[b]Fiamma Nirenstein

Il Giornale, 14 gennaio 2010[/b]

Era logico che prima o poi Israele si risentisse, come una fidanzata tradita, dell’atteggiamento ostile della Turchia di Recep Tayyip Erdogan. Ma l’ha fatto senza calcolare bene le sue reazioni: sempre per restare al paragone con l’umana fragilità, il tradimento dopo tanti anni di fragile e preziosa vicinanza con un Paese musulmano in mezzo all’ostilità dei vicini islamici, ha causato a Israele una crisi di nervi che accelera per i due Paesi mediorientali una pericolosa rottura già nell’aria.

Il presidente Gül, a sentire la televisione turca, ha minacciato di rompere le relazioni se le scuse formali non fossero pervenute entro la serata di ieri. La storia di questi giorni parla di oggetti e simboli, poltrone e bandiere, microfoni e strette di mano: il vice primo ministro degli Esteri Danny Ayalon, dato che la Tv turca ha messo in onda un serial in cui i sold ati israeliani ammazzano per divertimento sadico qualche bambino, ha invitato lunedì alla Knesset l’ambasciatore Oguz Celikkol per protestare, ma si è mosso all’orientale.

Gli ha mostrato cortesia e gentilezza nell’esprimergli alcune rimostranze, ma dietro le spalle aveva istruito la tv a mostrare solo volti corrucciati, l’ambasciatore seduto su una poltrona più bassa, una sola bandiera in vista, quella israeliana. Niente strette di mano. L’ambasciatore si era stupito della presenza della tv, ma la sedia l’aveva semplicemente giudicata più comoda; e poi c’era stata, ha detto, una stretta di mano, chi avrebbe detto che gli israeliani l’avrebbero censurata in tv. “Una trappola” ha protestato, e la Turchia ha chiesto scuse formali, pena richiamare l’ambasciatore. La minaccia è stata ribadita ieri dopo che Ayalon ha porto scuse poco convincenti. Netanyahu e il ministro degli Esteri Lieberman hanno aspettato molte ore per dire, in sostanza, che la Turchia ha torto ma Ayalon poteva far meglio. E il ministro della Difesa Ehud Barak ha ribadito che domenica andrà in Turchia come programmato, anche se Erdogan ha fatto sapere di non volerlo incontrare. La vicenda è la goccia che fa traboccare un vaso che la Turchia ha in questi mesi coscientemente riempito.

La Turchia di Erdogan infatti è ormai difficile da immaginare come la potenza musulmana mediatrice che si distingueva per la sua operosa presenza nel campo della pace. Obama stesso, che vi compì la sua prima visita presidenziale, l’aveva vista come una porta aperta verso l’Islam, un Paese in cui la tradizione musulmana si mischia con quella laica e innovativa di Kemal Ataturk. In fondo è stata questa la valutazione che ha anche spinto in tutti questi anni la Comunità Europea a chiedersi se la Turchia possa farne parte. Di fatto, l’Europa con le sue incertezze e talvolta con petulanza è quella che ha esacerbato i sentimenti turchi, spingendoli a rendere la solidariet à islamica una della sue maggiori guide in politica estera e interna. Israele è stata la vittima sacrificale della svolta turca, la sua bandiera.

Non c’è stata occasione diplomatica in cui Erdogan non abbia dato sfogo a una profonda antipatia e riprovazione verso lo Stato d’Israele: fece grande scalpore la serie di insulti lanciati pubblicamente, a Davos, da Erdogan al Premio Nobel presidente di Israele Shimon Peres. Da allora a letteralmente due giorni or sono, quando in visita al primo ministro libanese Saad Hariri, Erdogan ha di nuovo sentito il bisogno di chiarire che lui ritiene che Israele “minacci la pace mondiale”, le prese di posizione antisraeliane sono state moltissime. Fra queste, escludere Israele dalle consuete manovre militari “Aquila Anatolica”: per questo, Usa e Italia cancellarono la loro presenza. Nel frattempo la Turchia ha scelto il versante islamico, firmando patti strategici di inusitata larghezza con la Siria, sostenendo apertamente Hamas e Hezbollah, e soprattutto tessendo con l’Iran uno dei rapporti più stretti e amichevoli che Ahmadinejad possa vantare, dall’accoglienza regale alla Moschea Blu al presidente iraniano seguita da una visita a Teheran, alle ripetute dichiarazioni anche dopo le elezioni iraniane che la Turchia mai si unirà alle richieste di fermare la corsa all’atomica.

 

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