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[b]Autore: Davide Frattini – Francesco Alberti – Maurizio Caprara[/b]
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Dal CORRIERE della SERA del 10 luglio 2007, un'intervista a Ehud Olmert

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[b]GERUSALEMME[/b] — Ehud Olmert entra dalla porta che dal suo ufficio conduce alla sala del Consiglio dei ministri. Sceglie una sedia all'estremità del lungo tavolo in legno chiaro, non la sua poltrona, quella al centro, l'unica con lo schienale alto, da dove ogni domenica mattina coordina la riunione del governo. Non che voglia lasciarla libera. È convinto che non ci saranno elezioni anticipate, è sicuro di sopravvivere politicamente ai prossimi tre anni e dice di essere pronto a ricandidarsi alla guida di Kadima, il partito che ha fondato con Ariel Sharon.
Abito blu scuro e cravatta rossa, ha gli occhi stanchi di chi si è svegliato presto («come ogni mattina, sono abituato») e le occhiaie di chi in un anno è diventato uno dei premier meno popolari della storia d'Israele. Dodici mesi dal 12 luglio del 2006, quando ha deciso di rispondere con un'offensiva militare al rapimento di due soldati sul confine con il Libano. Una decisione che la commissione Winograd, incaricata di indagare sulla gestione dei 34 giorni di conflitto con l'Hezbollah, ha definito «sbrigativa»: «Una scelta affrettata, che deviava dalla strategia precedente, fatta senza che fossero stabiliti obiettivi chiari e concordati».
«Noi israeliani siamo strani», risponde. «Siamo tristi quando vinciamo una guerra. La situazione nel sud del Libano è fondamentalmente diversa da un anno fa. L'esercito libanese è dispiegato in quelle zone assieme alla forza multinazionale Unifil, gli Hezbollah non sono più sul confine a minacciare i nostri cittadini. Hanno perso la voglia di un altro confronto con Israele: il leader Hassan Nasrallah e il suo stato maggiore si nascondono, non vivono più come uomini liberi».
Domenica sera ha invitato Romano Prodi, il presidente del Consiglio italiano, nella residenza a Gerusalemme. Cena a base di pesce e scambio di idee sulla situazione in Medio Oriente. Una regione dove Olmert vede «opportunità », la parola che ripete in questa intervista concessa al Corriere della Sera eal quotidiano spagnolo El Paìs.
Prodi ha dichiarato al giornale israeliano Maariv: «Bisogna condurre una ferma trattativa con l'Iran e fare una distinzione tra il nucleare a scopi civili e quello militare, rassicurando Israele che non ci sarà il nucleare militare ». Lei è disposto ad accettare che Teheran sviluppi energia atomica per usi civili?
«In teoria, quella tra nucleare civile e militare è una distinzione possibile. Nella realtà, noi sappiamo che cosa significhino i proclami iraniani. L'ho detto a Prodi: Teheran parla esplicitamente di possedere armi nucleari e con lo stesso entusiasmo annuncia di voler cancellare Israele. E allora mi devo chiedere: come puoi distruggere un'altra nazione con l'energia nucleare pacifica? La lunga esperienza del popolo ebraico ci insegna che quando qualcuno minaccia di eliminarci, dobbiamo prenderlo seriamente».
Israele sta progettando un attacco per fermare il programma atomico iraniano?
«Perché pensare subito a soluzioni estreme? Ci sono molte opzioni che possono essere efficaci. Gli iraniani adesso hanno problemi di razionamento del carburante, vuol dire che le sanzioni economiche stanno funzionando sempre di più. Usiamole per mostrare loro che non è una scampagnata fronteggiare il mondo intero. Il presidente Bush ha detto che non esclude un'azione militare americana, quindi dovete chiedere a lui».
Maariv, Prodi ha detto: «È utile mantenere i contatti e un dialogo con la Si ria. Anche un dialogo difficile».
«Ho ripetuto molte volte di voler arrivare alla pace con la Siria e c'è una sola strada per questo: parlare direttamente. Ma tutte le mie esplorazioni hanno dimostrato che il presidente Bashar Assad punta a parlare con l'America e vorrebbe usare Israele per raggiungere questo obiettivo. Se Assad vuole dialogare con me, lo faccia».
Massimo D'Alema, ministro degli Esteri italiano, ha commentato in un'intervista a Franco Venturini, sul Corriere della Sera: «Se Abu Mazen avesse le carte giuste nelle sue mani, i moderati si troverebbero in una posizione di forza e potrebbero tornare a un processo di conciliazione con Hamas».
