per il suo desiderio di assimilazione, di riconoscere perfino il proprio nemico (Badenheim 1939, Guanda, è la parabola quasi surreale della catastrofe che aspetta chi perde l´identità).

La letteratura di Appelfeld rappresenta sì, come ha scritto [b]Philip Roth[/b], «[i]il paesaggio della deprivazione[/i]», ma anche quello della conquista: il suo modo di usare l´assenza di memorie di infanzia, di cercare una cultura madre, di ripercorrere l´esperienza della mancanza quanto quella di aver acquisito, in ritardo, una lingua identitaria, tutto in lui parla di un vuoto che non potrà mai essere riempito, ma in cui la nuova vita c´è, è dolorosamente, quanto compiutamente, possibile. Basta pensare che in Israele Appelfeld si è felicemente sposato, ha avuto due figli, ha scritto una quarantina di romanzi, ed è diventato un autore di statura internazionale.

 

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