Di Alan Edelstein.

Nella foto in alto: Alan Edelstein, autore di questo articolo.

La situazione sarebbe comica se non fosse così disperatamente tragica. Eccoci di fronte a una richiesta di riconoscimento statuale da parte di un’entità divisa in due sotto-entità. Una è controllata da un gruppo terrorista, Hamas, esplicitamente votato alla distruzione di Israele e all’eliminazione degli ebrei (basta leggere la loro Carta da incubo: http://www.israele.net/articolo,2360.htm ). Hamas – che, per inciso, sostiene di non poter controllare i gruppi ancora più estremisti che le stanno in mezzo – è un regime repressivo, antidemocratico e sempre più corrotto. La sua dirigenza appare divisa sulla questione della domanda di riconoscimento statale: uno dei suoi capi afferma che il presidente dell’Autorità Palestinese Mahmoud Abbas (Abu Mazen) deve essere perseguito come traditore se appena prova a metter piede a Gaza; un altro dice che appoggia la domanda all’Onu purché non impedisca alla “resistenza” (leggi: lotta armata) di continuare a perseguire la distruzione di Israele, e non violi il “diritto” dei discendenti di coloro che un tempo vivevano in Israele di “tornare” (leggi: invadere) un paese in cui non hanno mai vissuto. L’altra sotto-entità è guidata dal presidente Abu Mazen, quello che ha presentato la domanda all’Onu, ed è un regime profondamente corrotto, antidemocratico e spesso repressivo. Il presidente è al settimo o ottavo anno di un mandato di quattro anni. I suoi figli sono milionari grazie alla sua posizione. Praticamente non lo rispetta nessuno. È stato totalmente irrilevante durante l’ultima guerra in cui si è trovata coinvolta metà del suo ipotetico stato, e nelle trattative che hanno portato al cessate il fuoco. Il presidente Abu Mazen si rifiuta da quattro anni di negoziare con Israele nonostante le dichiarazioni del primo ministro israeliano Benjamin Netanyahu a favore della soluzione a due stati, nonostante il congelamento senza precedenti di tutte le attività edilizie ebraiche decretato da Netanyahu in Cisgiordania per dieci mesi nel 2010 e altre numerose concessioni meno pubblicizzate, e nonostante i continui appelli in questo senso dell’amministrazione Obama (che almeno in parte è responsabile di quel rifiuto). Dennis Ross, l’ex inviato di Bill Clinton al processo di pace degli anni ’90, dice che Abu Mazen si sarebbe opposto al negoziato quasi ad ogni costo perché non è disposto a fare le difficili concessioni che sono necessarie per arrivare a un vero compromesso negoziale: confini, sicurezza d’Israele, condivisione di Gerusalemme, il “non diritto al ritorno” dentro Israele ecc. Se fosse stato davvero pronto a prendere decisioni su questi temi, non avrebbe abbandonato i negoziati del 2008 con Ehud Olmert. E così, ecco Abu Mazen che va a proporre all’Assemblea Generale una risoluzione per il riconoscimento dello stato palestinese. Cosa ne viene al popolo palestinese? Forse solo la facoltà di mettere Israele sul banco degli imputati davanti alla Corte Penale Internazionale accusandolo di ogni possibile nefandezza, e in sostanza del fatto stesso di esistere. Cosa ha a che fare tutto questo con dei concreti negoziati su confini, Gerusalemme, discendenti dei profughi, sicurezza? Per capire quanto sia insensato riconoscere uno stato senza aver negoziato su questioni fondamentali come i confini, basta chiedersi: Gerusalemme verrà spaccata in due come nei 19 anni dal 1948 al 67, l’unico periodo nella sua storia plurimillenaria in cui è stata divisa in due parti? E questo significa che vi saranno di nuovo filo spinato, cavalli di Frisia e terra di nessuno, e che – come allora – non potrò percorrere le poche centinaia di metri tra la vecchia linea di cessate il fuoco e il Muro Occidentale (“del pianto”), e che tutti gli arabi dei quartieri est di Gerusalemme che oggi passeggiano