Voci dai kibbutz dove ancora cadono i razzi palestinesi: “Viviamo come topi nei rifugi e mandiamo i nostri ragazzi a morire per difendere il Paese dai terroristi”.

dal confine di Gaza, regione dell’Eshkol

Da quando giovedì notte l’esercito ha lanciato la sua offensiva di terra, Israele è un altro mondo.

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Non c’è famiglia di questo piccolo Paese che non abbia figli, nipoti, fidanzati della figlia impegnati in guerra. La trepidazione è senza confini, lungo il confine di Gaza vediamo i ragazzi ammassati nelle tende e sulla strada, c’è chi torna e chi sta per entrare, il campo formicola intorno ai carrarmati. I soldati verificano le armi, stanno sovente ritti in cima alla torretta, la tv mostra le loro facce nel buio mentre l’uno mimetizza l’altro con colori della terra e nasconde i tratti di ragazzino. I giovani capi danno loro brevi viatici solenni prima di entrare: «Ecco, stiamo per fare quello per cui siamo qui, difendere il nostro Paese dai terroristi. Ci fidiamo di voi, forza e avanti».

Il difficile scopo principale è quello di distruggere i tunnel con cui Hamas lancia attacchi terroristici su Israele. I telefoni dei giovani non funzionano, è impossibile conoscere la loro condizione, le famiglie tremano a ogni annuncio di feriti. C’è stato un primo soldati ucciso, Eitan Barak, 20 anni, e quattro feriti. Un’operazione di terra costa cara, Netanyahu ha riflettuto per 11 giorni prima di decidere che non ne poteva più fare a meno. La ragione risiede in buona parte qui, nell’Eshkol, su cui si riversa ieri la consueta scarica di missili nonostante l’ingresso delle truppe. È la zona più esposta, corre per 40 chilometri lungo Gaza, ed è proprio qui, al kibbutz Sufa, che 13 terroristi usciti giovedì dalle gallerie scavate da Gaza fin dentro Israele, hanno tentato una strage. L’impresa, benché fallita, ha fatto capire che le gallerie sono una fragilità intollerabile. Lo sanno bene questi 14mila cittadini di 32 comunità che oltretutto corrono senza tregua nei rifugi. Kerem Shalom, un altro kibbutz della zona insieme a Sufa è stato attaccato dalle gallerie, e nel kibbutz di Ein ha Shlosha sono state scoperte due nuove imboccature. Buchetti nella polvere, che coprono a volte tunnel in cui può passare un camion. Ein ha Shlosha è un kibbutz verde: «Abbiamo cercato di cooptare i nostri vicini alla coltivazione di patate e pomodori. I kibbutz dell’Eshkol sono ottimi agricoltori, ma pare che preferiscano i razzi» dice sconsolato Chaim Yelin, il presidente della regione che ci accompagna fino a una casa fra le palme. È contento che l’ingresso di terra cerchi di porre fine al loro calvario, ma triste per la guerra che uccide. I bum si susseguono, un po’ i cannoni di qua, un po’ i missili di là. Qui ci sono solo 5 secondi per rifugiarsi, dato che la distanza è di 4 chilometri da Gaza da cui si vedono fumare gli obiettivi colpiti. Meno male che non era in casa alle 9 di sera l’84enne padrona di questa casetta fra le palme: il tetto è tutto un buco da cui pendono residui di soffitto, la libreria, il tavolo, gli oggetti, tutto è a pezzi. Dani, un membro del kibbutz, si ricorda quando 25 anni fa si andava a Gaza sulla spiaggia, e poi al mercato si comprava il pesce fresco, e poi… ognuno data il disastro in momenti diversi. Boaz Kretchner il responsabile dell’organizzazione dei 32 fra kibbutz e moshav (una forma più moderata di collettivismo) ricorda che dal suo kibbutz, Tzeelim si organizzavano tre autobus di bagnanti. Fino all’Intifada, e poi fino al 2006, quando Hamas ha preso il potere.

Boaz non dorme da venti ore, scuotendo la coda di cavallo mi prega di ripararmi nei rifugi del Consiglio Regionale dell’Eshkol, dove ci incontriamo. Qui arrivano tutte le richieste, i bisogni, di un mondo sotto il fuoco. Se mancano il cibo o le medicine, Boaz spedisce ai kibbutz i camion fra un missile e l’altro. E mentre le case più prossime a Gaza sono munite, una a una, di una stanza blindata, ci sono kibbutz dove, spiega, «noi portiamo rifugi collettivi di cemento». Vede, dice, e la sua è soprattutto una domanda, che mondo strano, mentre qui dal passaggio Kerem Shalom lasciamo passare i camion per loro, Hamas li bombarda, così come hanno bombardato la centrale elettrica, e ora chi ci può andare ad accomodarla? All’orizzonte si alzano colonne di fumo, l’operazione di terra dell’esercito israeliano è molto cauta, coperta dagli F16 e da informazioni continue. E tuttavia quelle maledette gallerie le puoi far saltare per aria solo andando a infilarti là sotto. «Ci vuole pazienza, coraggio, le troveranno» dice il presidenre Yelin. In una stanza con molti computer due ragazzi ricevono tutte le richieste possibili: «Ma da 11 giorni le richieste sono crollate: i cittadini con la guerra sanno che i guai sono già tanti, inutile lamentarsi». Ma i servizi sono attivi: vediamo un centro di assistenza per anziani, uno antitrauma. Il confine brucia: l’esercito, lentamente, cerca di smantellare le gallerie, ma gli aerei bombardano, i palestinesi parlano di 24 morti, Hamas non vuole mollare, deve dimostrare la sua forza anche all’Egitto. Hamas lo vede come il capo dello schieramento anti Fratellanza Musulmana di cui fa parte. E sparando punta al grande disastro.

 

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