[b]di Laura Feltre

Teheran -[/b]
Azar ha il bel viso racchiuso in una hijab nero pece, Alì parla e messaggia con il telefonino. Farah guarda la Bbc, Rashid legge il corano nell'angolo dietro il bancone del bazar. Azar, Alì, Farah e Rashid sono i volti dell'Iran. Trent'anni fa ci fu la rivoluzione di Khomeini. Oggi sembra muoversi, sotterranea, un'altra rivoluzione che nessun presidente, nessuna guida suprema forse potrà fermare. Internet e satelliti stanno portando dentro le case degli iraniani il Mondo. Basta camminare per le strade di Teheran. Le lunghe vesti nere la fanno sembrare una città in bianco e nero. Ma se si abbandona il grandangolo e si usa lo zoom, ecco che si vedono i dettagli. E sono le donne che più di tutti parlano. Il velo in testa ce l'hanno tutte. Ma c'è velo e velo.

Le più religiose sono coperte da capo a piedi, avvolte nel grande mantello come in un sudario. Hanno gli occhi bassi, si muovono frettolose, come se chiedessero scusa a ogni passo. Ma poi eccole le (tante) ribelli per le quali il velo è soltanto un pro forma usato per non incorrere nelle sanzioni della polizia del costume che negli ultimo tempi, visto l'andazzo, ha ricominciato a fare controlli, a denunciare e a volte ad arrestare chi non è vestito in modo consono alla legge islamica. Ma Sanaz e le altre vanno avanti imperterrite. Mostrano frange fluenti, fanno guizzare gli occhi bistrati, hanno rossetti vivaci, come impone la moda globale. Sopra i jeans, portano soprabiti attillati che lasciano intravedere le forme sensuali, camminano con i fidanzati tenendosi mano nella mano. E vanno a scuola, tanto che negli istituti superiori sono le più numerose. Eppure la loro testimonianza in tribunale vale la metà di quella degli uomini, i loro diritti ereditari sono inferiori a quelli dei maschi, a nove anni sono già in età da marito ma la maggior parte si sposa a 24 anni, l'età media delle ragazze occidentali. Molte vengono in Italia a studiare. Perugia, Roma, Palermo, Padova. Molte come Simin poi ritornano a casa: «Papà, buon'anima, si era ammalato. Io dovevo stare accanto a mia madre». Non è sposata, non ha un fidanzato, fa una vita che la porta a stare a contatto con la gente di tutto il mondo. «Mi piace così. Io sono religiosa, lo vedi come sono coperta? Ma sono ribelle e libera. Sono persiana». In piazza Jaleh si muovono due mondi. Quello ufficiale fatto di regole e precetti rispettosi della Legge, e quello privato, il regno del possibile e della trasgressione. «In casa abbiamo computer, internet, tv satellitare». Hassan vive in una delle ville nella parte nord di Teheran, la zona dei ricchi, là dove, circondati da un parco ai piedi delle montagne Alborz in primavera ancora innevate, vivevano lo scià e i suoi fedelissimi, le famiglie della temuta Savak, la polizia segreta. Sembra di stare a Montecarlo. Grattacieli, giardini pensili, ville con piscina, suv e auto di grossa cilindrata. Hassan è figlio di una ricca famiglia armena e uno dei 700mila blogger del Paese. Negli ultimi anni gran parte dell'informazione alternativa al regime, passa attraverso una miriade di siti internet, molti con base all'estero. Lo sa bene il consigliere del procuratore generale della Repubblica islamica: «Internet è più dannoso delle televisioni satellitari. Oggi sono molti a sprecare ore davanti al computer e ciò avrà conseguenze pericolose. Porta un danno alla società e dobbiamo mettere a punto dei piani per ridurre questo danno». Avvertimenti e minacce. Ma nelle case si continua a chattare. E a fare feste. Lussuose e scatenate. E allora via con la musica da quella di Shadmehr Aghili agli U2. Via il chador e fuori gli abiti di lusso, scollature, lamé e gioielli. Tutto firmato (o taroccato?): Armani, Dolce e Gabbana, Saint-Laurent. Si parla di tutto, dai fatti privati alla politica. E si scopre che fra i giovani, soprattutto fra gli studenti, la società più ammirata è quella degli Stati Uniti, il Satana degli ayatollah. «Vogliamo avere con loro dei rapporti normali», dice Nader. Suo fratello è uno dei due milioni di iraniani che hanno deciso di vivere là. Molti hanno fatto fortuna e hanno sempre mantenuto rapporti con la loro patria. C'è chi se ne è andato al tempo dello scià, chi è fuggito dopo che il sogno della rivoluzione si è trasformato in un incubo rosso sangue. Chi è rimasto, ha visto negli ultimi trent'anni questo regime cambiare. Dall'ossessione della delazione del vicino di casa, sufficiente a farti finire nella tremenda prigione di Evin, alla chiacchiera politica di oggi, a pochi giorni dalle elezioni del 12 giugno. Si parla per strada, al bar e all'università anche se i dissidenti del regime continuano a essere imprigionati. C'è il sostenitore accanito di Ahmadinejad. «È un uomo pio e onesto. Dopo l'elezione non si è montato la testa, vive nella sua modesta casa nei quartieri meridionali della capitale, quelli dove sta la parte più povera dei 14 milioni di abitanti di Teheran» racconta Mahamoud. Ha 35 anni, fa l'insegnante, guadagna quanto basta per garantire una vita dignitosa a sé e alla famiglia. Non la pensano così le decine di giovani in fila davanti al cinema dove viene trasmesso un film critico nei confronti del regime. Ogni pomeriggio è così. Attendono pazientemente sotto il sole che le sale aprano e inizi la proiezione. «Siamo stufi. C'è troppo malaffare, troppa corruzione. I prezzi aumentano, la disoccupazione pure. Tantissimi di noi sono laureati ma siamo costretti a fare lavori di basso livello perché il mercato non offre altro. Che futuro ci può garantire Ahmadinejad?». Ma è proprio lui, l'ex sindaco di Teheran, a essere in testa nei sondaggi. Lui, candidato a vincere le elezioni e incassare il secondo mandato grazie anche al sostegno dei mullah e al voto delle campagne, non si aspettava però l'offensiva del popolo degli sms. «Se avete intenzione di non andare a votare, pensate a come vi sentirete il 13 giugno, quando verrete a sapere che Ahmadinejad è stato rieletto». Chi ha un telefono cellulare (e un iraniano su due ce l'ha) è bombardato da messaggi simili a questo. E poi e-mail e blog che stanno giocando un ruolo importante in un Paese abituato a ricevere messaggi politici da altoparlanti montati su piccoli furgoni o dai manifesti (pochi) affissi sui piloni lungo le strade, spesso accanto alle immagini dei giovani martiri della guerra combattuta contro l'Irak. Ed è sui giovani che punta Moussavi, ex primo ministro fra l'80 e l'88, gli anni dello scontro con Saddam. Promette la distensione con l'Occidente e più attenzione ai diritti umani. Ma in molti, anche riformisti, lo accusano di non avere carisma, di una campagna elettorale sbiadita. Eppure Reza ci spera anche se sa che l'avversario del presidente non ha il physique du rôle del leader capace di trainare il cambiamento. Fa l’università e dice le stesse cose contenute nel sondaggio condotto da Terror Free Tomorrow: «Vogliamo una vera democrazia, con tutti i leader eletti. Dieci anni fa ragazzi come noi hanno aiutato Khatami a vincere. Ora ci possiamo riprovare». Una speranza. Per ora solo quella.

 

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