pesachCena a Pietroburgo, famiglia ebraica. Sento: “La colpa della crisi è tutta di questi asiatici, utzbeki, tagiki, coreani: vengono qui, parlano male il russo, puzzano, si vestono in modo diverso da noi, sono disposti a fare qualsiasi lavoro, in dieci vivono in due stanze, si proteggono tra loro…”. Pare un estratto dalla stampa antisemita pietroburghese di fine Ottocento. Penso: che grande messaggio la Haggadah di Pesach, che ci chiede di sentirci oggi, ora, adesso, schiavi in terra straniera.
Cena a Gerusalemme. Parlo della grandezza della Haggadah di Pesach, dell’idea generosa e saggia di non cancellare mai dalla memoria della nostra tradizione la sensazione della schiavitù, di esercitarsi a ricordare le umiliazioni e le paure, il prezzo e il sapore del pane altrui. Sento da un giovane israeliano e da suo padre, ebreo russo: “Quando la smetteremo di sentirci schiavi in Egitto, quando sarà passata una Pasqua senza questa tiritera, Israele sarà un Paese normale: a che serve ricordare la schiavitù?” Non ho proprio risposte, ma penso: forse perché è l’unica cosa che giustifichi il secolare, strabiliante prezzo pagato per non diventare schiavisti?

Laura Salmon, slavista

(22 marzo 2013- moked/מוקד)

 

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