«Non credo nella riconciliazione con Hamas. Hamas è una forza distruttiva, un'organizzazione estremista e fondamentalista, concentrata unicamente su come continuare il conflitto con Israele e pronta, come il mondo e Abu Mazen hanno potuto vedere, a uccidere i palestinesi. Un compromesso con Hamas è un compromesso con il terrorismo. La creazione di un governo di unità nazionale con i terroristi è la strategia opposta a quella che può portare la pace in Medio Oriente. Posso solo ripetere quello che Abu Mazen mi ha detto: "Non farò mai più un accordo con loro, li combatterò sempre". Spero che resti su questa posizione».
Due ministri nel suo governo hanno proposto di liberare Marwan Barghouti per rafforzare il Fatah di Abu Mazen.
«Non stiamo neppure esaminando la questione ».
Dopo la vittoria militare di Hamas nella Striscia di Gaza, lei ha parlato di «un'opportunità ».
«Potrei usare quel che è successo per dimostrare che noi avevamo ragione a opporci al governo di unità nazionale tra i palestinesi. Preferisco guardare avanti: è un'opportunità che va sfruttata per conseguire la pace. Non siamo indifferenti alle sofferenze che i palestinesi hanno patito in questi decenni di conflitto. Anche le sofferenze dei rifugiati: dovremo aiutarli a riabilitarsi in un futuro Stato palestinese».
Gaza è adesso separata dalla Cisgiordania. Sembra che la situazione stia diventando: due popoli, tre Stati.
«La soluzione resta due popoli, due Stati: uno Stato palestinese e uno Stato ebraico. Non siamo stupidi, non vogliamo dividere Gaza dalla Cisgiordania. Sappiamo che nella Striscia vive un milione e mezzo di palestinesi, come possono essere separati dagli altri. Gaza è controllata interamente da Hamas, noi ce ne siamo andati nel 2005. Combattono tra di loro, si uccidono tra di loro, Hamas contro Fatah, Fatah contro Hamas. Non credo di dover essere io a dover dare tutte le risposte ai palestinesi, a fornire soluzioni perché smettano di ammazzarsi. Sono pronto a collaborare con i moderati che vogliono la pace».
Tony Blair è stato nominato inviato del Quartetto per il Medio Oriente.
«Un uomo straordinario e coopererò con lui».
Poche settimane fa uno dei consiglieri diplomatici di Blair ha confidato al quotidiano Haaretz: «Israele interferisce con la guerra al terrorismo per il suo rifiuto di sanare la ferita che nutre gli estremisti». Una posizione condivisa da molti Paesi europei.
«Le assicuro: ci sono alcuni problemi nel mondo che non sono legati al conflitto israeliano- palestinese, eppure gli "amici" di Israele amano sempre addossare le responsabilità a noi per poter venire a chiederci qualcosa. Il vero problema del Medio Oriente — e va ben oltre i confini di questa regione — è il fondamentalismo islamico. Ha scatenato la violenza in Afghanistan, Pakistan, Iraq. Il fondamentalismo è la natura della rivoluzione iraniana. Israele è l'unica nazione non islamica in un oceano musulmano: è un obiettivo naturale per queste organizzazioni. Ma non siamo la causa, noi siamo le vittime ».
Dopo il primo rapporto della commissione Winograd, Tzipi Livni, ministro degli Esteri, le ha chiesto di dimettersi.
«La politica è piena di persone ambiziose. Le ho spiegato che non può essere un membro del governo, se non sostiene il premier. Ha scelto di restare. Sono una persona disposta a perdonare: se qualcuno fa un errore e riconosce che è stato un errore, non c'è bisogno di essere vendicativi».
Ehud Barak sta preparando un incontro con Abu Mazen. Teme la concorrenza?
«Le ricordo che Barak è il mio ministro della Difesa e non un nemico. Se mi chiederà di incontrare Abu Mazen e ci sono le ragioni per farlo, perché no?».
Il suo ministro della Difesa è anche il leader laburista e ripete di volere le elezioni anticipate.
«Chi non progetta di raggiungere incarichi più importanti? Credo che Barak possa essere un buon ministro della Difesa e lo aiuterò a occupare quella poltrona il più a lungo possibile».
Qual è il suo incubo peggiore? Il ritiro americano dall'Iraq o un Iran con l'atomica?