il sabato sera per il centro commerciale Mamilla, appena fuori Porta di Giaffa, non lo potranno più fare? Domande banali a cui si potrà dare risposta più tardi grazie al fatto che misteriosamente la mossa unilaterale all’Onu accrescerà l’atmosfera di buona fede e fiducia reciproca? Ne dubito. Se queste domande erano così facili e non comportavano rischi, Abu Mazen si sarebbe seduto al tavolo negoziale per risolverle. Tutto quello che otterrà Abu Mazen con questa risoluzione sarà di elevare il proprio profilo in un momento in cui si era ritrovato impopolare e irrilevante, e di accrescere aspettative irrealistiche fra i palestinesi. Darà loro la sensazione di non dover fare concessioni, di non dover scendere a patti con l’esistenza di uno stato ebraico, di non dover fermare l’odio contro gli ebrei che è endemico nella loro politica e cultura popolare. Sul versante israeliano, non farà che rafforzare la destra estrema convinta che i negoziati e i compromessi non portano a Israele nient’altro che altra violenza e altre pretese. Puntano il dito contro il processo di Oslo e la successiva intifada, contro il ritiro da Gaza e i successivi attentati e lanci di razzi, contro l’offerta Barak/Clinton, l’offerta di Taba, l’offerta di Olmert e diranno che offrire e parlare e concedere non porta da nessuna parte: quello, diranno, non si degna neanche di parlarci e ora se ne va all’Onu. E potranno dire – a ragione – che si tratta di un’evidente violazione degli Accordi di Oslo, e che dunque ora anche gli israeliani sono liberi di adottare misure unilaterali. Insomma, una triste farsa. Detto questo, ho da ridire sulla posizione israeliana di secco rifiuto della risoluzione. Io avrei detto chiaro e forte una cosa diversa: Caro signor Abu Mazen, noi sosterremo questa risoluzione a patto che sia esplicitamente accompagnata dalle seguenti clausole: 1) i confini finali non saranno quelli armistiziali del 1948-67, ma saranno negoziati fra le parti; 2) i palestinesi, compresi gli abitanti della striscia di Gaza, riconoscono il diritto del popolo ebraico al proprio paese, Israele, così come questo riconosce il diritto dei palestinesi allo stato di Palestina; 3) i palestinesi assicurano che non vi saranno più violenze contro Israele; 4) accettano uno stato smilitarizzato fino a quando entrambe le parti non concorderanno che non è più necessario; 5) convengono che degli ebrei hanno il diritto di vivere nello stato di Palestina così come degli arabi/palestinesi vivono in Israele come cittadini a pieno titolo; 6) convengono che anche gli ebrei hanno una storia a Gerusalemme e una legittima rivendicazione su di essa, e accettano di negoziare una divisione o condivisione di Gerusalemme con libero accesso per tutti; 7) convengono che i profughi e i loro discendenti si potranno insediare nello stato di Palestina, ma non in Israele. Abu Mazen non accetterebbe nessuna di queste clausole. Mai. Ecco perché non negozia. Ma perlomeno, se Israele dicesse sì con queste condizioni, sarebbe chiara la sua disponibilità ad accettare uno stato palestinese (o due, se si tien conto che Hamas non ha nessuna intenzione di cedere a Fatah il controllo su Gaza; o tre, se si tien conto che il regno Hascemita di Giordania ha una popolazione per due terzi palestinese, e la regina è palestinese). Se poi Abu Mazen va avanti lo stesso, almeno a coloro che ci tengono davvero apparirebbe chiaro che i palestinesi preferiscono vivere in un mondo di fantasia dove non devono concedere nulla per ottenere il loro stato. E apparirebbe chiara la verità, almeno per coloro che vogliono vederla: per tanti palestinesi, più che avere uno stato palestinese per se stessi è importante che gli ebrei non siano qui e non abbiano un loro stato.
(Da: Times of Israel, 28.11.12-israele.net, 30-11-2012)

 

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