«Io sono un grande ottimista. Quando mi sveglio, penso ai sogni non agli incubi. Il sogno più grande è che un giorno ci sarà la pace in Medio Oriente. Invece di disperdere le nostre risorse per combatterci, le useremo per trasformare questo posto in un giardino e un paradiso».

[b]La cronaca di Francesco Caprara sulla visita di Prodi in Israele:[/b]

GERUSALEMME — Il tempo dell'odio è scaduto: «Non si può rinviare ulteriormente, dopo sessant'anni, il momento della pace». Sotto il tendone alzato davanti alla residenza del primo ministro israeliano, Ehud Olmert, Romano Prodi ha disegnato a parole quello che considera l'unico scenario possibile per porre fine al conflitto tra ebrei e palestinesi: «Due Stati sovrani e indipendenti per due popoli ». Una chimera, vista con gli occhi di oggi, ma per la quale l'Italia, «vicina al popolo ebraico indipendentemente dal colore del suo governo », continuerà a lavorare. Uno sforzo che, alla luce dello scontro tra Hamas e Fatah, punta a coinvolgere sempre più l'ala moderata del movimento palestinese: «Condividiamo la necessità di sostenere Abu Mazen e il governo Fayyad e bisogna fare di tutto per evitare una crisi umanitaria a Gaza» ha affermato il Professore, oggi atteso a Ramallah dal presidente dell'Autorità palestinese che, in un'intervista al Tg1, ha lanciato l'allarme: «Al Qaeda sta entrando a Gaza — ha detto Abu Mazen — e Hamas protegge al Qaeda: la Striscia è in pericolo ».
In questa polveriera sempre accesa, un elemento di stabilità stanno invece diventando i caschi blu della missione Unifil in Libano, alla quale l'Italia fornisce 2.500 soldati. Tra i cenni d'assenso «dell'amico Olmert», Prodi si è speso a favore del proseguimento della missione («Il mandato va rinnovato »), non escludendo però, se necessario, la possibilità di modificare le regole d'ingaggio. Un'ipotesi che il premier italiano, raccogliendo un invito avanzato dal primo ministro israeliano, ha così motivato: «Finora le regole d'ingaggio hanno funzionato bene, ma se ci dovesse essere un invito dell'Onu, saremmo pronti a farlo: in missioni di questo tipo eventuali modifiche vanno messe in conto».
Cordialità e abbracci nel secondo giorno della visita di Prodi a Gerusalemme. Olmert ha ricordato con riconoscenza che il Professore fu «il primo leader mondiale» ad interpellarlo sulla necessità di organizzare una spedizione in Libano: «So che Israele ha un amico stretto in Italia con cui promuovere interessi comuni». A sua volta, Prodi non si è sottratto all'impegnativo protocollo voluto dai padroni di casa e, dopo due ore di visita al Museo dell'Olocausto («Senza la memoria siamo fatalmente spinti verso l'abisso» ha lasciato scritto sul libro dei visitatori) e dopo aver deposto una corona nella Tenda della Rimembranza e un'altra sulla tomba di Rabin, si è recato in elicottero nella cittadina-simbolo di Sderot, bersaglio quasi quotidiano dei missili Qassam lanciati dall'estremismo palestinese (due ne sono stati sparati anche ieri, senza provocare danni o vittime, qualche ora prima dell'arrivo del premier). Accompagnato dal ministro degli Esteri, Tzipi Livni, Prodi ha escluso «vi siano ora le condizioni per una forza di pace a Gaza» (ipotesi ventilata di recente dal ministro D'Alema e ieri rilanciata da Abu Mazen), preferendo soffermarsi sulla «quotidiana paura di vita» degli abitanti di Sderot, per poi lanciare un pubblico ad Hamas «perché liberi in tempi brevi i soldati israeliani rapiti».
Sull'Iran il tono di Olmert è stato durissimo: «Non potremo mai consentire che uno Stato che fa appello alla distruzione di Israele possa possedere un arsenale nucleare». «Siamo assolutamente d'accordo: Teheran non può e non deve avere nessuna capacità militare nucleare», ha detto il premier italiano. E altrettanto vigorosa la condanna rivolta da Prodi «a chi nega la Shoah ». Più problematico il discorso sulla «tenuta» dell'Italia, primo partner economico dell'Iran, rispetto alle sanzioni. Il Professore ha riconosciuto il problema: «Le sanzioni danneggiano pesantemente le nostre imprese, il commercio è crollato, ma nonostante ciò sono applicate con diligenza, anche quelle finanziarie». Quindi, con nota polemica verso qualche alleato europeo: «Siamo più diligenti di altri…». Unico punto su cui Prodi ha preferito abbozzare è stata la richiesta avanzata da Olmert di affidare all'Unifil anche il presidio dei confini tra Siria e Libano: «La decisione spetta all'Onu…».

[b]L'analisi di Maurizio Caprara sulla disponiblità espressa da Prodi a una revisione alle regole d'ingaggio della missione dell'Onu in Libano:
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ROMA — Quando Romano Prodi dice di essere pronto a cambiare le «regole di ingaggio» per la missione Unifil in Libano «se ci dovesse essere un invito dell'Onu» a farlo, non esprime un desiderio, anzi. Il presidente del Consiglio constata semmai una condizione di fatto. Per quelle norme, che stabiliscono come devono comportarsi sul terreno i circa 13 mila militari della forza multinazionale chiamata United Nations interim force in Lebanon, ètempodi esami.
La nuova stagione è cominciata quando, il 24 giugno, un attentato con bombe devastanti ha ucciso a Sahel el Dardara, nel Sud, sei uomini del contingente spagnolo. Quegli scoppi sembrano aver rotto un incantesimo politico-militare. Lo stato di grazia in virtù del quale i soldati inviati a vigilare sul cessate il fuoco raggiunto dopo la guerra tra Israele e Hezbollah non erano stati attaccati in maniera pesante dai fondamentalisti islamici. Anche se il «Partito di Dio», Hezbollah, ha preso le distanze dalla strage, anche se il presidente del Consiglio italiano osserva che finora le regole di ingaggio hanno «funzionato bene », il clima nel quale agisce la forza multinazionale può risultare diverso da prima. E, almeno in teoria, può richiedere aggiornamenti nelle norme di comportamento per i casi estremi.
Le regole di ingaggio, che attengono alla sfera militare, vengono in genere definite alla luce degli obiettivi di una missione. Oltre che a causa delle bombe del 24 giugno, è tempo di esami perché, sul piano politico, sta per scadere il mandato in base al quale il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite aprì la fase della cosiddetta Unifil- 2 decidendo di portare fino «a un massimo di 15 mila» persone le file dell'Unifil, in precedenza assai ridotte.
Secondo la risoluzione 1701 dell'11 agosto 2006 i militari stranieri inviati dall'Onu possono rimanere in Libano fino al 31 agosto 2007. Nessuno prevede che tornino a casa. Per rinnovare il mandato dell'Unifil, che fu frutto di un defatigante negoziato, si delineano al momento due strade.
La prima è la via preferita dal primo ministro libanese Fouad Siniora: una risoluzione- fotocopia che proroghi l'autorizzazione all'impiego di Unifil senza ritoccarne le clausole. Il governo italiano non vede male questa ipotesi.
La seconda strada consiste in una modifica del mandato della forza multinazionale, in una risoluzione diversa. Nella 1701, il Consigliò di Sicurezza si limitò a «esprimere l'intenzione di considerare in una successiva risoluzione ulteriori rafforzamenti al mandato e altri passi per contribuire all'applicazione di un cessate il fuoco permanente ».
La partita è aperta. Anche ieri, il governo israeliano ha chiesto a Prodi che il mandato dell'Unifil sia più determinato per quanto riguarda il blocco alle importazioni di armi da parte di organizzazioni diverse dall'esercito libanese, dunque da parte di Hezbollah attraverso la frontiera tra Siria e Libano. Alla sollecitazione di Israele, che porterebbe a una risoluzione diversa, gli Usa non sono indifferenti.
È uno dei punti chiave della partita diplomatica in corso. A New York, tra Palazzo di Vetro e dintorni, i rappresentanti dei Paesi interessati al futuro del Libano hanno parlato del 31 agosto in via preliminare. Trattative vere non si prevedono prima del 18 luglio, quando il Segretario generale dell'Onu Ban Ki Moon o un suo delegato presenteranno il rapporto periodico sull'applicazione della 1701.
Sui confini è già stato presentato un altro rapporto. Lo ha scritto un comitato chiamato Lebanon independent border assessment team. La frontiera con la Siria, affidata all'esercito libanese, risulta non sufficientemente al riparo dal traffico di armi. Il comitato ha proposto di rafforzare gli equipaggiamenti e ha ritenuto necessaria la cooperazione di Damasco. La meno interessata all'autonomia del Libano.


 

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